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(11 Novembre 2012) Enzo Apicella

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Primavera araba: dalle rivolte a un nuovo patto nazionale*

(6 Ottobre 2013)

Si potrebbe pensare che il libro Primavera araba: dalle rivolte a un nuovo patto nazionale (ed. Paoline, 2013), uscito nell’aprile scorso, sia ormai superato dagli eventi. In effetti, nel frattempo, lo scenario è mutato: in Egitto si è consumato un colpo di Stato e il mondo intero ha vissuto con preoccupazione la minaccia, poi rientrata, di un intervento militare franco-statunitense in Siria.
In verità, tali circostanze non rendono inattuale il volume, curato da Vittorio Ianari e inclusivo di un breve scritto di Andrea Riccardi, rispettivamente esponente e fondatore della Comunità di Sant’Egidio. Perché l’ottica qui adottata non è quella delle previsioni geopolitiche, fatalmente smentite – anche a breve distanza - dalle scelte di quei potenti della terra che spesso sembrano procedere senza strategie di largo respiro. Bensì, quella della raccolta di testimonianze dai vari paesi interessati da quel sommovimento che convenzionalmente viene definito “primavera araba”.
A parlare sono personalità di diverso orientamento culturale e religioso: spesso si tratta di voci di assoluto rilievo i cui interventi vanno, quindi, letti con la massima attenzione.
Di certo, l’importante realtà del mondo cattolico che ha curato il libro, ha saputo crearsi una significativa rete di rapporti nel mondo arabo perché si è mossa secondo una precisa filosofia, esplicitata da Ianari nell’introduzione del volume. Laddove si precisa che: “l’islam (…) non è rappresentato solo dalla sua componente più refrattaria al dialogo e all’incontro con il diverso da sé. Proprio le rivolte arabe hanno mostrato come nella umma islamica sussistano diverse anime, tra le quali quelle capaci di immaginare un futuro insieme non sono certo minoritarie”.
In tali osservazioni convergono gli studi di Vittorio Ianari, stimato islamologo, che invita ad evitare i luoghi comuni, e la tradizionale propensione al dialogo interreligioso propria di quella che i media chiamano “Onu di Trastevere”.
A questa stimolante introduzione seguono il contributo di Riccardi e le testimonianze: 19 in tutto, disposte in quattro capitoli (Cittadinanza e Statuto dell’altro, Nazione e pluralità religiosa, Una nuova pagina nei rapporti tra mondo arabo e Occidente, Non c’è futuro senza pacificazione).
Non potendole esaminare tutte in questa sede, ci limitiamo a confrontarci con gli spunti di quelle che più ci hanno interessato.
La prima delle quali – forse la più importante – si deve a Rachid al-Ghannouchi, leader e fondatore del movimento Ennahda, affiliato ai Fratelli Musulmani e attualmente al potere in Tunisia. Qui, risultano condivisibili le critiche a certe tesi complottistiche secondo le quali la Primavera araba sarebbe “stata introdotta dagli americani”. Per questa via, si osserva, si giunge “a legittimare la dittatura, che sarebbe un regime nazionalista minacciato nella sua esistenza dall’imperialismo”. Mentre invece i diversi regimi arabi erano appoggiati “dalla comunità internazionale e godevano del suo sostegno”.
Ma lette alla luce dell’oggi suscitano perplessità – o sono rivelatrici in senso negativo – altre dichiarazioni. Ad esempio, parlando della “sfida economica” che la Tunisia deve affrontare, Ghannouchi si concentra su quel “sistema di corruzione (…) sostenuto a livello internazionale” la cui “diffusione (…) sta ponendo seri problemi allo sviluppo del capitalismo”. Ma non fa nessun cenno a quelle politiche di redistribuzione della ricchezza di cui il paese avrebbe bisogno per superare le disuguaglianze sociali, ereditate dal precedente regime. E in effetti, oggi, il governo guidato da Ennahda non solo non accoglie le istanze dei lavoratori, ma si contrappone in modo frontale alle loro rivendicazioni, espresse in frequenti scioperi e manifestazioni di piazza.
Anche le testimonianze provenienti dall’Egitto ci inducono a riflettere sulla più scottante attualità. Mohammed Esslimani, teologo che collabora con il Grande Imam di al-Azhar, la moschea – nata al Cairo nel X secolo – cui è annessa una celebre università, incentra il suo intervento proprio sul ruolo di questo importante centro del mondo sunnita nella fase rivoluzionaria e postrivoluzionaria.
Sottolineando la promozione di momenti “di incontro e di dialogo che hanno coinvolto musulmani di vario orientamento, laici e rappresentanti delle Chiese cristiane, attraverso la creazione di un’istituzione a ciò dedicata, la Casa della famiglia egiziana, in cui ciascuno contribuisce ad accrescere il dibattito nell’accettazione di tutti i punti di vista”.
Tale approccio è in fondo confermato da un altro teologo: Abdul Rahman al-Barr, membro dell’Ufficio Direttivo del Movimento dei Fratelli Musulmani ma anch’egli formatosi all’Università di al-Azhar. Secondo questo studioso “la pluralità discende dal volere di Dio e (…) rimarrà in eterno come una forza propulsiva verso il progresso”. Di conseguenza “nessuno ha il diritto di impedire all’altro di esistere o di isolarsi nella sua specificità”.
Ora, queste affermazioni stridono con alcune notizie che ci sono venute dall’Egitto nel mese di agosto. In una fase segnata dalla feroce repressione dei militari golpisti nei loro confronti, anche esponenti dei Fratelli Musulmani – non solo, quindi, i più integralisti salafiti – avrebbero partecipato ad assalti contro le chiese copte. Un crimine che non può essere giustificato, nemmeno alla luce delle violenze che la Fratellanza stava subendo.
Ma anche un episodio che deve far riflettere. Perché è vero: prima del colpo di Stato, Morsi al potere ha suscitato il malcontento di milioni di egiziani, con una politica, basata sulla mescolanza fra liberismo e latente autoritarismo, che è stata legittimamente contestata dalla piazza.
Ma la Fratellanza è un movimento articolato, non interamente riconducibile a certe spinte. Cercare di escluderla del tutto dalla vita pubblica egiziana, come stanno facendo i militari (con lo spregiudicato sostegno – finanziario e politico – saudita e statunitense), può avere effetti devastanti.
In sostanza, più i Fratelli Musulmani saranno sospinti verso la clandestinità più, nelle loro file, la raffinata interpretazione del Corano dovuta ad al-Barr perderà terreno in favore di quei semplicistici messaggi che identificano l’altro col nemico.
Spostandoci in un paese che, a rigore, non appartiene al mondo arabo, pur intrattenendo con esso profondi rapporti, ci confrontiamo con la testimonianza di Mehmet Paçaci, Direttore generale degli affari internazionali presso la Presidenza degli Affari Religiosi ad Ankara.
Qui, si spendono molte lodi per la Turchia, che sarebbe “riuscita – in una certa misura, naturalmente - , in quanto paese musulmano (…) a darsi un regime democratico e a creare una nuova società civile veramente rappresentativa della volontà del popolo”. Tuttavia, fatti recenti, come la brutale repressione del movimento di Gezi Park – con metodi che possono ricordare quelli usati, nei confronti del dissenso, dal precedente regime laico-autoritario – rendono necessario rafforzare le espressioni cautelative già adottate dallo stesso Paçaci.
Ma la protesta in questione rientra fino ad un certo punto nel nostro argomento, rappresentando un fenomeno solo in parte collegato alla primavera araba propriamente detta.
Più interne alla nostra trattazione, sono le considerazioni relative all’atteggiamento della Turchia rispetto alle trasformazioni in atto nei paesi vicini. Secondo Paçaci “con l’esplosione della primavera araba, la Turchia ha svolto un’azione efficace nella regione” ma sarebbe necessario, da parte sua, “un ruolo molto più attivo (…) perché l’interdipendenza tra area araba e area turca è fortissima”.
In verità, il protagonismo di Ankara ha portato con sé alcune pratiche estremamente dannose, come quella messa in atto in relazione alla spaventosa guerra civile siriana. Che nasce, come dovrebbe essere noto, da due diverse spinte.
Ossia, dalla scelta del regime di Bashar al-Assad di affrontare in termini esclusivamente repressivi la sollevazione originariamente pacifica del 2011, spingendola in qualche modo ad armarsi. E dalla tendenza delle monarchie del Golfo, della stessa Turchia e delle grandi potenze occidentali, a ingerire in questa dinamica per finalità non proprio solidaristiche, fornendo armi e creando gruppi politici e militari eterodiretti.
Ciò ha portato inevitabilmente allo snaturarsi di quella che era una tra le più vivaci primavere arabe.
Ma se si parla di Siria, è inevitabile prendere in considerazione l’intervento di Haytham Manna, portavoce del Comitato nazionale di Coordinamento per il Cambiamento Democratico in Siria. Si tratta di un raggruppamento di forze (socialiste, marxiste, islamiche) che si oppone ad Assad con mezzi pacifici, rifiutando ogni ipotesi di intervento militare esterno. E proponendo un’idea di società davvero plurale, non solo perché multipartitica, ma anche in quanto segnata da uno scambio paritario fra le varie componenti del complesso mosaico etnico-religioso che connota la Siria.
Nello scritto qui pubblicato risulta evidente quanto questa logica venga da lontano. Manna parla, ad esempio, della nascita, nel giugno del 1996 di una “commissione araba autonoma per i diritti umani che potesse lottare per la salvaguardia di tali diritti sia in Oriente che in Occidente”. Un organismo impegnato a promuovere “ogni attività possibile volta a porre fine all’oscurantismo delle dittature (…) del mondo arabo”.
In questa “commissione” ancora operante “convivono anime e sensibilità diverse, ma tutti siamo d’accordo su tre punti: la personalità umana, i suoi diritti e la sua dignità. Se condividiamo tali principi, sono convinto che non saremo mai in conflitto sull’orientamento da dare allo Stato”.
Come si vede, una logica davvero altra rispetto a quella che oggi domina la Siria dilaniata da uno scontro sempre più contraddistinto dal settarismo, con i lealisti e gli oppositori armati che ormai si rappresentano anzitutto come sciiti, nel primo caso, e sunniti nel secondo.
Però, il discorso di Manna ha ricevuto un’attenzione molto limitata da parte della sinistra italiana. Anzi, nei giorni in cui sembrava prossimo l’attacco franco-statunitense, la sacrosanta riprovazione verso un’ennesima aggressione militare spacciata per atto umanitario, è stata fatta coincidere – da alcuni gruppi “antimperialisti” – con il pieno sostegno al regime siriano.
A costoro si potrebbe obiettare che le responsabilità di Assad nella tragedia siriana, pur non esclusive, rimangono gravi.
Ma forse queste posizioni, del resto più “urlate” che argomentate, vanno prese come il sintomo di una difficoltà. Quando non si riesce a leggere fenomeni di grande complessità, ci si rifugia in vecchi adagi anche se – come nel caso del tradizionale “il nemico del mio nemico è mio amico” – la storia si è già incaricata di mostrarne la fallacia.
E’ per questo che occorre promuovere il più possibile la discussione e l’approfondimento. Anche a partire da volumi come questo che, se ne condivida o meno l’impianto culturale, aprono una finestra su una realtà che in fondo conosciamo ancora poco.
21 settembre 2013


*Questa recensione è stata scritta per il n. 3/2013 di "Cassandra", che però - per problemi tecnici - è uscito in ritardo. I significativi eventi verificatisi dopo la data di stesura - segnatamente in Egitto e Tunisia - non sembrano smentirne l'a linea interpretativa.

Stefano Macera

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