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(21 Giugno 2013)
di Elaine Tavares*
L’intervento del giornalista messicano Maurìcio Mejìa in occasione della nona edizione delle Giornate bolivariane ha messo in rilievo quello che lo sport sta diventando, non soltanto in Brasile, ma in quasi tutti i paesi del mondo, e soprattutto nei cosiddetti paesi sottosviluppati: un commercio, uno spettacolo, una merce.
In Messico, che oggi conta un po’ più di 110 milioni di abitanti, una grande parte della popolazione è in grado, secondo Mejìa, di dire come va il FC Barcellona, chi sono i migliori nel basket o quali sono i campioni di nuoto; sta di fatto che il 72% delle persone di età superiore ai 12 anni non pratica e non praticherà mai uno sport.
In generale, i Messicani si stravaccano davanti alla televisione e la guardano consumando ciò a cui la pubblicità li incita. “Il Messico è un paese che non funziona, che ha il 7% di analfabeti e più di 52 milioni di persone che vivono al limite della povertà. Per un altro verso, quasi il 95% delle economie domestiche hanno un televisore. I messicani leggono in media meno di un libro all’anno e tutta l’informazione la ricevono attraverso la televisione. Se si conosce la qualità della televisione di questo paese, il risultato in termini di alienazione e di consumo acritico è spaventoso”. Mejìa ricorda che, benché sia un paese dove la popolazione non pratica sport, il Messico ha già accolto due Coppe del mondo [1970 e 1986] e un’Olimpiade [nel 1968, quando ci fu il massacro degli studenti il 2 ottobre sulla piazza di Tlateloco]. Ma bisogna osservare che quel che questi avvenimenti, che consumano tanto denaro pubblico, lasciano dietro di sé è praticamente nullo.
Per Jaime Breilh, un medico ed epidemiologo ecuadoregno, che studia la relazione esistente tra salute e sport, tutto questo non rappresenta una novità. Secondo lui, nel sistema capitalista lo sport, come tutto d’altronde, è legato a una logica di morte e non di vita. Questo poiché il sistema orienta tutta la sua forza verso la produzione di merci e ciò implica il consolidamento di uno specifico modello di civilizzazione. All’interno stesso del capitalismo, lo sport ne assume pienamente le condizioni, e la vita, come pure la salute delle persone, è ciò che gli importa di meno. Quel che importa, è di sapere come fare per riuscire ad accumulare più capitale. Se, in questo movimento, è necessario sacrificare delle persone, degli spazi, la natura o qualsiasi altra cosa, questo non è un problema.
Questa affermazione si conferma totalmente nella presentazione storica fatta da Renato Cosentino, del Comitato popolare Rio Copa e Olympìadas. Basandosi su documenti e video di propaganda allestiti dallo stesso governo, egli ha mostrato come la città di Rio de Janeiro si sta preparando per questi due grandi eventi sportivi, senza che venissero prese in considerazione le preoccupazioni della popolazione. Lavori faraonici sono in corso, comunità intere vengono distrutte, delle vite annientate, e tutto questo in nome della bellezza dello spettacolo. A tal punto che il vecchio stadio Maracanã [a Rio, inaugurato nel 1950, per il campionato mondiale di calcio] è stato privatizzato [e passato al grande gruppo di costruzione Odebrecht, per il quale Lula è un ambasciatore attivo – vedi Folha de S.Paulo del 10 maggio, pagina D3] e tutto quel che gli sta attorno verrà raso al suolo.
Così, una pista storica di atletica leggera, che si trovava ai bordi del campo, è già stata eliminata; ed è pure la fine che farà uno dei migliori licei pubblici di Rio che dovrà esser demolito prima della Coppa del mondo di calcio del 2014. Gli strumenti di propaganda per il nuovo stadio lo descrivono come un luogo dove prenderanno posto i quadri superiori del paese, dove i fans occuperanno poltrone imbottite e vibreranno in giacca e cravatta. Un posto per l’élite e non certo per le classi popolari! Si sono potute ascoltare anche le spiegazioni date dalle autorità di Rio de Janeiro che, tramite video promozionali, mostrano come verranno costruite alcune strade che attraverseranno comunità intere, senza alcun riguardo per la vita della gente.
Questa logica dello sport come semplice spettacolo, come merce, è un elemento dei tempi moderni proprio del sistema capitalista. Da quando le Olimpiadi sono nate, in Grecia, l’elemento essenziale di questi incontri è sempre stato il dilettantismo. L’idea si riteneva incoraggiasse coloro che praticavano uno sport a vivere un “momento sano” e uno scambio di esperienze e la promozione dell’idea che lo sport possa contribuire alla pienezza della vita. Secondo Marcello Proni, dell’Università di Campinas [Stato di São Paulo], questa concezione dello sport è esistita solamente fino agli anni 30, epoca nella quale la politica ha cominciato a interessarsi sempre di più di questo settore.
I Giochi olimpici dell’agosto 1936 a Berlino, diretti dallo stesso Hitler [e filmati nel più puro stile di un’estetica nazista da Leni Riefenstahl che ne fece un film: “Gli dei dello stadio”], assumevano già una funzione di “indottrinamento”; il saluto nazista era di rigore. Dopo la seconda guerra mondiale, il contesto della guerra fredda ha dato occasione alle rivalità politiche di svolgersi nel quadro degli avvenimenti sportivi. Sono così iniziate anche le competizioni tra le nazioni. Negli anni sessanta, con l’arrivo della televisione e dei diritti di trasmissione, il denaro ha cominciato a comandare e lo sport ha allora assunto la sua condizione di merce.
Proni pensa anche che sino alla Coppa del mondo in Messico, questo genere di avvenimenti non era considerato come qualcosa che doveva necessariamente lasciare un’eredità. Le esigenze in termini di infrastrutture e di spazi non erano così grandi. È solo dopo il 1986, con l’arrivo di Havelange [uomo d’affari brasiliano, legato alla dittatura militare] alla FIFA e il legame viscerale di costui con Adidas, che il calcio è diventato un commercio come gli altri. Negli anni 1990, questo tipo di eventi era limitato ai paesi più ricchi. Ma in seguito, con il cosiddetto processo di crescita di alcune nazioni sino allora sottosviluppate, il centro di gravità si è modificato. Il capitale aveva bisogno di espandersi e che cosa si poteva fare di meglio che entrare in questi paesi che cominciavano a crescere? Fu il caso della Cina, dell’Africa del Sud [Coppa del mondo di calcio nel 2010] e ora del Brasile. Come si può vedere, tutto è legato alle necessità dell’accumulazione del capitale.
Il giornalista Juca Kfouri, che segue da parecchi anni lo sport brasiliano, non esita ad affermare che in questo ambito tutto è “marcio”. Secondo lui, il Brasile non ha nessuna politica sportiva, ed eventi come la Coppa del mondo di calcio o i Giochi olimpici non possono quindi lasciare nessuna eredità. Dice di aver creduto che con il governo Lula le cose avrebbero cominciato a cambiare; ma in poco tempo, Lula si è pure lasciato sedurre, e niente è avanzato. Per Juca, lo sport in Brasile ha finito per non essere altro che un “canale di evacuazione” per il lavaggio di denaro sporco e una macchina per arricchire un’infima minoranza.
Il “decennio dello sport”, come i nostri governanti brasiliani [Lula e Dilma Roussef del PT e i loro alleati di destra, compresa la destra più dura] hanno deciso di chiamare questi anni nel corso dei quali si realizzeranno due grandi eventi sportivi, lascerà debiti per il paese e sofferenza per le numerose popolazioni che verranno trasferite o violentate, come è il caso delle comunità “pacificate”. Juca ha ricordato che non aveva il minimo senso costruire delle gigantesche “arene” in posti come Manaus [capitale dello stato dell’Amazzonia nel nordovest del Brasile] o Natal [capitale del Rio Grande do Norte], dove non ci sarà ulteriore domanda per occupare questi luoghi. Il destino di questi luoghi, che consumeranno milioni di reais, sarà sicuramente lo stesso di quello dei grandi stadi costruiti in altri paesi, che sono diventati veri e propri rifiuti, hanno dovuto essere demoliti o abbandonati. E`il caso del famoso stadio del Nido d’uccello a Pechino [Giochi olimpici del 2008], che non ha più ospitato una partita di calcio da anni.
Eddie Cottle, un sindacalista sudafricano, ha mostrato chiaramente quel che è successo nel suo paese nell’ambito dell’organizzazione dell’ultima coppa. Una specie di ripetizione generale di quel che vediamo sta succedendo in Brasile. Lavori faraonici, comunità intere sradicate e spostate, luoghi “igienizzati” [dalla polizia] e lavoratori sfruttati. Ci racconta che si sta distruggendo, facendolo saltare con l’esplosivo, un grande stadio, costruito a Città del Capo, perché non ci sono i mezzi per mantenere una tale gigantesca struttura. Si tratta, semplicemente, di denaro pubblico buttato dalla finestra. Eddie racconta che durante tutto il processo di preparazione della Coppa, le lotte popolari, condotte soprattutto da sindacati molto attivi, sono state molto numerose:“Abbiamo ottenuto alcuni progressi per quel che concerne i diritti, ma questo  è stato tutto quello che abbiamo ottenuto”.
Le centinaia di famiglie sloggiate continuano a errare attraverso la capitale e coloro che sono stati portati verso la celebre “casa delle scatole di conserve” continuano a vivere in containers senza alcuna prospettiva di ottenere delle vere case. Eddie ha anche raccontato che i sindacati avevano scoperto un documento – firmato dallo Sato e dalle imprese che hanno “fatto” la Coppa – nel quale lo Stato dava a queste ultime tutte le garanzie per la gestione e la vendita dei servizi e delle merci. Alla fine, i soli che abbiano guadagnato attraverso la Coppa, sono state le imprese transnazionali e le élites locali.
In Brasile, l’impegno dei sindacati è praticamente nullo di fronte a tutte le miserie che si sono già concretizzate e a quelle che si annunciano. Secondo il professor Fernando Mascarenhas, dell’Università di Brasilia, anche i movimenti sociali più combattivi non prestano attenzione al processo che circonda la messa in opera dei Giochi olimpici. “Non si sente l’MST né i sindacati parlarne”. Secondo lui, senza l’impegno di queste forze, il bulldozer di questi mega-eventi avanzerà e soltanto le persone toccate più da vicino si mobiliteranno, come già oggi è il caso di famiglie sloggiate che oggi, soprattutto a Rio de Janeiro, conducono una lotta accanita. Il fatto è che esiste un’ignoranza completa su questo tema. In generale, la sinistra si è sempre mostrata poco disponibile di fronte a tutto ciò che è legato allo sport. Juca Kfouri ricorda che, quando era più giovane e militava nella sinistra, era stato più volte considerato un pazzo poiché non amava lo sport. Il professor Nildo Ouriques, dell’Università dell’Ovest di Santa Caterina, ha pure fatto riferimento a questo pregiudizio ed alla scarsa eco che il tema dello sport incontrava, in generale, nelle teste più “rivoluzionarie”.
Niente di più sbagliato che abbandonare il paese alla propria sorte in questo universo di mega-eventi. Lo sport – e specialmente il Calcio – “impregna” la vita quotidiana di una grande parte della popolazione e le conseguenze per il paese di tutto questo circo, che si sta organizzando nelle città “sedi” degli eventi, avranno delle ripercussioni su tutta la società. La “logica della morte” avanza a grandi passi, gli accordi stipulati con le grandi imprese si fanno alla luce del giorno. Il paese corre il rischio di costruire strutture gigantesche – con grandi quantità di denaro pubblico – che più tardi verranno abbandonate e non serviranno alla democratizzazione dello sport. Anzi. Per via delle loro caratteristiche grandiose, queste strutture genereranno spese supplementari e gli atleti dilettanti non troveranno ospitalità tra le loro mura.
È quel che osserviamo in Messico, dove la realizzazione di due Coppe e di un’Olimpiade non ha generato alcun aumento della pratica dello sport. La situazione si annuncia ancora peggiore in Brasile. Con la distruzione degli stadi, l’annientamento di comunità e il progredire della speculazione immobiliare, è più probabile che la pratica dello sport diminuirà ulteriormente.
La sola nota dissonante di queste Giornate Bolivariane è stato l’esempio cubano. Sull’isola cosiddetta socialista, lo sport è sottomesso a una politica di stato e fa parte della pratica quotidiana della popolazione. Lo sport non viene vissuto soltanto nelle scuole, dove la pratica dell’educazione fisica è obbligatoria, ma si democratizza nella proliferazione, in ogni piccola città, di centri sportivi, di spazi e terreni di calcio, di basket, di baseball e di atletica. La logica è quella delle piccole strutture che permettono di raggiungere tutti. Le prestazioni degli atleti cubani nelle competizioni sono il risultato di questa politica, che investe nella salute altrettanto quanto nello sport di competizione. Questo è possibile perché lo sport fa parte della vita delle persone. Per un cubano, la realtà dell’atleta che si vende a degli sponsor o che viene acquistato da altri paesi per aumentare il numero delle medaglie, è totalmente incomprensibile. Lo sport a Cuba non è una merce, è intimamente legato alla salute della popolazione e, anche nel campo della competizione, è legato al sentimento di amore profondo per la patria. Partecipare ai Giochi olimpici significa difendere Cuba.
E poiché parliamo di medaglie, Jaime Breilh, dell’ Ecuador, ha pure demistificato questo aspetto delle medaglie [la conta delle medaglie di bronzo, d’argento e d’oro ottenute da ciascun paese, in uno spirito di competizione nazionalista] così vantato durante i Giochi olimpici, che potrebbe far credere che soltanto i paesi ricchi, come gli Stati Uniti o la Cina, si trovino al top del mondo dello sport. Jaime attira l’attenzione sul fatto che occorrerebbe calcolare anche il numero di abitanti dei diversi paesi. In questo modo si arriverebbe a risultati diversi. Nel 1996, per esempio, il quadro delle medaglie fu il seguente: al primo posto gli Stati Uniti, poi la Russia, poi la Cina. Ma se prendiamo in considerazione il numero di abitanti, avremmo prima la Nuova Zelanda, poi Cuba, poi la Danimarca. Gli Stati Uniti si ritroverebbero ventunesimi e la Cina trentesima. Tutto è quindi una questione di prospettiva.
Per i conferenzieri che hanno animato le Giornate bolivariane di quest’anno, lo sport non è affatto una merce e deve esser preso sul serio. Esso è intimamente legato alla salute, alla qualità di vita e alla sovranità di un popolo. E, nel caso del Brasile, si è ancora in tempo per intraprendere una politica che agisca nel senso di garantire una pratica sportiva di qualità che sia di carattere popolare e che si svolga in spazi adeguati.
Così, invece di costruire arene gigantesche e inutili, il Ministero dello sport del Brasile dovrebbe preoccuparsi di definire una politica nazionale di sport comunitario, per produrre vita e salute anziché consumatori di prodotti così inutili come le arene costruite. Se questo non cambierà, sarà ben presto un paese in cui sempre più gente obesa si metterà davanti alla TV per poi parlare di sport senza viverlo in alcun modo.
E per quel che concerne i due “eventi“ sportivi che stiamo per vivere, corriamo il rischio di inventare un paese che non esiste, salvo per entrare nel gioco del commercio. Renato Cosentino, del Comitato popolare Rio Copa e Olimpiadas, ha mostrato una pubblicità realizzata dalla compagnia petrolifera Petrobras che viene diffusa all’estero; in essa, parlando dell’estrazione del petrolio in acque molto profonde, si mostrava una fotografia aerea di Rio de Janeiro, sulla quale le favelas e tutti i segni di povertà sono stati ritoccati grazie all’uso di Photoshop. è questa la dura realtà del Brasile! Si sta preparando il paese per la Coppa del mondo. Per questo si è deciso che bisognerà eliminare i poveri, costi quel che costi. Tutto ciò per alcuni giorni di divertimento per poca gente e per dei benefici stratosferici che andranno a vantaggio di un numero ancor più ridotto di persone.
* Elaine Tavares è giornalista e ha pubblicato questo articolo nel Correio da Cidadania il 9 maggio 2013. La traduzione in italiano è stata curata dalla redazione di “Solidarietà” (Svizzera, Canton Ticino.
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