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Se non le donne, chi?

Se non le donne, chi?

(11 Dicembre 2011) Enzo Apicella

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Violenza di genere: riforme o rivoluzione?

(19 Giugno 2013)

Solo una nuova società può eliminare le radici della violenza sulle donne. Solo un "femminismo socialista" può lottare per questo fine.

Il 10 giugno il Ministro degli Interni Angelino Alfano ha nominato Isabella Rauti consigliera per le politiche di contrasto della violenza di genere e del femminicidio, ed ha dichiarato di aver compiuto questa scelta in base al curriculum che la ex collaboratrice dell'ex Ministra alle Pari Opportunità Mara Carfagna può vantare. A parlare più efficacemente di qualsiasi curriculum sono le sue posizioni politiche circa la libertà delle donne nella gestione del proprio corpo. Isabella Rauti ha infatti sostenuto la Marcia per la vita del 12 maggio 2013; è la seconda firmataria della legge Tarzia, legge per la riforma dei consultori, in funzione contraria alla RU486; si è dichiarata “assolutamente favorevole” a che nello Statuto regionale si scriva che la Regione intende tutelare e promuovere il diritto alla vita di ogni essere umano fin dal concepimento; ed infine si è dichiarata perplessa circa l'applicazione della già obiettatissima legge 194 perché sarebbe stata messa in pratica soprattutto in materia d'aborto, piuttosto che nella parte in cui tratta di concepimento e maternità. Le sue posizioni non sembrano essere in contraddizione con la carica per la quale è stata eletta, e questo la dice già lunga su come lo Stato borghese si stia servendo della lotta al femminicidio: inscritta nella battaglia istituzionale, si va via via configurando, da lotta alla violenza di genere quale era, a battaglia per la creazione di una "task force interministeriale che metta a sistema le politiche di contrasto e di prevenzione e che permetta di elaborare un piano complessivo efficace", come ha auspicato la Rauti stessa, in piena sintonia con la fagocitazione in atto delle lotte femministe in quell'apparato istituzionale che tutto vuole mediare. Insomma, è chiaro che la nomina della Rauti e la carica stessa che rappresenta siano una versione aggiornata e più politically correct del securitarismo che la città di Roma ha sperimentato con l'ex sindaco Alemanno per cinque anni.

La domanda che comunque occorre farsi è se lo Stato borghese possa essere in grado di arginare in qualunque modo la violenza di genere, o meglio, se gli strumenti che mette a disposizione siano quelli adeguati, e quindi che tipo di lotta occorre condurre perché i diritti e gli interessi delle donne siano sempre tutelati.
Consultori, centri-antiviolenza, rifugi per donne maltrattate e per i loro figli sono tra i primi enti ad essere colpiti dai tagli che lo Stato opera, in tempi come questi, di crisi economica (come fa con tutto il pubblico), ma il dato significativo è che per ovviare alla mancata elargizione di fondi statali ci si rivolge agli istituti confessionali: gli enti, se non scompaiono, cambiano radicalmente nella sostanza, perché da laici si trasformano in cattolici, diventano un affare non più dello Stato, ma una questione che rientra nel vasto mondo del volontariato cattolico; da qui la facilità con cui il tema dell'aborto si è trasformato in discorso esclusivamente etico che legittima e spiana la strada alla presenza di obiettori di coscienza su tutto il territorio nazionale. Lo Stato, insomma, se ne lava le mani appena può, anche se apparentemente la carica della Rauti vorrebbe dimostrare il contrario. Ma è solo una mossa politica di facciata: le Istituzioni borghesi si stanno servendo delle donne di destra, centro e sinistra, moralisticamente distinte dalla corte di veline ed escort che circondava l'ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, per far passare il messaggio che non ci si può più lamentare del sessismo in Italia perché abbiamo finalmente “le donne” (di quale classe sociale, però, non se lo chiede quasi nessuno) alla Camera, al Senato e nelle giunte regionali, provinciali e comunali.

Per una reale prevenzione della violenza domestica e della violenza di genere occorrerebbe infatti ben altro: né cariche politiche (nemmeno ricoperte da donne), né task force interministeriali metteranno fine a tutte le concause che contribuiscono ai femminicidi che avvengono ogni giorno in Italia, semplicemente perché le cause stesse che sfociano poi nell'assassinio (ultimo atto di una serie di violenze) sono create dallo Stato borghese in persona.
Per mettere fine alla violenza di genere occorre allontanare qualsiasi forma di associazionismo religioso da discorsi che riguardano la vita e la salute delle donne; occorre destinare i fondi necessari a tutti quei consultori, centri-antiviolenza e rifugi ora chiusi per i tagli al sociale, soldi che la crisi economica, strutturale al capitalismo, non permette di poter spendere; occorre che le donne siano economicamente indipendenti dalla famiglia, ma non attraverso quel reddito di cittadinanza che di nuovo le renderebbe succubi dello Stato sociale che, com'è stato ampiamente dimostrato, è smantellabile in qualsiasi momento in effetto di una crisi del capitalismo, quanto piuttosto da un lavoro sicuro. Ma nessun governo di riforme, nemmeno quello più "illuminato" o radicale, può permettersi di recidere i tentacoli con cui la Chiesa cattolica soffoca gli enti statali, né coprire le spese necessarie che servono alle strutture pubbliche, né tantomeno garantire quell'indipendenza economica che renderebbe le donne non ricattabili e sicure del proprio ruolo nella società. La violenza sulle donne è quindi strutturale al tipo di Stato in cui viviamo ed al mantenimento in vita del capitalismo stesso: senza di essa, non potrebbero sopravvivere. Nessuna riforma e nessun ministero possono davvero estirpare alla radice la violenza sulle donne dalla società in cui viviamo, perché lo Stato si nutre del nostro essere, sostanzialmente, soggetti ricattabili.

La questione va dunque prendendo questa forma: o si lotta genericamente contro la violenza sulle donne, o contro quella dello Stato e del capitalismo, dato che proprio nel loro usarle come pezze da apporre alle loro mancanze, danno delle donne l'immagine di soggetti sempre e comunque disponibili per la famiglia, lo Stato e il capitale. Sembra chiaro che il tipo di lotta da condurre perché i diritti delle donne siano sempre tutelati non possa mirare, per essere efficace, alla difesa di una legge o alla creazione di altre leggi, perché lo Stato borghese non è in grado, con i suoi strumenti legislativi, di difendere nessuno se non quelle classi sociali di cui protegge gli interessi.
Sembra chiaro che l'unica lotta è quella che strategicamente si ponga come obiettivo il rovesciamento di quello stesso sistema che causa violenza, ossia quello capitalista, e dell'abbattimento dello Stato borghese.
Ma come coniugare, quindi, una lotta che sia di classe e di genere?
Come analizza molto bene Andrea D'Atri, nella lotta contro la violenza sulle donne rischiamo, da una parte, nel momento in cui lottiamo, di essere incorporate "dallo Stato e dalle sue istituzioni per fare riforme dall'interno" come è accaduto ai femminismi "partitici" liberali e riformisti; e dall'altra, di concentrarsi "sull'affermazione e sulla rivendicazione di un'emancipazione autonoma con il rischio di volgere le spalle alle lotte sociali e alla lotta di classe", come è successo al femminismo "movimentista" della differenza. Ma è una falsa alternativa: in entrambi i casi l'obiettivo tattico-strategico non è mai quello di rovesciare il sistema che è causa della violenza sulle donne. L'alternativa reale, che non si ponga come possibile solo in un discorso di separazione delle lotte, è quella di "un femminismo socialista che aspetta ancora di venire alla luce", lontano da quel marxismo che si identifica nel Socialismo reale e nelle esperienze staliniste e neostaliniste.
Di questo femminismo socialista che ancora deve nascere bisogna parlarne a lungo, e non è mia intenzione quella di farlo in questo testo. Quello che occorre, comunque, per combattere davvero la violenza sulle donne, è capire che non è possibile farlo nella cornice dello Stato borghese e capitalista, ma farlo sapendo che l'unico modo per estirparla alla radice è lottare per un nuovo sistema, costruirne uno in cui si possa pensare una nuova idea di famiglia e di società, in cui non ci sia più spazio per la violenza sulle donne.


15 giugno 2013

NV - PCL

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