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Raffaele De Grada 1916 2010

Raffaele De Grada 1916 2010

(4 Ottobre 2010) Enzo Apicella
E' morto all’età di 94 anni Raffaele De Grada, comandante partigiano, medaglia d’oro della Resistenza, critico d'arte.

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    Un partito di classe destinato a sciogliersi

    Un saggio di Aldo Agosti sul Psiup per Laterza

    (6 Agosto 2013)

    Nato da una scissione del Psi, chiuse gli occhi sulla primavera di Praga e non seppe reggere l'onda d'urto del Sessantotto

    vecchiett

    Tullio Vecchietti

    Difficile non pensare, quanto meno con il senno del poi, che la breve ma intensa parabola, durata otto anni, tra il 1964 e il 1972, del Partito socialista italiano di unità proletaria, non abbia precorso, in alcuni aspetti, le vicende di tutta quella sinistra che, vent'anni dopo, si sarebbe disciolta come neve al sole dinanzi alla sua sopravvenuta inutilità. Le vicende del partito, che nacque da una sofferta ma vivace scissione nel corpo Psi, con una profonda motivazione culturale ma con grandi vincoli e difetti di azione politica, anticipa infatti una serie di moventi e di condotte che, diversi anni dopo, avrebbero connotato nel suo definitivo declino quella che un tempo veniva chiamata «sinistra di classe». A partire dal Partito comunista o, per meglio dire, di quanto restava d'esso dopo gli anni Settanta. È questa la prima impressione che emerge dalla lettura del nuovo libro di Aldo Agosti, Il partito provvisorio. Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano (Laterza, pp. 296, euro 25).
    Il vertice inamovibile
    Dell'autore nulla va aggiunto, essendo uno dei maggiori studiosi di storia e cultura politica del nostro Paese, una disciplina un tempo molto praticata ed oggi, invece, ingiustamente poco considerata. Dopo di che è bene tornare al soggetto biografato di cui, a parte una monografia piuttosto datata di un suo ex dirigente, Silvano Miniati, poco o nulla era stato offerto fin ad oggi dal panorama editoriale italiano. Il primo vizio di sostanza di quel partito stava nella difficoltà stessa di dare corpo ad una rappresentanza stabile della classe operaia, il soggetto della trasformazione rivoluzionaria che - tuttavia - sfuggiva, per sua stessa natura, a qualsiasi inquadramento politico.
    Il modello leninista, dottrinariamente contrapposto al «revisionismo socialdemocratico», ebbe scarso respiro in Italia, essendo esercizio per nicchie e non per grandi aggregazioni. Non fu neanche creduto più di tanto, ibridandosi, piuttosto, con la spontanea e incontrollabile lievitazione dei movimenti, e con le tante suggestioni che essi generavano. La frattura tra spontaneismo e organizzazione fu quindi fatale per il partito. Maggiore fortuna la ebbero infatti, in quei frangenti, i sindacati, che con il Psiup condividevano alcuni tra i quadri più intelligenti e politicamente creativi nonché motivati. Non di meno, la persistente scissione tra un ceto dirigente inamovibile, nel Psiup rappresentato soprattutto da Tullio Vecchietti, Dario Valori e dagli uomini intorno ad essi raccoltisi (pochissime le donne, trattandosi perlopiù di una storia al maschile), e una base invece molto vivace, articolata, insediata e diffusa nelle diverse realtà locali, a partire dai luoghi della conflittualità operaia come Torino, Milano, Genova così come in altre unità territoriali, è un fatto costitutivo che attraversa l'intera storia di un partito transitorio. Il Psiup, peraltro, non si pensava come la linea terminale di un processo storico. In altri termini, mai di sé coltivò l'idea di essere l'organizzazione rivoluzionaria per definizione, puntando semmai a emendare ai vincoli di un Psi strozzato dentro i vincoli di compatibilità dettati dal riformismo debole e caduco dell'esperienza, uccisa nella culla, del centro-sinistra, e l'opposizione tutta parlamentarista del Pci.
    Rispetto a questi due poli, entrambi apparentemente estranei alle logiche più articolate che la società andava spontaneamente producendo nella seconda metà degli anni Sessanta, cercò quindi di offrire un superamento impegnandosi, infine, in una rappresentanza continuativa del mutamento. Il suo indice di riferimento era il termine «autonomia», declinato tra i riverberi della lezione di Rosa Luxemburg e l'esperienza di Raniero Panzieri. Non gli riuscì, dovendo piuttosto fare i conti con eredità pesanti e, nel medesimo tempo, irrisolte, a partire da quella socialista che, in Italia, forse, misurava un radicamento sub-culturale più profondo e consistente di quella comunista. La sintesi la trovò, paradossalmente, nella sua disindentità, nel suo cercare, quasi ossessivamente, una fisionomia autonoma che non riuscì mai a trovare. Il dialogo con i movimenti sociali e politici ne è una riprova, laddove, presentandosi come partito classista, si trovava a dovere interloquire con quanti avevano ad obiettivo lo scardinamento stesso della rappresentanza partitica come precondizione per la costituzione di un nuovo fronte di lotta. Anche da ciò emerge un altro peccato capitale, ossia la mancanza nel Psiup di una qualsiasi capacità di iniziativa politica autonoma, di fatto vivendo perennemente a rimorchio, e quindi nell'ombra, dei suoi due interlocutori-antagonisti.
    La chiusura ortodossa
    Quando, dopo il 1969 sindacale, la sinistra extraparlamentare e radicale tentò di darsi una sua rappresentanza parlamentare, per il Psiup le contraddizioni vennero quindi subito a galla: il terreno di competizione elettorale era il medesimo e l'erosione reciproca fece sì che ci si annullasse vicendevolmente. Malgrado ciò, tuttavia, non fu neanche questo il passaggio più problematico. C'è semmai un punto critico, che rivela per intero la fragilità dell'esperienza pisiuppina, ed è la gretta incomprensione dei fatti della «primavera di Praga» e, più in generale, del 1968 ad Est. La chiusura totale rispetto alle istanze manifestatesi nei paesi a democrazia popolare segnò una volta per sempre, in tutta probabilità, i destini del partito, in questo surclassato dagli stessi comunisti italiani.
    Il nesso tra libertà ed eguaglianza sembrava sfuggire ad una parte, quella più importante, della sua dirigenza. Non forse a Vittorio Foa e a Lelio Basso, nei tempi successivi assurti a icone della sinistra. Il primo impegnato qual era a disegnare di sé di una fisionomia autonoma, il secondo a svolgere il ruolo di padre nobile. Ma qui non è già più la storia di un'organizzazione collettiva, bensì di singole figure, tanto importanti in sé quanto non certo esaustive di una identità collettiva. Inutile chiedersi cosa resti di quel partito se è la sinistra stessa, al giorno d'oggi, a sembrare essere divenuta superflua.

    Claudio Vercelli, il manifesto

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