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QUALE RUOLO OGGI PER UN SINDACATO…

(19 Giugno 2013)

Editoriale del n. 6, anno I, di Alternativa di Classe

Il 31 Maggio è stato firmato da CGIL, CISL e UIL con Confindustria il Protocollo di intesa sindacale sulla “rappresentanza”, che è destinato a cambiare il quadro, non solo formale, dei rapporti tra “le parti sociali”, specialmente con una sua probabile trasformazione in legge. Sul dettaglio dei suoi contenuti torneremo più avanti, ma risulta importante, prima di ogni altra considerazione, il cercare di puntualizzare il ruolo stesso, la ragione d’essere, di una organizzazione sindacale.
Innanzi tutto, è giusto partire dalla definizione del termine. “…Un sindacato è un’organizzazione “di rappresentanza e di tutela dei lavoratori dipendenti nelle società industriali”, cioè un tipo di organizzazione nata con esse.
In Gran Bretagna nel XVII° secolo cominciarono a nascere le prime “società di assistenza e di mutuo soccorso” direttamente dagli operai per le loro necessità di fronte alla durezza dello scontro col padronato; queste prime forme parasindacali si estesero agli altri Paesi europei del capitalismo nascente. Così in Francia nel 1791 venne approvata la Legge Le Chapelier, che proibiva le associazioni sindacali e lo sciopero; analogamente in Inghilterra con i “Combination Act” del 1799 e del 1800. Ciò favorì la locale nascita del movimento “luddista”, operai che distruggevano le macchine, in particolare quelle tessili, colpevoli di aver fatto diminuire la domanda di forza-lavoro, calmierando i salari. La fine di tali leggi in Inghilterra nel 1824 significò la nascita di associazioni sindacali degli operai qualificati, fino a quelle nazionali ed aperte a tutti, che cominciarono a formarsi dal 1832 in poi. Fu nel 1868 il primo Congresso delle “Trade Union”, l’organizzazione permanente dei sindacati inglesi, che escludevano lavoratori non specializzati, quelli a basso salario e le donne; nel ’76 ottennero il riconoscimento istituzionale insieme allo status legale ed alla presenza in Parlamento di un Comitato, che poi diventerà il Partito Laburista. In Francia solo le dure lotte dei tessitori di Lione del ’31 e del ’34 riuscirono a smuovere le acque, fino ad ottenere nel 1864 il diritto di “coalizione sindacale” e nell’84 l’abrogazione della Legge Le Chapelier ed il riconoscimento giuridico. Durante questo ventennio, in tutto il resto d‘Europa nacquero sindacati riconosciuti, come anche il diritto di sciopero: in Belgio, in Austria, in Spagna…. [tratto da “IL LAVORO, Cap. 5, pag.18, Opuscolo Tematico n.2, autoprodotto nel Gennaio ’07 da ALTERNATIVA DI CLASSE]”.
Vista l’origine storica dei sindacati, si può affermare che si tratta di organismi deputati, in genere, alla contrattazione collettiva delle condizioni di lavoro, a partire dal salario; dovrebbero essere, perciò, organismi che rendono più forte il lavoratore nei confronti del padrone, in quanto lo costringono a contrattare collettivamente, invece che individualmente, le condizioni dei rapporti di subordinazione nelle aziende. In quanto tale, perciò, evidentemente, il ruolo di un sindacato è sempre stato distinto da quello di un partito politico. Nell’accezione marxista, la differenza di fondo è che il sindacato si occupa degli interessi immediati del proletariato, mentre il partito, comunista, si occupa anche degli interessi storici, in quanto cosciente dei limiti intrinseci del sistema capitalistico.
Nel tempo le lotte, anche se solo di tipo rivendicativo, sono andate spesso oltre i limiti posti dall’organizzazione sindacale, che, in genere, più attenta alle proprie dinamiche di assunzione di poteri nelle istituzioni date, che alle condizioni di lavoro degli iscritti, ha assunto una funzione di recupero alle dinamiche proprie della società borghese, vivendo, a volte, solo grazie al proprio riconoscimento, da parte delle controparti, di unico agente contrattuale. Non va, peraltro, sottaciuto, che tale riconoscimento di “agente unico”, in alcuni momenti, quando la forza padronale è arrivata a cercare di “stravincere”, imponendo la contrattazione individuale, è servita ad arginare tali tentativi.
Anche nelle lotte del 1968-’69 il sindacato si inserì solo in un secondo momento, contrattando la trasformazione in legge di conquiste che, al momento, erano ancora più avanzate di testi di legge, come lo “Statuto dei lavoratori”, rimasto, peraltro, formalmente intatto fino all’anno scorso. Infatti: “…In Francia nel ’68 ed in Italia nel ’69, con “l’autunno caldo”, partirono grandi lotte, che poi si diffusero in tutto l’Occidente capitalistico e da cui” - importante sottoprodotto (N.d.r.), - “scaturì nel ’70 lo “Statuto dei lavoratori” (Legge n.300). L’onda crescente cominciò a calare nell’80 con la Thatcher in Gran Bretagna, che nell’84 approvò il “Trade Union Act”, che restringe il diritto di sciopero; il tentativo fu seguito da tutti i Paesi Occidentali, finchè nel ’93 in Italia fu avviata la “concertazione” a tre, vicina agli usi scandinavi. In realtà era già qualche anno che l’insofferenza verso la moderazione sindacale aveva originato fenomeni di autorganizzazione in alcune categorie; tali fenomeni, che in un primo momento avevano mescolato posizioni corporative con posizioni classiste, sedimentarono poi il “sindacalismo di base”, che cercò di legarsi alle posizioni politico-sindacali più “anticoncertative” e conseguenti, pagando, però, il prezzo dell’abbandono della autorganizzazione più genuina. [tratto da “IL LAVORO, Cap. 5, pag. 20]”
Come è noto, dalla “concertazione” si è usciti “da destra”, con la lunga fase degli “accordi separati”, dove, in quasi totale assenza di esplicita conflittualità, erano le controparti a scegliersi gli interlocutori che più aggradavano loro. Siamo arrivati a considerare quasi i giorni nostri, in cui i governi di Berlusconi e Monti, come il padronato, con in testa Marchionne, organizzavano finte trattative con i sindacati complici: CISL, UIL ed UGL. La CGIL, sindacato anch’esso da tempo burocratizzato, e disabituato ad esprimere sufficienti livelli di conflitto, si è trovata fortemente in difficoltà in questa fase, rimanendo spesso “in mezzo al guado” fra difesa dei lavoratori ed adesione alle esigenze del capitale e dei suoi governi. Ha, così, trovato, come bussola di comportamento, la spasmodica ricerca della “sponda politica” parlamentare, ritenendo di averla trovata nel, mai abbandonato, PD e nel SEL.
Oggi, che sul terreno politico è stato varato il “governissimo” di Letta & Alfano, alla CGIL paiono maturate le condizioni per riprendere il cammino unitario con CISL e UIL, dimenticando anche i torti proprio da questi patiti. E’ così che, a fronte di un Letta, che, proprio in Italia, dove il costo del lavoro è arrivato ad essere più basso di quello medio dell’eurozona (cioè dei 17 Paesi Ue in cui è in uso l’Euro), ha la faccia tosta di chiederne una (ulteriore) riduzione, la CGIL, in tema di proposta della “staffetta generazionale”, introdotta dall’Accordo separato sulla produttività, la accetta se “traguarda (?!) un contratto a tempo indeterminato per il giovane”, e discute ora con CISL e UIL solo del fatto se i giovani da assumere a “part time” al posto dei lavoratori “anziani” debbano o meno essere loro parenti, oppure se sia giusto o meno che la metà del loro tempo, resosi “libero” dal lavoro, quei lavoratori, in realtà “esodati a metà”, non lo debbano impiegare in attività “socialmente utili”!…
A segnare l’inizio di una nuova fase nei rapporti sindacali è, però, soprattutto il nuovo Protocollo sulla rappresentanza, un Patto con Confindustria, che, senza prevedere l’istituto obbligatorio di una consultazione di tutti, certificata e vincolante, ed istituendo una sorta di versione totalitaria della rappresentanza della maggioranza fra i lavoratori, punta a prevenirne la conflittualità, escludendo, di fatto, il sindacalismo di base. La norma che vieta alle Organizzazioni Sindacali firmatarie del Protocollo del 31 Maggio di “…promuovere iniziative di contrasto agli accordi…” definiti secondo tali procedure, punta, invece, a depotenziare anche l’azione delle minoranze interne al sindacato confederale, che volessero opporsi alla cosiddetta “contrattazione di restituzione”, cioè “a perdere”, legando loro le mani già a livello aziendale. Vuole essere la “colata di cemento” sull’autonomia sindacale ed il diritto del lavoro, che il padronato chiedeva!
Risulta evidente che, da qualsiasi collocazione sindacale possibile ci si muova, dalla “Rete 28 Aprile – Opposizione CGIL”, come dalle diverse organizzazioni del sindacalismo di base, occorre esprimere a tutti i livelli la più forte opposizione a questo Accordo, alla sua logica ed al suo iter. Altrettanto evidente risulta, però, che ci si debba anche porre i problemi con una visione prospettica, per non incorrere in pesanti errori di valutazione.
Prima di tutto, non si può fare a meno di osservare che, con il procedere della crisi, anche molte di quelle che in passato erano considerate “rivendicazioni sindacali”, oggi assumono sempre più un carattere direttamente politico, accelerando una tendenza, che è in atto non da poco tempo. Ciò, peraltro, non significa che lo strumento sindacale vada tout court abbandonato, ma significa che oggi è necessario non utilizzare un dato strumento sindacale per rivendicazioni che esso strutturalmente non può affrontare.
Nello stesso tempo, occorre “…capirsi su cosa si intende per “sindacato di classe”: si tratta di un sindacato con un livello di democrazia sufficiente affinché possa in esso prevalere una linea politica rivoluzionaria. IL SINDACATO, perciò, NON PUO’ ESSERE STRUTTURALMENTE RIVOLUZIONARIO; può essere, però, uno strumento classista nelle condizioni anzidette. [tratto da “IL LAVORO, Cap. 5, pag. 21]”. In base a questa nostra definizione, da tempo, ormai, la CGIL non è tale, in quanto, ad una analisi materialista, essa ha sviluppato al suo interno una burocrazia, con interessi prevalenti propri, diversi, e spesso divergenti, da quelli dei lavoratori iscritti. D’altro canto, la necessità di uno o più strumenti genuinamente sindacali, e perciò indipendentemente dai livelli del diritto borghese vigente, ad oggi non può dirsi certo tramontata, se non altro per la persistenza di zone sociali a sindacalizzazione scarsa, o, addirittura, nulla. Ciò, però, non può assolutamente significare che un (eventuale altro) sindacato, pur con le caratteristiche di un “sindacato di classe”, possa divenire il principale strumento organizzativo dei rivoluzionari!
In altre parole, non va confuso lo strumento organizzativo dei rivoluzionari, questione del tutto diversa e su di un piano diverso, ma, più che mai, all’ordine del giorno oggi, con le residue possibilità d’uso dello strumento sindacale, come tale. Ciò, in quanto va poi tenuto conto che, in una situazione successiva, oggi non si può dire quanto prossima, ma certamente più avanzata, in cui il protagonismo dei lavoratori nelle lotte si attiverà fortemente, non potrà che “entrare in campo” una autorganizzazione vera e propria, e non potrà certo limitarsi al terreno sindacale, vecchio o nuovo che sia!

Alternativa di Classe

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