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Stop agli allevamenti per vivisezione

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(20 Gennaio 2012) Enzo Apicella

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La coperta corta del capitalismo italiano

(1 Luglio 2013)

unemployed

Il traballante governo italiano sotto l'ecumenica direzione di Letta annaspa disperatamente su tutti i fronti caldi dell'economia e delle emergenze sociali. Pressato dalla sua stessa maggioranza, il presidente (a termine) del consiglio emana decreti e propone “soluzioni” che si contraddicono a vicenda. In via preliminare ha dovuto rimandare al 17 settembre la decisione circa il pagamento dell'Imu e al 1° ottobre l'aumento dell'Iva, con il commento “poi si vedrà” se cancellare o riformulare la prima e se aumentare di un punto, di mezzo punto o lasciare inalterata la seconda. Costo totale circa tre miliardi di euro che non entrano nella casse dello Stato. In più, viene varato il Piano Lavoro per la disoccupazione giovanile, costo un miliardo e mezzo in attesa di un altro miliardo e mezzo della Unione europea, di cui, però, non si conoscono i tempi e le condizioni normative. L'unica cosa certa è che la Ue ha erogato in questi anni 1000 miliardi di euro per le banche e solo 9, di cui uno e mezzo all'Italia, per la disoccupazione giovanile. Intanto, quali le coperture? Dopo aver rigirato per mille volte la solita coperta corta, ecco la “soluzione”. Aumento di altre tasse secondo la classica partita di giro. Ferme l'Imu e l'Iva, su Irpef, Irap e Ires per non parlare delle bollette della luce, dei rincari dei trasporti, dell'inflazione in generale e dei ticket per la sanità.

Per il Piano Lavoro va innanzitutto detto che l'attuale esborso di un miliardo e mezzo di euro per 18 mesi o, se si preferisce, a esaurimento del fondo stanziato, è assolutamente irrisorio. I presunti nuovi posti lavoro per i giovani sotto i 30 anni non sono 200 mila ma 100 mila. Presunti perché è facile che siano molti di meno, secondo i calcoli che alcuni economisti borghesi hanno puntualmente fatto. Per gli altri 100 mila si prevedono aiuti per la formazione e, quindi, di nuovi posti di lavoro non se ne parla nell'immediato. In seconda battuta va rilevato come i soldi, 650 al mese, non entrino nella busta paga dei giovani che dovrebbero essere assunti, bensì vanno come incentivo alle imprese che assumono alle solite condizioni: a tempo determinato e a salari bassi, come si conviene a un miracolato che ha la fortuna di lavorare. Qui sta l'inghippo. E' molto difficile pensare che le imprese, in questa fase della crisi, s'impegnino a creare posti di lavoro effettivamente nuovi sulla base di “bonus” temporanei che potrebbero scomparire dall'oggi al domani. Le esperienze passate, come la normativa del 2002, con un esborso di due miliardi di euro, per favorire le assunzioni, in realtà non ha prodotto nulla del genere e i soldi ricevuti dalle imprese sono serviti a consolidare i posti esistenti o, al massimo, ad assumere secondo una esigenza precedente, ovvero avrebbero assunto indipendentemente dalle agevolazioni. L'esperienza del 2012 è stata ancora peggiore e riguardava l'erogazione di incentivi, sempre per le aziende, per trasformare i contratti a termine in contratti a tempo indeterminato. I finanziamenti si sono esauriti nell'arco di un mese e le imprese che hanno ricevuto i soldi raramente hanno rispettato i patti o, se lo hanno fatto, era perché già rientrava nei programmi di riorganizzazione aziendale. In questo caso poi (Piano Lavoro), il rischio è che le assunzioni su incentivo avvengano fin che ci sono i finanziamenti e cessino nel momento in cui il tesoretto si esaurisce, con buona pace per tutti, licenziamenti immediati compresi.

In un paese dove ben sette milioni di lavoratori o sono disoccupati o in cassa integrazione a zero ore, o sono lavoratori saltuari, oltre che precari, e dove il 40% di coloro che non entrano nei meccanismi produttivi ha meno di 35 anni, 100 mila posti di lavoro presunti sono una presa in giro. Che il presidente Letta canti vittoria perché avrebbe imposto in Italia, come in Europa, una politica che aiuti i giovani a risolvere il loro problema occupazionale, rientra largamente nei parametri del politicantismo italico, che sia lontano dal vero quanto la Luna dalla Terra è una certezza drammaticamente inconfutabile. Come è straordinario che il solito Letta, a conclusione di un discorso alle Camere, si dichiari soddisfatto di aver dato un grande contributo al problema della disoccupazione giovanile sino al punto da dichiarare “ora le imprese non hanno più alibi”, per cui investano, producano e creino posti di lavoro. Sfugge all'impavido condottiero delle sorti economiche italiche che le leggi del capitalismo percorrono strade diverse da quelle del millantato credito e della politica degli annunci. Proprio questa crisi internazionale ha mostrato come la finanza, la speculazione si siano allontanate dalla produzione reale perché questa è sempre più in difficoltà nel produrre profitti sufficientemente remunerativi per i capitali investiti. La crisi è esplosa nel settore finanziario con la deflagrazione delle bolle speculative, ma ha avuto la sua origine nei meccanismi asfittici della produzione sempre più in debito d'ossigeno. Dagli Usa all'Europa i primi interventi statali si sono concentrati nel rifornire di liquidità i settori bancari più colpiti da quella crisi, che loro stessi hanno contribuito a far crescere gonfiando a dismisura le attività speculative. Le stesse banche, una volta ricevuti i finanziamenti, ripianati i debiti contratti e lenite le maggiori sofferenze da esposizione finanziaria, si son ben guardate dal riprendere a pieno ritmo il loro “naturale” ruolo di finanziatrici del mondo imprenditoriale. Nonostante le facilitazioni ricevute e i finanziamenti erogati, hanno preferito rimanere nel terreno della speculazione, operare nel mondo dei “futures” o dei titoli di Stato piuttosto che correre il rischio di rimanere impantanate in prestiti alle imprese sull'orlo del fallimento, in crisi di profitti, con un mercato collassato sia sul versante dell'offerta che della domanda. Rischio per rischio, meglio il primo che il secondo con buona pace per le aspettative di ripresa economica finanziata dai rigenerati Istituti di Credito. Il che non vuol dire che le banche, sia in Usa che in Italia, abbiano completamente chiuso il rubinetto del credito, ma che lo lasciano gocciolare appena appena. I crediti li concedono con il contagocce a quelle poche imprese che danno la massima affidabilità e a tassi di interesse molto elevati.

Per le imprese vale il medesimo principio. Con un mercato continuamente depresso, con una domanda in continua contrazione, con le banche che non concedono prestiti e, se li concedono, lo fanno a interessi da strozzinaggio, gli investimenti ristagnano, molte imprese chiudono e la disoccupazione aumenta. Non saranno certo quei quattro spiccioli per un centinaio di migliaia di giovani (sempre che gli spiccioli non si perdano nelle sabbie mobili del solito “mangia mangia”) a smuovere la situazione, né possono essere l'inizio di una risalita vista la loro esiguità e limitatezza temporale.

Il capitalismo, per tentare di risorgere dalle ceneri che lui stesso ha prodotto, ha bisogno di ben altro. Ha bisogno che, contro la sua attuale inclinazione, altro capitale venga distrutto e svalorizzato, sia in termini fittizi che reali. Che i capitali piccoli scompaiano per lasciare il posto alla concentrazione di quelli più grandi. Ha sopratutto bisogno di avere a disposizione un esercito di forza lavoro a basso costo, disponibile a produrre ad alti ritmi e in qualsiasi condizione. In termini tecnici significa che il capitale riprenderebbe a reinvestire decisamente e con continuità solo quando ci saranno normative sicure ed efficaci per la mobilità in entrata e in uscita e quando la disoccupazione avrà così ingigantito l'esercito di riserva della forza lavoro, da poter proporre salari ridicoli a condizioni di lavoro drammatiche per ritmi, sicurezza e precarietà degli stessi posti di lavoro. Un piccolo esempio è dato dal recente accordo tra le tra Confederazioni sindacali e la Confindustria sull'apparente problema della rappresentanza sindacale sui posti di lavoro. I realtà si è trattato di un “patto scellerato” tra il mondo imprenditoriale alla ricerca di maggiori sicurezze per gli investimenti e i “programmatori sindacali” del costo sociale dalle forza lavoro in cerca di un ruolo politico più consistente. In pratica, il capitale ha concesso ai sindacati, CGIL compresa, una sorta di monopolio nella gestione della rappresentanza sui luoghi di lavoro, rilanciandone il ruolo sociale oltre che politico. In cambio ha ricevuto l'assicurazione che i contratti, una volta firmati, potranno essere impugnati dalle imprese contro tutti coloro che non li rispettano, compresi gli scioperi più o meno spontanei, fuori dalle maglie sindacali, contro i suddetti contratti. Annesse, ovviamente, ci sono le normative sanzionatorie sempre più pesanti sino al licenziamento. Il capitale ha ricevuto inoltre garanzie sulla mobilità in entrata, ovvero, l'opportunità di avere a disposizione forza lavoro, non importa se giovane o no, con incentivi, sgravi fiscali e, non da ultimo, a salari minimi, con la possibilità di renderli ancora più bassi attraverso la contrattazione aziendale, in deroga ai contratti nazionali, e di disporre a piacimento dei soliti contratti a termine. Se poi l'ipocrisia delle leggi sul lavoro dovesse “imporre”, prima o poi, il necessario passaggio dai contratti a tempo determinato a quelli a tempo indeterminato o, ipocrisia maggiore, che le assunzioni debbano essere sin dall'inizio a tempo indeterminato, che sia però assicurata al capitale la garanzia di poter licenziare in qualsiasi momento “per stato di necessità economica dell'impresa”.

Solo a queste condizioni il capitalismo può sperare di rimettere in moto, a pieno regime, l'infernale macchina dello sfruttamento proletario, a meno che sulla scena della crisi non inizi ad irrompere l'unico soggetto in grado di modificarne i metodi e gli obiettivi: la lotta di classe. Lotta contro la crisi, fuori dalle compatibilità del capitalismo, fuori e contro ogni forma di sindacalismo per una alternativa sociale che modifichi in modo rivoluzionario il mondo della produzione e della distribuzione sociale. Questa è l'unica alternativa alla crisi presente, a quelle che verranno, allo sfruttamento sempre più selvaggio, all'impoverimento crescente della popolazione, allo smantellamento sistematico dello Stato sociale e allo spauracchio della guerra che, dalla distruzione di valori capitale, crea le condizioni di una ripresa del ciclo economico, anche a costo di fare milioni di vittime. Non sarebbe la prima volta, ma ci piacerebbe contribuire a che non ce ne fosse un'altra di occasione.

FD - Partito Comunista Internazionalista (Battaglia Comunista)

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