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(14 Novembre 2010) Enzo Apicella

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L’organizzazione. Ovvero la posta in gioco. Introduzione a Contropiano Rivista*

(17 Settembre 2013)

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Nella crisi del movimento comunista e operaio, in corso da almeno due decenni, si sono sviluppate nel nostro paese posizioni e analisi di diverso segno, spesso in competizione come avviene tra chi è stato sconfitto, ognuno cercando di trovare una risposta alla crisi del movimento di classe e analizzando le caratteristiche del moderno capitalismo.

Ha prevalso, com’era inevitabile, l’analisi delle dinamiche oggettive ritrovando o criticando gli strumenti propri del marxismo e del movimento comunista del ‘900. Sul piano del conflitto di classe reale e della transizione, invece, l’unico elemento che si è imposto, con tutti i limiti che pure ha, è stato quello, in corso con tutte le specificità del caso, in America Latina dove, in modo anche imprevisto, interi Stati hanno divaricato le loro prospettive rispetto all’imperialismo USA.

Dentro l’attuale momento storico, coattivamente “dedicato” alla riflessione critica e autocritica, c’è stata in Italia e non solo una grande assenza, una rimozione rispetto alla questione dell’organizzazione del movimento di classe e dei comunisti. In tale periodo si sono perpetuate sostanzialmente due visioni, quella classica del partito “leninista” (molto tra virgolette) e quella movimentista democratica dove si affermava, a parole, che avrebbe dovuto prevalere la relazione “orizzontale”. Queste concezioni si sono, di fatto, limitate a ripetere le ipotesi organizzative della fase storica precedente ancor’oggi in apparente contrapposizione ma avendo in comune una visione idealistica, ferma nel tempo, modellistica dell’organizzazione del movimento di classe. Insomma l’organizzazione è comunque data, in una forma o nell’altra, mentre tutto il resto cambia; una contraddizione questa che equivale a un pugno nell’occhio e che diventa foriera di disastri sul piano politico.

Che cosa è stato, colpevolmente o inconsapevolmente, rimosso da questa tematica? Alcuni “particolari” ovvero ci si è dimenticato di quanto incidono sulla soggettività politica gli eventi storici precedenti, come interviene la modifica della condizione e composizione di classe e infine s’ignorano le dinamiche generali che agiscono nel fondo della società e che determineranno effettivamente le caratteristiche delle organizzazioni di classe. Insomma è stata operata un’incredibile rimozione teorica rispetto alla capacità avuta dal movimento comunista e dal marxismo rivoluzionario che ha sempre analizzato, discusso e modificato le proprie forme organizzate in relazione al contesto generale in cui si stava operando. Rimozione ingiustificabile per chi si propone la costruzione di una società alternativa al capitalismo.

Questo numero della Rivista Contropiano non si propone di dare una risposta, questo non può che avvenire nella crudezza del conflitto reale, ma di offrire una chiave di lettura da sviluppare per ridare la necessaria dinamicità teorica e storica alla questione che stiamo trattando. Per questo abbiamo inserito nella rivista alcuni richiami, purtroppo di più non era possibile, al dibattito che c’è stato sia alla fine dell’Ottocento sia a proposito della nascita del movimento comunista nella prima parte del ‘900. Alcuni stralci delle opere di Marx, Labriola, Lenin e Gramsci con alcuni commenti di autori più contemporanei. Abbiamo poi aggiunto uno scritto di Giorgio Gattei fatto per il quaderno della Rete dei Comunisti del 1999 “partito e Teoria” che ha il pregio notevole di inquadrare storicamente l’evoluzione delle organizzazioni del movimento operaio. Ospitiamo anche due interventi molto diversi ma utili al nostro obiettivo……………………………………

Questa documentazione riguarda un periodo preciso e un determinato contesto storico e geografico ma rischia di apparire, anche inconsapevolmente, “eurocentrico” in quanto non tratta direttamente un altro importante pezzo della nostra storia, cioè quella del ruolo dei comunisti nell’antimperialismo nei paesi coloniali che ha indubbiamente prodotto trasformazioni radicali nel contesto mondiale che ancora permangono. Ci riferiamo alla Cina, al Vietnam, a Cuba e ad altre esperienze la cui differenza non è stata solo di luogo ma anche di costruzione dell’organizzazione e di analisi della realtà che questi partiti si sono dati nel contesto concreto in cui agivano.

Basti ricordare per tutti il “Servire il Popolo” del partito cinese (che non nulla a che fare con le macchiette nostrane a cavallo degli anni 60/70) che modifica le caratteristiche del Partito Comunista adeguandolo alla realtà tutta contadina della Cina della prima metà del ‘900 o, sempre per soffermarci alla Cina, al ruolo difficile e coraggioso interpretato dal partito a ridosso degli sconvolgimenti ideologici e materiali della Grande Rivoluzione Culturale e Proletaria. Non ci siamo dimenticati di quest’aspetto e, anche se non è qui trattato per motivi di spazio, pensiamo che quelle esperienze rafforzino ancora di più la necessità di cogliere il nesso tra organizzazione e classe reale che si manifesta nelle diverse condizioni.

L’organizzazione, da quella afferente i settori di classe fino a quella che attiene alla soggettività organizzata (il partito), non è la definizione di un modello valido nei secoli ma è un corpo vivo che cresce, si rafforza o s’indebolisce rispetto al suo contesto di riferimento. Allora è su questo riferimento che bisogna ragionare per dedurre la forma adeguata a sostenere le sfide che si presentano. Naturalmente va salvata nelle modifiche da praticare la questione del “Fine”, in altre parole della trasformazione dello stato di cose presente, e il bagaglio teorico storicamente accumulatosi necessario a tale necessità.

Ma a partire da questo dobbiamo ragionare, poiché comunisti che agiscono dentro uno dei centri imperialisti principali, e capire con quale tipo di classe abbiamo a che fare, quale ruolo ricopre nella produzione mondiale, quali caratteristiche culturali gli appartengono, quale relazione ha con l’egemonia dominante. Ancora, dobbiamo capire i guasti “autoctoni” dei comunisti italiani sia che vengano dal PCI o dalla sinistra extraparlamentare che dalla fallimentare “Rifondazione Comunista” del 1991. In sintesi dobbiamo capire di quale organizzazione dobbiamo dotarci nel contesto storico e materiale che stiamo vivendo qui in Italia e nella prospettiva della battaglia strategica che riteniamo essere quella della rottura del polo imperialista dell’Unione Europea.

L’organizzazione di classe

Va chiarita in via preliminare una questione, parlare di organizzazione di classe non significa solo parlare del partito ma fare riferimento a una costruzione sistematica in cui si da vita a un “tessuto connettivo”, a una relazione stabile tra diversi settori sociali dove il partito dei comunisti può avere la funzione di direzione ma solo se è strettamente connessa al suo retroterra concreto. Per produrre una simile relazione, la prima questione che ci si deve oggi porre è quella della conoscenza della condizione oggettiva e soggettiva della classe e delle sue sezioni. Questo è un processo analitico che è, per chi vive nell’Unione Europea, indispensabile in quanto la classe che spesso si ha in mente è molto diversa da quella che si è generata dalla riorganizzazione produttiva iniziata circa trenta anni fa e che hanno sconvolto i vecchi assetti sociali fordisti e i compromessi su cui si poggiavano.

Nella considerazione riguardante la soggettività non possiamo prescindere dal processo di disgregazione politica da questa prodotta dalla mutazione o distruzione degli strumenti alla base di una tale soggettività, almeno in Italia dove c’è stato il movimento comunista (o meglio il Partito Comunista) più forte in occidente. Ci riferiamo alla mutazione ormai palese a tutti della CGIL, a quella del movimento cooperativo, alla chiusura dei comitati di quartiere e delle case del popolo, all’associazionismo diffuso e di base, alla dismissione del ruolo degli intellettuali e della cultura, insomma alla distruzione sistematica e scientificamente perseguita dai ceti politici della sinistra di tutti quegli strumenti che, anche in una fase di ritirata come questa, sarebbero stati comunque importanti elementi di resistenza politica, culturale e d’identità per l’insieme del proletariato ovunque collocato.

Egual peso ha avuto, nel determinare la situazione attuale, la “rivoluzione” produttiva internazionale che ha promosso il capitale. Dalla produzione fordista di massa di cui conosciamo bene i termini e dalla classe lavoratrice da questa prodotta, di cui abbiamo ancora nelle nostre teste il riverbero che spesso condiziona ancora i nostri comportamenti politici, si è passati a una condizione lavorativa completamente diversa. Per ridare alla forma attuale della classe identità e organizzazione è necessario un lungo lavoro di ricostruzione che non può non partire da una forte capacità analitica e da un riadeguamento dei processi politici concreti.

Per entrare nel merito, e per sintesi in quanto la Rete dei Comunisti ha sviluppato nei decenni scorsi una abbastanza esaustiva analisi poi verificata dalle dinamiche sociali reali, la prima cosa che va detta è che il cambiamento di pelle avuto dalla classe lavoratrice non è stato il prodotto politico delle scelte padronali ma della capacità del capitalismo di sviluppare e riqualificare, ulteriormente, le forze produttive. Lo sviluppo della scienza e della tecnologia sotto il segno del capitale, dunque a lui organicamente funzionali, è stato il punto di volta nel conflitto di classe della fine del secolo scorso. Da qui nasce il processo di mondializzazione della produzione con il decentramento e la delocalizzazione che hanno prodotto le periferie produttive, dai paesi dell’est Europa fino alla Cina, nate negli anni ’90. “L’esportazione” della produzione di merci ha cambiato le funzioni e le condizioni della classe lavoratrice nei paesi imperialisti e dunque, sicuramente a scala differenziata, anche da noi nell’Europa occidentale.

Questo ha prodotto modifiche nelle qualifiche lavorative dove ha prevalso il lavoro intellettuale, sempre subordinato, sono stati possibili estesi processi di precarizzazione e di disgregazione nella produzione dei servizi e non più di merci, l’immissione di masse d’immigrati hanno causato altri momenti di disgregazione sociale, insomma nel tempo si è prodotta quella condizione di arretramento politico nelle forme e nei modi che oggi possiamo empiricamente sperimentare. Va detto che questo è stato ottenuto in cambio di uno sviluppo del consumismo, che ha fatto accettare tutti i cambiamenti della condizione lavorativa, possibile grazie alla dimensione finanziaria raggiunta e al fatto che il consumo è stato fatto crescere grazie al credito e alle politiche di debito che oggi, con la crisi, stanno presentando il conto.

Questo cambiamento materiale ha avuto anche un effetto ideologico di massa sul lavoro dipendente e subordinato in generale. Alla disgregazione e individualizzazione del lavoro ha corrisposto un’individualizzazione dell’ideologia delle masse le quali, in questi due decenni trascorsi, si sono manifestate nelle forme politiche peggiori dal tempo del fascismo. Dalla nascita della Lega Nord, fino al culto della personalità di Berlusconi. Dall’insorgere del razzismo all’egoismo sociale diffuso dove i deboli, siano poveri che donne, sono coloro i quali pagano i prezzi più alti. Questi non sono giudizi morali ma una sollecitazione a capire che le manifestazioni sociali hanno radici profonde ed è proprio da queste manifestazioni degenerate che bisogna partire per capire come riprendere l’iniziativa in forme espansive e non con autistiche coazioni a ripetere come spesso è accaduto nelle svariate fondazioni e rifondazioni succedutesi negli ultimi due decenni-

Qui il rimando alle lezioni di Lenin del “Che Fare” per noi è decisivo. Per anni abbiamo sentito parlare dell’importanza della “società civile”, della valorizzazione della spontaneità contro l’organizzazione, del superamento delle sintesi superiori nei processi di organizzazione e dell’esaltazione dei movimenti “a Km 0”; quello che si sta manifestando oggi è invece l’impotenza concreta e ideologica delle masse lasciate a se stesse poiché dalla loro condizione specifica non ne traggono le conseguenze politiche e organizzative necessarie in modo spontaneo. Non solo, ma in queste condizioni l’insorgere della crisi economica e sociale ha un effetto ancor più deprimente sulle capacità di reazione al peggioramento generale in atto poiché prevalgono ancora di più paura ed egoismo sociale.

Le pagine che qui riportiamo del “Che Fare” descrivono bene e in modo preveggente la condizione attuale; non si tratta di fare l’esaltazione dell’organizzazione contro lo “spontaneismo” ma capire che i movimenti di lotta hanno una prospettiva solo se si riconoscono dentro un processo politico indipendente di riorganizzazione della classe intesa come soggetto, che per i comunisti non può che essere anche soggetto storico. Questa concezione che permea il “Che Fare” ha dimostrato la sua validità nel conflitto del ‘900 ma oggi è ancora più importante. La società che emerge dai processi di finanziarizzazione capitalistici, che incalzano per il profitto in modo sempre più forte il sistema produttivo e la forza lavoro, tende a essere sempre più disgregata e individualizzata direttamente nei rapporti di lavoro oltre che socialmente. Affrontare e superare questa condizione di disgregazione è possibile solo con una socializzazione delle relazioni che ha come suo terreno naturale l’organizzazione dei settori di classe. La necessità dell’organizzazione si dimostra essere direttamente proporzionale alla disgregazione che nasce dalla produzione capitalistica attuale.

Purtroppo non dobbiamo fare un dibattito molto approfondito su questo perché la realtà dei fatti ci si sta squadernando sotto gli occhi; la passività dei settori sociali di fronte alla crisi, la loro impotenza anche nei casi in cui il conflitto esiste ci dice che c’è un problema di alternativa politica generale che non può risolversi con la spontaneità delle masse ma con un progetto sociale alternativo che è possibile solo con una prospettiva socialista adeguato al secolo che si apre. Non adottarla e non saperla articolare nella complessa realtà sociale del nostro paese forse può significare promuovere conflitti, anche rilevanti, ma strategicamente significa rimanere subordinati alla egemonia predominante, che da noi può assumere le forme di una “sinistra” democratica come quella del PD e dei suoi alleati o del sindacalismo concertativo della CGIL.

Il nodo del Partito

La questione del Partito, o più semplicemente per noi oggi quella dell’organizzazione dei comunisti, va affrontata a partire proprio da questo intreccio organico tra spontaneità, organizzazione e prospettive di cambiamento sociale. Questa non è un’affermazione astratta ma è quello che è accaduto già in Italia e nel mondo e che ora, con la immanenza della crisi sistemica del capitale e della sua egemonia, si ripropone sul piano della transizione sociale ma che pretende forme organizzate compatibili con la più complessa realtà di classe in particolare nei paesi imperialisti.

La risposta data in Italia con la sconfitta del Fascismo e nell’occidente capitalistico fu quella della nascita dei partiti di massa, in particolare nel nostro paese questa esperienza è stata la più consistente perché l’elaborazione fatta in precedenza dai comunisti era in sintonia con le condizioni storiche e materiali prodottisi nel dopoguerra. La lotta di liberazione aveva dato al Partito Comunista la forza per imporre la sua presenza politica a pieno titolo nel paese e questa forza fu confermata dalle scelte politiche fatte dopo la liberazione. Il PCI fin dal 1944 si pone come forza nazionale ovvero reclama per la classe operaia un ruolo nazionale e di ricostruzione dalla distruzione prodotta dal conflitto mondiale. Fu un processo di ricomposizione che riguardava anche settori diversi dalla classe operaia, dai contadini fino agli intellettuali, dalle donne ai giovani tutti segnati dalla tragedia della seconda guerra mondiale.

L’altro terreno che caratterizzò il partito di massa fu la lotta per la democrazia; la difesa della costituzione, la lotta contro la legge truffa del ’53, quella contro Tambroni che tentò di rilegittimare i fascisti riportandoli al governo, contro la FIAT Vallettiana sono stati momenti significativi della lotta per la democrazia nel nostro paese. Va ricordato però che, almeno nelle intenzioni teoriche, quella lotta non fu fatta per difendere il formalismo della democrazia borghese ma perché era intesa come tappa necessaria (la democrazia progressiva) nella marcia verso il Socialismo e, spesso, interpretata dalle masse popolari come una strada verso la propria emancipazione.

Infine la condizione generale che permetteva la tenuta e la crescita dei partiti comunisti di massa erano i rapporti di forza internazionali, quelli tra USA e URSS, quelli prodotti dalle variegate lotte di liberazione dei popoli coloniali che limitavano il potere dell’imperialismo americano.

La fine del PCI e la nascita della “Rifondazione Comunista” non hanno cambiato l’impostazione di massa del partito, al di la delle pur gravi degenerazioni successivamente determinatesi. E’ proprio su questo punto che vanno sviluppate le analisi e le ipotesi di ricostruzione dell’organizzazione dei comunisti perché queste non possono prescindere, anche oggi, dal contesto storico e materiale. Vanno individuati perciò quegli elementi di discontinuità che oggi ci devono portare ad analizzare le nuove condizioni e a interpretare le nuove modalità di azione, ne citiamo solo alcune ma che hanno una rilevanza notevole ai fini dei nostri ragionamenti.

Intanto va detto che le tre condizioni citate per l’affermazione del partito di massa sono tutte radicalmente mutate. La questione nazionale è in via di superamento verso quella continentale con la costruzione del polo imperialista europeo. Quella democratica è oggi completamente subordinata ai poteri finanziari e alla “eurocrazia” nata con l’Euro e l’Unione Europea, purtroppo la lotta per la democrazia oggi si presenta solo come tentativo di resistenza e di difesa di una situazione ormai compromessa. La fine dell’URSS non solo ha riportato i rapporti di forza internazionali a favore del capitale ma ha anche segnato il passaggio dalla stabilità del bipolarismo USA/URSS a un multipolarismo, ciò che abbiamo definito come accresciuta competizione globale interimperialistica, che tende a manifestare tutta l’irrazionalità dello sviluppo capitalista.

Da questo salto storico discendono alcune questioni che hanno a che fare con i processi di organizzazione dei settori di classe. La prima l’abbiamo ricordata e riguarda la modifica della composizione e condizione della classe a livello internazionale con i processi di disgregazione materiale prodotti dalle riorganizzazioni produttive e sociali. La seconda è stata l’affermazione quasi senza contrasto dell’egemonia delle classi dominanti che ha plasmato in questi decenni l’ideologia di massa dei settori sociali subalterni. Per concludere va ricordato l’appannamento del “fine”, ovvero di quale socialismo, di quale alternativa alla società attuale per cui lottare ha reso tutto più difficile, complesso e meno certo di quando si poteva pensare di avere a disposizione un diverso modello sociale da agitare e propagandare.

Abbiamo affermato che nello sviluppo delle varie fasi storiche a ogni cambiamento prodotto dallo sviluppo capitalista corrisponde una modifica dell’organizzazione di classe. Questa dinamica è valida ancora oggi e rispetto alle analisi che abbiamo fatto sia sul piano della oggettività sia delle condizioni soggettive riteniamo riacquisti peso un’ipotesi di organizzazione di quadri militanti. Il Partito di massa così come lo abbiamo conosciuto è arrivato al suo epilogo grazie alle caratteristiche dei suoi gruppi dirigenti, caratteristiche non individuali ma prodotto di un profondo processo strutturale che è approdato, attraverso vari sussulti, alla nascita del PD e sul quale non ci dilunghiamo in questa sede.

Dunque attualizzare ed impegnarci oggi per una scelta verso il “partito dei quadri” non è volontaria ne dettata da settarismo ma è data dalla situazione; questo non significa pensare che questa ipotesi sia esaustiva ma è un passaggio obbligato per ridare una credibilità di massa alla possibilità di cambiamento. Vale comunque la pena di ribadire che parlare di partito di quadri non significa porre un limitequantitativo e dunque necessariamente avere un approccio minoritario ma, bensì, significa mettere al centro del lavoro di costruzione del Partito/Organizzazione la qualità della militanza, la maturità dei singoli compagni che devono essere coscienti della complessità del compito che sisono scelti oltre che avere un’organizzazione in grado di sostenere, sul piano teorico, politico ed organizzativo, l’impegno collettivo e individuale richiesto.

Così come va sostenuto il libero confronto interno all’organizzazione con un processo continuo, fisiologico si potrebbe dire, di dibattito e di maturazione collettiva nelle strutture che è l’unica forma reale di democrazia se si vuole rifiutare la mistificazione della democrazia formale che in realtà è spesso funzionale solo agli equilibri che viggono dentro i partiti così come li abbiamo conosciuti nella storia del movimento comunista.

Capacità di sintesi e rapporto di massa, organizzazione e spontaneità sono questioni veramente moderne riportate in auge dalla riorganizzazione capitalista, dal nuovo livello di sviluppo delle forze produttive e dalle inedite forme di dominio che il capitale incarna. Divenire Partito o organizzazione di quadri perché si deve affrontare questa situazione in evoluzione che ha i caratteri detti. Ricostruire dunque un intellettuale collettivo significa misurarsi con i problemi dell’egemonia e della teoria oggi, e questo non può essere fatto da un corpo militante che diviene tale in occasione degli “eventi” politici o delle scadenze elettorali. L’inadeguatezza di un tale agire è palese e ormai verificato ed è inutile spiegarla; il problema che abbiamo è come ci si predisponiamo per il suo superamento non formale ma nel gorgo delle dinamiche del conflitto e nell’impatto con l’universo delle contraddizioni.

Se le dinamiche storiche che abbiamo cercato di estrapolare sono minimamente azzeccate, e cioè la disgregazione della classenella produzione/accumulazione flessibile, la complessità sociale dei centri imperialisti, le caratteristiche inedite dei sommovimenti politicilegati alla nuova condizione sociale e di classe ne consegue, anche qui, la necessità di un approccio qualitativo che non può essere sostituito da nessun protagonismo politico o elettorale visto lo spessore delle questioniche si pongono di fronte ad una seria ricostruzione di una realtà comunista, partito o organizzazione che sia.

La formazione dei “quadri” oggi

Porre la questione del partito dei quadri, ovvero della qualità dei militanti dell’organizzazione, ci obbliga inevitabilmente a ragionare a come oggi possono essere formati dentro un contesto che è molto diverso dalle condizioni precedenti che hanno, da noi, fatto crescere l’organizzazione comunista. Certamente la prima differenza è la diversità delle condizioni materiali in cui nasce e si forma la militanza; per la classe lavoratrice del ‘900 partecipare alla vita politica in modo attivo significava anche mettere le basi per la propria emancipazione. Questa non era principalmente economica ma politica, culturale, ideologica; per un operaio, per un contadino, per i lavoratori in genere la militanza attiva permetteva uno sviluppo personale che la società classista rendeva molto difficile. Anche le condizioni economiche attuali, per quanto in via di peggioramento rapido, non permettono ancora di realizzare in modo diffuso una rottura individuale con i valori dell’attuale società. Anzi la tendenza prevalente, quasi antropologica, sembra essere il ritorno ai particolarismi, alle piccole concretezze individuali e a una competizione al ribasso specie tra i ceti subalterni.

A questa condizione oggettiva si aggiungono elementi che incidono sulla soggettività personale di chi oggi fa militanza. Il primo è certamente l’assenza di un chiaro progetto di alternativa sociale da contrapporre al capitalismo in particolare nei suoi paesi di maggior rilevanza; una conseguenza diretta di questa è la debolezza politica e culturale delle forze di sinistra e comuniste che non riescono a proporre un’idea organica antagonista tale da poter mettere in moto forze reali e ideali nella società, tra i lavoratori, i giovani, etc. L’altra è l’egemonia della classe avversa che condiziona ed ha costruito una cultura di massa che contrasta, nei fatti più che nelle forme, ogni impegno sociale e politico valorizzando piuttosto un “volontariato” orientato su tematiche ben distanti da quella di classe e della giustizia sociale. Questa cultura è stata l’arma più potente in mano all’avversario di classe che tramite l’affermazione dell’individualismo e contro ogni idea collettiva ha prodotto devastazioni dentro le stesse organizzazioni della sinistra dove il ruolo personale, associato anche agli interessi materiali, è stato il perno su cui si faceva ruotare tutta la dialettica interna. A ciò va aggiunto che qualsivoglia progetto o allusione a temi riguardanti la trasformazione sociale va immaginato con una dimensione internazionale ed internazionalista non per mero feticcio ideologico ma come conseguenza pratica rispetto alle vigenti forme del comando capitalistico e dei suoi mondializzati rapporti sociali. Si comprenderà, quindi, come questa soglia necessaria e non scansabile diventa una sfida per la nostra intrapresa comunista e rivoluzionaria.

In conclusione affrontare la questione del partito non è solo un problema di forme organizzative adeguate, ma in questo contesto storico si pone anche un problema di formazione dei militanti politici che non è per nulla secondario e tantomeno scontato. Naturalmente qui possiamo solo accennare a una questione che riveste un ruolo centrale nelle nostre prospettive ma averla presente aiuta a ragionare sulla riorganizzazione del movimento di classe e dei comunisti.

Su questa china si colloca il lavoro della Rete dei Comunisti, dei suoi strumenti culturali, politici e il nostro impegno militante nei movimenti di lotta e oltre. Da qui il rinnovato invito che facciamo, anche attraverso la Rivista Contropiano, a una più avanzata sinergia e cooperazione e allo sviluppo di una discussione collettiva tra quanti avvertono le nostre stesse tensioni e vogliono, sinceramente, ricostruire e riqualificare il Partito/Organizzazione dei comunisti nel vivo dello scontro e nel corso della crisi capitalistica.

*Introduzione a Contropiano Rivista, settembre 2013

www.retedeicomunisti.org

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