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Sull’assassinio di Trotsky. I giorni di Caino
26 agosto 2013

(27 Agosto 2013)

Ricostruzione di quanto avvenne in Messico il 20 agosto 1940 (by Ermanno Cerati)

trosky

In occasione del 73° anniversario dell’assassinio di Leon Trotsky, riprendiamo questa puntuale ricostruzione di quanto accadde in Messico il 20 agosto 1940.
di Diego Giachetti (da Movimento operaio)


Nel testamento, scritto tra il febbraio e il marzo del 1940, Trotsky supponeva di morire di morte naturale oppure di suicidarsi nel momento in cui si fosse reso conto di aver esaurito le sue energie fisiche e intellettuali a causa di una malattia irreversibile. Difatti si soffermava in una sorta di diagnosi e prognosi clinica circa il suo stato di salute. L’alta pressione sanguigna poteva apparentemente ingannare chi gli stava vicino: era ancora attivo e capace di lavorare. Tuttavia la natura della malattia era tale che poteva condurre ad una fine improvvisa per emorragia cerebrale. Si augurava in tal caso che la morte giungesse rapida e veloce, altrimenti scriveva
Se la sclerosi dovesse assumere una forma protratta e io fossi minacciato d’invalidità permanente […], allora mi riservo il diritto di stabilire da me l’ora della mia morte. Il “suicidio” (se il termine è appropriato in questo caso) non esprimerà in nessun modo l’insorgere di una crisi di disperazione o di sfiducia. Natalja e io abbiamo detto più volte che ci si può trovare in condizioni fisiche tali, per cui è meglio tagliar corto con la propria vita o, più esattamente, col troppo lento processo della propria morte. [1]
Probabilmente nello scrivere queste note egli rammentava quanto aveva detto a proposito della morte del suo amico e compagno d’opposizione allo stalinismo Abramovic Ioffe il giorno del suo funerale, il 19 novembre 1927. Da tempo gravemente malato, il Comitato centrale del Pcus, per rappresaglia per la sua battaglia di oppositore, gli aveva negato il permesso di recarsi all’estero per curarsi. “Ferito” nel corpo, impossibilitato quindi fisicamente a continuare la sua lotta politica con tutta l’energia necessaria, si era ucciso il 16 novembre del 1927. Nessuno per propria iniziativa, aveva detto al cimitero, deve ritirarsi dalla lotta quando è nel pieno possesso della facoltà fisiche e mentali. Ioffe si era ritirato dalla vita nel momento in cui, gravemente malato, «non gli rimaneva nient’altro da dare alla rivoluzione che la sua morte. Saldamente e coraggiosamente, così come aveva vissuto la vita, la lasciò […] Ciò che lo ha costretto ad abbandonare la vita è stata la coscienza che per lui era impossibile combattere quelle difficoltà. […] Che nessuno segua l’esempio di questo vecchio combattente per la sua morte. No. Seguitelo per la sua vita»[2]. La morte per suicidio quindi, scelta che può compiersi in situazioni di decadimento fisico mentale, come espressione di un ultimo atto d’amore «per la vita, questa energica forza che dà slancio alla personalità e molto spesso induce a staccarsi da un’esistenza detestabile»[3]. Suicidio e morte non come negazione delle idee per cui si è vissuto e della lotta che si è combattuta in vita. Difatti, qualunque fossero state le circostanze della sua fine, ci teneva a precisare, che la morte non era riconducibile al venir meno della «fede indiscussa nell’avvenire comunista. Anche ora, questa fede nell’uomo e nel suo futuro mi ispira una forza di resistenza quale nessuna religione può dare»[4]
Segnali ben differenti misero alla prova quelle supposizioni. All’alba del 24 maggio 1940, una banda armata guidata dal pittore stalinista Siqueiros attaccò la casa di Trotsky con l’intento di eliminarlo. A posteriori si potè ricostruire che quell’attentato era stato preannunciato dagli attacchi della stampa messicana stalinista che diventavano ogni giorno sempre più virulenti.«The insults were constant and violent in their publications». Gli insulti erano costanti e violenti, ricorda il nipote, «Trotsky, who never abandoned his sense of humor, said, “It appears that journalists are about to exchange the pen for the gun.”». Trotsky, con umorismo diceva: “sembra che i giornalisti siano in procinto di scambiare la penna con la pistola”[5].
Il gruppo di sicari penetrò nella casa e giunse fino alla camera da letto di Trotsky e Natalja sparando all’impazzata sul letto. Fortunatamente, un attimo prima della loro irruzione, i coniugi si erano buttati giù dal letto rifugiandosi in un angolo. Appiattiti a terra sfuggirono ai colpi loro riservati. Anche la stanza dove dormiva il nipote Seva fu investita dal fuoco delle armi, come egli stesso raccontò: «About four o’clock in the morning, I heard the garden gates being suddenly thrown open, and shortly afterwards there was a tremendous noise of gunfire, and the place was turned into a battlefield.». Verso le quattro del mattino, ho sentito spalancarsi improvvisamente il cancello del giardino e poco dopo un rumore tremendo di armi da fuoco. Il luogo si trasformò in un campo di battaglia. Vidi una sagoma dentro la mia stanza, poi aprirono il fuoco. Gettarono alcune bombe incendiarie e la stanza prese fuoco. Ero accovacciato dietro al letto, in un angolo della stanza. Quando ho visto le bombe sono corso fuori in cortile e ho gridato “nonno»?[6].
Quell’invocazione diede un grande sollievo a Trotsky e Natalja che, sopravvissuti, erano in cortile. Seva era vivo, ferito di striscio da un colpo vagante ad un piede, non lo avevano ucciso o rapito, come temevano. Ritrovare i nonni, vivi e vegeti, fu anche per Seva un sollievo in quanto per un attimo aveva creduto che essi non fossero più in vita. Si riunirono, si abbracciarono, lo stato d’animo del nonno era quello di un sopravvissuto, agitato, felice, euforico per lo scampato pericolo.
La guerra intanto divampava in Europa. Le armate tedesche occupavano la Francia che capitolava. L’Italia entrava in guerra a fianco della Germania, il patto di non aggressione tra Unione Sovietica e Germania nazista, stipulato nell’agosto del 1939 per ora reggeva. La spartizione della Polonia tra Germania e Unione Sovietica erano per Trotsky i segni evidenti del muoversi contraddittorio della politica estera dello Stato sovietico, che continuava a definire operaio seppur degenerato, difendendo la sua tesi contro altri che volevano caratterizzarlo come capitalismo di stato o collettivismo burocratico. La questione della natura sociale dell’Urss, osservò, non poteva certo essere risolta dal solo dibattito teorico, la natura del regime sovietico non era ancora ben definita. Il regime staliniano, si chiedeva, sarà sostituito da una controrivoluzione capitalista o da una democrazia operaia?. «La storia non ha ancora risolto la questione», rispondeva[7]. Si sentì in dovere di replicare a chi ricorreva a facili interpretazioni psicoanalitiche, per spiegare la sua difesa dello stato operaio degenerato e del bolscevismo. Gli era difficile abbandonare questi due concetti in quanto per Trotsky avrebbe significato rinnegare la causa che fu di tutta la sua vita, scrissero alcuni critici. «Posso assicurare ai miei critici che soggettivismo e sentimentalismo non sono caratteristiche mie»[8], replicò loro.
Dopo l’attentato il clima nella casa di Coyoacan si fece più cupo e teso. Il numero della sentinelle, meglio armate, aumentò. Il governo messicano triplicò il numero di poliziotti di guardia all’esterno. Grazie ai sacrifici dei simpatizzanti e dei militanti della Quarta Internazionale, in particolare dei compagni americani, una sottoscrizione permise di aumentare i sistemi difensivi della dimora. Poiché era appena accaduto, era possibile che accadesse nuovamente, Stalin avrebbe tentato ancora di eliminare il suo avversario. «Furono installate porte e finestre antiproiettile. Venne costruita una ridotta con soffitti e pavimenti a prova di bomba. Una doppia porta blindata, comandata da interruttori elettrici, aveva sostituito il vecchio portale di accesso. Tre nuove torrette a prova di proiettile dominavano ora non soltanto il patio, ma anche la zona circostante la casa. Dei reticolati di filo spinato e delle reti a prova di bomba erano in fase di installazione»[9]. Persiane di ferro furono installate sulle finestre e sulle porte interne. Erano tutte misure atte a prevenire il ripetersi di un attacco dall’esterno, simile a quello del 24 maggio.
Seguiva i lavori di fortificazione, chiedeva, s’informava, suggeriva, ma anche manifestava il suo disappunto per dover vivere in un luogo simile che gli ricordava la prima prigione in cui fu detenuto. Un giorno confidò a un suo segretario mentre osservavano i lavori di costruzione di una nuova torretta: «bella civiltà avanzata la nostra, da essere costretti ad erigere simili costruzioni»[10]. Evidentemente tutte queste misure di sicurezza limitarono ancora di più la libertà personale dell’esule. Praticamente ora viveva sempre chiuso nella casa, nelle stanze a lavorare o a riposarsi e nel giardino ad accudire gli animali e i cactus. Era un uomo sempre più solo, disse sua moglie, aggiungendo una frase terribile: ci muovevamo «nel giardino tropicale di Coyoacan circondati da fantasmi con un buco nella fronte»[11]. Ogni tanto al mattino Trotsky ripeteva a Natalja, mentre lei spalancava la finestra della loro camera da letto, «Natalja, ci hanno dato un giorno in più di vita»[12].
La mattina del 20 agosto 1940 Trotskij si era alzato alle sette. Era di buon umore, si sentiva bene finalmente, dopo un periodo di stanchezza nervosa che lo aveva prostrato. Salutò felice Natalja, poi scese nel cortile ad occuparsi, com’era sua abitudine, dei conigli, dei polli e delle piante. Così cominciavano di solito le sue giornate. Terminato di accudire gli animali risalì in cucina, fece colazione e si ritirò a lavorare nello studio fino all’ora di pranzo. Poi, fatta una breve siesta, ritornò nello studio a lavorare. Di tanto in tanto Natalja andava a trovarlo, scostava leggermente la porta per non disturbarlo e lo vedeva nella sua abituale posizione: chino sulla scrivania con la penna in mano. Ebbe la sensazione che quella fosse per il suo compagno una giornata di serenità fisica e mentale. Alle cinque del pomeriggio presero il tè assieme. Venti minuti dopo Trotskij era nuovamente nel cortile e stava dando da mangiare ai conigli.
Gli era accanto una persona che Natalja a mala pena riconobbe: era Frank Jacson, alias Jacques Mornard, alias Ramon Mercader, l’agente stalinista che -grazie all’amicizia con Silvia Angelov, una trotskista americana – era riuscito a introdursi nella casa-fortezza. Joseph Hansen, suo segretario, e altre due guardie del corpo che si trovavano sul tetto per installare una sirena d’allarme, videro Jacson arrivare. Al braccio aveva un impermeabile, nonostante il tempo fosse bello. La cosa incuriosì anche Natalja, la quale non poté fare a meno di chiedergli se per caso non si sentisse bene, considerata la brutta cera che aveva: «non ho digerito -disse- mi può dare un bicchiere d’acqua?». Era venuto a portare un suo articolo sulla Francia appena occupata dai nazisti.
Trotskij smise di fare il suo lavoro di malavoglia, non amava essere interrotto. Si levò i guanti che sempre usava, perché il più piccolo graffio gli dava fastidio a scrivere, e risalì dal cortile dirigendosi assieme a Jacson verso lo studio. Qui giunto si sedette, prese il manoscritto e iniziò a leggerlo. Jacson rimasto in piedi estrasse da sotto l’impermeabile una piccozza dal corto manico e lo colpì alla nuca. Un grido ruppe la calma del tardo pomeriggio, un lungo grido di agonia. Dall’alto dove si trovava Joseph Hansen guardò verso lo studio e dalla finestra vide Trotskij che lottava col suo aggressore: «Dallo studio del Vecchio provenivano rumori di una lotta violenta. Una nostra guardia stava puntando il fucile verso la finestra sottostante, Trotsky fu visibile per un istante, nella sua giacca da lavoro blu, mentre lottava corpo a corpo con qualcuno. Non sparare, gridai, potresti colpire il Vecchio. Mentre attraversavo la porta che collega la biblioteca alla sala da pranzo, il Vecchio uscì barcollando dallo suo studio a poca distanza da me, col sangue che gli colava sul viso: Guarda cosa mi hanno fatto, mi disse»[13].
Il colpo violento non lo aveva finito. Si era alzato in piedi, si era lanciato contro il sicario gettandogli addosso gli oggetti della scrivania. Si avventò su di lui, gli strappò la piccozza, lo morse con forza a un dito. Stupito dalla reazione l’assassino era incapace di rispondere. Le guardie del corpo e Natalja accorsero. Lo trovarono appoggiato allo stipite della porta col volto insanguinato. «Cos’è accaduto? Cos’è accaduto?», chiesero. «Jacson», rispose. Agitatissimo pronunciava frasi brevi e spezzate rivolgendosi a quelli che erano accorsi: «Natalja ti amo», le sussurrò. «Voleva colpirmi un’altra volta… ma gliel’ho impedito», disse con orgoglio. E ancora «Non uccidetelo, deve parlare». «Con cosa mi ha colpito?» chiese rivolgendosi a Joseph Hansen che rispose: «con una piccozza» e provò a rassicurarlo: «sono certo che si tratta soltanto di una ferita superficiale»; al che Trotsky rispose: «no, me lo sento qui (indicando il cuore) questa volta ci sono riusciti». Ancora Hansen lo rassicurò: «No, è soltanto una ferita superficiale, si rimetterà»; Trotsky, indicando Natalja disse: «prendetevi cura di Natalja. E’ stata con me molti, molti anni», lo diceva stringendo forte la mano del segretario Joseph Hansen. «Lo faremo, promisi. La mia voce sembrò far balenare in mezzo a noi tre la consapevolezza che si trattava veramente della fine. Il Vecchio ci strinse convulsamente le mani, all’improvviso, con le lacrime agli occhi. Natalja piangeva a scatti chinandosi su di lui e baciandogli la mano»[14].
Seva stava tornando a casa da scuola. Notò subito strani movimenti, persone che andavano e venivano, provò una strana sensazione, una sorta di angoscia, come una premonizione che qualcosa di grave fosse accaduto. All’interno della casa vide molte persone in preda a un’agitazione tremenda, dei poliziotti trattenevano l’assassino. Poi si diresse verso lo studio e vide il nonno disteso sul pavimento, con la fronte insanguinata e a fianco Natalja che gli applicava una borsa di ghiaccio sulla ferita cercando di arginare l’emorragia. Quando lo vide arrivare, con uno sforzo disse «tenete fuori Seva, non deve vedere questo»[15].
Chiamarono un dottore il quale, dopo averlo visitato sommariamente, disse che doveva essere subito ricoverato in ospedale. Natalja era titubante, suo figlio era stato assassinato in ospedale.
Per un attimo o due lo stesso Trotsky che giaceva ferito sul pavimento, venne assalito dal dubbio. “Verremo con lei”, gli dissi. “Lascio a lei decidere”, mi disse come se stesse ora scaricando tutto su coloro che gli erano stati vicini, come se i giorni in cui prendere delle decisioni fossero finiti. Prima che lo collocassero sulla barella, il Vecchio sussurrò: “Voglio che tutto ciò che possiedo vada a Natalja”. Poi, con una voce che toccò per sempre i sentimenti più profondi e più teneri degli amici inginocchiati al suo fianco quasi supplicò: “prendetevi cura di lei”[16].
Giunsero due ambulanze, una anche per Jacson che era ferito e contuso, perché le guardie lo avevano malmenato. Natalja e Joseph Hansen lo accompagnarono sull’ambulanza. Durante il viaggio verso l’ospedale fece segno al segretario di avvicinarsi, chinarsi col capo vicino alle sue labbra per potergli dire «Era un assassino politico. Jacson era un membro della Gpu o un fascista. Più probabilmente della Gpu»[17]. Dal letto d’ospedale Trotsky, «esausto, ferito a morte, con gli occhi quasi chiusi», lanciò un’occhiata verso il segretario e con voce debole disse: « Joe… ha … un quaderno?». Quante volte gli aveva rivolto quella domanda ma con tono più energico:
Adesso la sua voce era roca, le parole a malapena distinguibili. Parlava facendo un grande sforzo, lottando contro la tenebra incombente. Mi appoggiai al letto. I suoi occhi sembravano aver perduto quel rapido guizzo di versatile intelligenza che era così caratteristico del Vecchio. Gli occhi erano fissi, come se non fossero più consapevoli del mondo esterno, eppure percepivo la sua enorme forza di volontà che teneva lontano il buio, rifiutandosi di cedere al nemico prima di aver assolto un ultimo compito. Lentamente, con voce esitante, scegliendo le parole, egli dettò con dolore in inglese, una lingua per lui straniera, il suo ultimo messaggio alla classe operaia. Persino sul letto di morte, non aveva dimenticato che il suo segretario non parlava russo!. “Sono vicino alla morte dopo aver ricevuto un colpo da un assassino politico… mi ha colpito nella mia stanza. Ho lottato con lui… siamo… entrati… abbiamo parlato di statistiche francesi… mi ha colpito… Per favore, dica ai nostri amici…. Che sono sicuro… della vittoria… della Quarta Internazionale. Avanti!”[18].
Gli fu fatta una radiografia e i dottori decisero di operarlo immediatamente. Quando vide che l’infermiera stava per tagliargli i capelli per prepararlo all’operazione, si rivolse verso Natalja e scherzando le disse: «avevo proprio bisogno del barbiere». Quando si accorse che le infermiere lo stavano svestendo si rivolse ancora alla sua compagna dicendole con grande tristezza: «non voglio che mi spoglino gli altri… voglio che sia tu a farlo». Furono le ultime parole che scambiò con lei. Dopo averlo spogliato gli sfiorò le labbra con le sue. Rispose più volte al bacio. Provò a parlare ancora, ma le parole farfugliate erano incomprensibili. La voce svanì, gli occhi si chiusero, perse coscienza. L’operarono. Fu eseguita una trapanazione cranica, si scoprì che la piccozza era penetrata per sette centimetri, distruggendo una parte del tessuto cerebrale. Clinicamente l’operazione era riuscita. Alcuni dottori dichiararono però che il caso era assolutamente senza speranza. Altri concessero al Vecchio una piccola speranza. Lo riportarono nella sua stanza. Natalja si sedette vicino al letto sperando contro ogni speranza. Gli occhi erano chiusi, il respiro a tratti pesante. Tuttavia parve ai medici che ci fosse un lieve miglioramento. Ben presto le condizioni del paziente precipitarono, il respiro si fece irregolare. Natalja chiamò i dottori che accorsero:
Lo sollevarono. La testa gli ricadde su una spalla. Le sue mani penzolavano come quelle della crocefissione del Tiziano, la Deposizione. Invece di una corona di spine, il morente aveva una fasciatura. I tratti del suo viso conservavano la loro purezza ed il loro orgoglio. Sembrava come se da un momento all’altro egli si sarebbe alzato ed avrebbe provveduto a se stesso. Ma la ferita era penetrata troppo a fondo nel suo cervello. Il risveglio tanto intensamente atteso non venne mai. Anche la sua voce taceva. Tutto era finito. Non era più tra i vivi[19].
Morì alle ore 7.25 del pomeriggio. Era il 21 agosto 1940, aveva sessant’anni. Dal 22 al 27 agosto la salma fu esposta nella camera ardente in attesa della risposta del governo americano alla richiesta di trasportare le spoglie a New York per un’altra cerimonia funebre. Circa trecentomila persone sfilarono a rendere omaggio alla salma, vegliata dai suoi più stretti collaboratori e ricoperta da un drappo con l’emblema della Quarta Internazionale. Il 26 agosto il governo americano rispose di no. Trotsky, che si era opposto alla mummificazione della salma di Lenin, a Natalja aveva espresso il desiderio che, una volta morto, le sue spoglie fossero cremate. Così il 27 agosto le ceneri furono sepolte nel giardino di casa. Sopra fu posta una lapide col nome e la falce e martello, al centro del giardino, sulla quale fu posta la bandiera rossa. Tutto intorno l’erba verde, gli alberi, i cactus che Trotsky aveva piantato, i cespugli di rose curati da Natalja. Cada año después del crimen, ella regresaba por la casa cada 20 de agosto, esperando los mensajes, arreglando la tumba connuevas flores, plantando nuevos rosales, siempre animada por el sentimiento de fidelidad a la misión que se había dado: mantener viva la memoria de Trotsky (Ogni anno dopo il crimine, lei ritornava in quella casa il 20 agosto, aspettando i messaggi, sistemando la tomba con nuovi fiori, piantando nuovi roseti, sempre animata dal sentimento di fedeltà alla missione che si era data: mantenere viva la memoria di Trotsky).
Quando la notizia dell’eliminazione di Trotsky giunse a Mosca, il Commissario del popolo Berjia diede ordine di eliminare tutti i militanti trotskisti o presunti tali detenuti nelle prigioni e nei campi di lavori. Nel 1940 una nuova ondata repressiva si abbatté sui detenuti e sui deportati, colpendo in particolare quelli bollati come militanti trotskisti per consumare una «cruenta vendetta trasversale» contro il defunto leader della Quarta Internazionale[20]. La morte di Trotsky non ebbe eccessivi riflessi negativi su Stalin. Come scrisse la moglie, egli era ormai troppo forte per essere colpito da quella vicenda. I giornali sovietici e quelli comunisti degli altri paesi ripeterono le calunnie e le menzogne nei suoi confronti. Eppure, concludeva Natalja, Trotsky sarebbe rimasto nella storia come uno dei pochi della vecchia guardia leninista «che avesse avuto il coraggio di opporsi apertamente alla dittatura»; lasciava l’esempio della sua rettitudine, i suoi scritti e quelle erano le cose che non si potevano cancellare «né con un colpo di piccozza né con un plotone di esecuzione»,[21] scrisse la moglie.

NOTE
[1] Lev Trotsky, Diario d’esilio, Milano, Garzanti, 1975, p. 205 e 207. Si può osservare che il testamento di Trotsky in questo passaggio inserisce «l’evento della morte all’interno della mappa delle leggi naturali», che l’uomo moderno occidentale va tentando di delineare e padroneggiare con la scienza e le tecniche e cerca quindi di dominarlo alla stregua di tutto il resto» (Luciano Parinetto, Corpo e rivoluzione in Marx, Milano, Moizzi Editore, 1977, p. 310).
[2] Lev Trotsky, In memoria di A.A. Ioffe, in Lev Trotsky, La lotta allo stalinismo 1924-35, opere scelte, vol.5. 1, Roma, Prospettiva edizioni, 1995, p. 288
[3] Karl Marx. (Peuchet: sul suicidio, in Marx-Engels, Opere, IV, Roma, Editori Riuniti, 1972, p. 548
[4] Lev Trotsky, Diario d’esilio, cit., p. 207.
[5] The Testimony of Sieva (Esteban Volkov), 70 year after the assassination of Leon Trotsky, «La Veritè», n. 69, 2010, in http.//www2.socialistorganizer. org/index.php?option=com_content&task=view
[6] Esteban Volkov,The fight of the Trotsky family, intervista pubblicata su «Militant», 17 giugno 1988, ora in http://www.marxista.com/trotsky-assassination-esteban-volkov210806.htm. «Seva si era svegliato allorché gli assalitori avevano mitragliato la porta che dalla sua camera immetteva nel patio, e le pallottole avevano colpito il muro poco al di sopra di lui. Egli si era immediatamente gettato giù dal letto ed era rotolato sotto di esso. Gli assassini avevano sfondato la porta e, passando vicino al suo letto, uno di loro vi sparò contro e la pallottola colpì Seva ad un alluce. Quando se ne furono andati, Seva aveva chiamato aiuto ed era poi corso fuori dalla stanza gridando, sicuro che suo nonno e sua nonna fossero morti. Egli lasciò delle chiazze di sangue dietro di sé, sul viottolo del patio ed in biblioteca» (Joseph Hansen, Il primo tentativo di assassinare Trotsky in Messico, in Michel Raptis, Joseph Hansen, Natalja Sedova, Jean Van Heijenoort, L’assassinio di Trotsky, «Centro Studi Pietro Tresso», n. 6, agosto 1990, p. 12).
[7] Lev Trotsky, Discorso per la riunione di New York, in La lotta allo stalinismo 1935/40, opere scelte, volume 6, Roma, Prospettiva Edizioni, 2000, p. 88
[8] Lev Trotsky, Ancora una volta sulla natura dell’Urss, in La lotta allo stalinismo 1935/40, cit., p. 293
[9] Joseph Hansen, Con Trotsky fino all’ultimo istante, in Michel Raptis, Joseph Hansen, Natalja Sedova, Jea Van Heijenoort, L’assassinio di Trotsky, cit., p. 31. La caccia a Trotsky ormai era seguita personalmente da Stalin il quale più volte in quei mesi convocò il Commissario del popolo Berjia avvertendolo con fare sinistro e minaccioso che era stufo dei tentavi falliti per eliminare il suo avversario. Il Commissario del popolo tenne una serie di riunioni e furono raddoppiati gli sforzi per eliminare Trotsky (cfr. Dimitri Volkogonov, Trionfo e tragedia, Milano, Mondadori, 1991, p. 400).
[10] Joseph Hansen, Con Trotsky fino all’ultimo istante, in op. cit., p. 43
[11] In Victor Serge, Vita e morte di Trotsky, Bari, Laterza, 1976, p. 289
[12] The Testimony of Sieva (Esteban Volkov), cit.
[13] Joseph Hansen, Con Trotsky fino all’ultimo istante, cit., p. 32
[14] Ivi, p. 33
[15] Esteban Volkov, Reflection on the Legagy of Leon Trotsky, cit.
[16] Joseph Hansen, Con Trotsky fino all’ultimo istante, cit., p. 33
[17] Ibidem
[18] Ivi, p. 34
[19] Natalja Sedova, Com’è accaduto, in Michel Raptis, Joseph Hansen, Natalja Sedova, Jean Van Heijenoort, L’assassinio di Trotsky, cit., p. 28
[20] Cfr., Dimitri Volkogonov, Trionfo e tragedia, cit., p. 395.
[21] Natalja Sedova, La mia vita con Trotsky, «L’Europeo», n. 1, 7 gennaio 1962, p. 17

Diego Giachetti - www.anticapitalista.org

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