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    Zuppa anarchica ribollita?

    A proposito di lavoro e salario garantito

    (11 Novembre 2013)

    Ho buoni motivi per ritenere che coloro che hanno letto il mio articolo Lavorare tutti lavorare meno o salario garantito condividano il parere di Michele Castaldo (Movimenti di massa e sue rivendicazioni), che commenta:

    « [...] la parola d’ordine ‘Lavorare meno, lavorare tutti’ non è né demagogica né reazionaria, ma solo priva di senso logico perché è lontana anni luce dal senso comune dei lavoratori».

    Ciò non toglie che qualche perplessità ci sia, se Gino Caraffi mi fa notare:

    «Fino ad alcuni anni fa, quando partecipavo a funerali di vecchi familiari e di vecchi amici, spesso la banda del paese accompagnava il defunto al suono dell’”inno del lavoro” di Turati, ed ancora oggi nel reggiano può capitare di sentire queste note, che segnano da sempre il valore del lavoro nella visione socialista».

    Il medesimo afflato socialista d’antan, Sandro Mantovani (Panecee o pannicelli caldi?) lo condisce con un richiamo teorico a Marx:

    «I paroloni contro il lavoro non hanno nulla di realmente radicale: è la solita zuppa anarchica ribollita. Marx, del resto, non ha mai parlato contro il lavoro, nel quale anzi riconosce l’attività creativa specificamente umana (nel Capitale egli ricorda l’efficace formula di Franklin: the man is the toolmaking animal). Egli ha parlato contro il lavoro alienato. Ed è tutt’altra cosa. Il salario un giorno sarà – assieme alla pena del lavoro – solo una curiosità storica. Il lavoro – divenuto allora persino dilettevole – ci sarà finché l’uomo calcherà la Madre Terra».

    Caro Sandro, hai scoperta l’acqua calda! Fino a prova contraria, il lavoro nella società capitalistica, è lavoro salariato (alienato ovvero venduto). Il lavoro NON salariato è lavoro schiavistico che tuttavia permane, in forme più o meno mascherate. E cerchiamo comunque di combatterlo, o no?

    Se vogliamo essere precisi, Marx, che non era un «sindacalista», sapeva bene queste cose e di fatti distingue tra lavoro alienato e lavoro non alienato. Il lavoro alienato lo chiama ARBEIT, il lavoro non alienato, ovvero l’attività umana, la chiama TÄTIGKEIT. E a questo significato si riferiva Benjamin Franklin, un artigiano (toolmaking) yankee che sicuramente non aveva conosciuto le gioie della rivoluzione industriale.

    Ma visto che oggi queste gioie le abbiamo conosciute e continuiamo a conoscerle, cerchiamo di fare i conti con la nostra triste realtà e sentiamo un po’ cosa ci diceva a suo tempo Marx, con parole lapidarie (e forse di sapore un po’anarchico ..., per qualche stakanovista nostalgico):

    «In che cosa consiste l’alienazione del lavoro?

    Consiste prima di tutto nel fatto che il lavoro è esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto, ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. Perciò l’operaio solo fuori del lavoro si sente presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro. È a casa propria se non lavora; e se lavora non è a casa propria. Il suo lavoro quindi non è volontario, ma costretto, è un lavoro forzato. Non è quindi il soddisfacimento di un bisogno ma soltanto un mezzo per soddisfare bisogni estranei. La sua estraneità si rivela chiaramente nel fatto che non appena viene meno la coazione fisica o qualsiasi altra coazione, il lavoro viene fuggito come la peste» [Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, A cura di Norberto Bobbio, Einaudi, Torino, 1980, pp. 74-75].

    Son concetti essenziali che Marx sviluppò a fondo poi nel Capitale.

    L’equivoco sulla «santità» del lavoro è nato quando il lavoro salariato manteneva alcuni aspetti di «attività», ovvero quando nel lavoro l’operaio (il cosiddetto operaio di mestiere, skilled workers) poteva metterci del «suo»: abilità manuale e cognizioni intellettuali, ovvero perizie professionali ereditate da precedenti esperienze artigiane. La mentalità che ne derivò pervase le aristocrazie operaie le quali, sul piano politico, animarono la socialdemocrazia e il nazionalcomunismo nonché il fascismo (homo faber!).

    Quell’epoca è tramontata. Prima, sotto i colpi della produzione automatizzata, la catena di montaggio (il cosiddetto taylorismo), poi con il toyotismo (ottimizzare la produzione e saturare il tempo di lavoro), infine con il lavoro flessibile, intercambiabile, che impone il lavoro sans phrase, una pura erogazione di forza lavoro che «sfinisce il corpo e distrugge lo spirito». Qualche illusione è sopravvissuta nell’ambito dei lavoratori intellettuali (il cosiddetto cognitariato), ma presto è stata dissolta dal rapido processo di proletarizzazione che ha coinvolto buona parte dei ceti medi intellettuali.

    In queste condizioni, il lavoro è solo un mezzo per avere un salario di cui vivere: lavorare per vivere e non vivere per lavorare. Ragion per cui, i proletari devono separare nettamente la propria esistenza dal lavoro. E quando il lavoro diminuisce per la crisi del capitale, è folle legare le nostre sorti a un sistema che sta andando in rovina.

    Prendere, non chiedere! Ecco la differenza

    Vengo ora alla questione più importante sollevata da Castaldo e da Mantovani che, con diversi accenti (movimentisti il primo, un po’ scolastici il secondo) avanzano riserve sulla richiesta del salario garantito perché, secondo loro, cadrebbe dal cielo e non camminerebbe su gambe proletarie. Entrambi fanno riferimento alle manifestazioni di Roma del 18-19 ottobre. A mio avviso, sono riserve destinate a cadere, dal momento che nel mio opuscolo sono stato estremamente chiaro:

    «La lotta per il Salario Garantito è oggi legata alla stessa sopravvivenza dei lavoratori di fronte a una crisi mortifera, in cui i proletari non possono fare a meno di prendere in mano il proprio destino, organizzandosi in comunità di lotta, che necessariamente allargano il campo di intervento a tutto ciò che riguarda la nostra esistenza, dalla casa al gas, dalla corrente elettrica ai generi alimentari, passando poi ai servizi essenziali, come sanità e istruzione ... e anche la difesa. Ma al tempo stesso, sviluppando forme di solidarietà che, dando riposte pratiche ai problemi che si presentano, favoriscono l’aggregazione. E consolidano e allargano il fronte di lotta. Pensando, fin dai primi passi, a una diversa gestione dell’intera società e della nostra vita, che non può essere legata alle oscillazioni del mercato del lavoro» [Riprendiamoci il maltolto. Salario garantito: quando, perché e come].

    Di fronte a una condizione proletaria di giorno in giorno più difficile (dal 2005 a oggi la povertà assoluta è passata dal 4,1% all’8%, pari a 5 milioni) , è impensabile che una concessione di sussidi resti a lungo disattesa. Ci pensava San Precario (Reddito di base), ci ha pensato il Sel con qualche Pd e ci pensa ora il Movimento 5 Stelle (Reddito di cittadinanza). Proposte che si incrociano con altre in via di elaborazione: Reddito di inclusione sociale (Reis, proposto dalle Acli) e Sostegno di inclusione attiva (Sia, Ministro del lavoro). Evidentemente, ripeto, sono tutte forme di carità pelosa per i poveri (tra i 600 e i 700 euro), erogate dallo Stato e gestite da organismi statali (o parastatali).

    Come si vede, la differenza con il salario garantito non è certo marginale, È SOSTANZIALE, sotto ogni profilo. E soprattutto è una questione di sostanza la forma che la lotta assume. Altrimenti si cade nell’assistenzialismo, lasciando alle istituzioni (allo Stato) la gestione del Salario Garantito, anche se intervengono mediatori «politici», che sono pur sempre corpi estranei al movimento proletario. Motivo per cui gli «intermediari» tenderanno o a istituzionalizzare le iniziative per il Salario Garantito o le lasceranno morire, una volta ottenuto un primo risultato, destinato comunque a rifluire e quindi a vanificarsi ai primi chiari di luna della congiuntura economica. Infine, le forme che assume la gestione del Salario Garantito definiscono i rapporti tra le classi, ovvero lo scontro o il compromesso tra proletari e padroni. Le ipotesi che si presentano sono solo due:

    1. Salario Garantito = restituzione di parte del maltolto, ovvero prelievo di una quota parte di profitti e di rendite, la cui origine risiede nel plusvalore estorto ai proletari (direttamente o indirettamente).

    2. Assegno di disoccupazione, reddito di cittadinanza ecc., comunque si definiscono sono prelievi dal bilancio dello Stato. Il Salario Garantito sarebbe allora «pagato» da TUTTI i contribuenti, ovvero dai lavoratori, con prevedibili aggravi fiscali. Mazziati e cornuti.

    Da questa alternativa non si scappa, bisogna scegliere. A questo proposito, l’opuscolo del SiCobas di Torino è assolutamente chiaro, e vale la pena di ricordarlo:

    «Non dobbiamo cercare coperture nel bilancio Statale, per giustificare un salario a chi è disponibile al lavoro, o a chi ha lavorato e ha prodotto ricchezza sociale maggiore di quanta ne ha ricevuta. Il salario garantito va inteso come parte del salario medio sociale che va alla classe dei lavoratori, esso non deve essere pagato dalla tassazione dei lavoratori, ma dal profitto delle imprese o dallo Stato in quanto capitalista collettivo sottraendo quote di reddito ad altre classi» [Lavoro o Garanzia del salario!, Comitato Disoccupati e Precari – SiCobas – Comitato Cantieristi, Torino, 2013].

    Per concludere, nell’ipotesi auspicabile che, sull’onda del Movimento 5 Stelle, del Sel o di chicchessia, si sviluppi un movimento di lotta per il Salario Garantito o per il reddito base ecc., diventa allora decisivo spostare l’asse dalle forme assistenziali-stataliste alla gestione proletaria. La differenza è quella che corre tra il giorno e la notte: o deleghiamo allo Stato o ci prendiamo nelle nostre mani la lotta per il salario garantito, che può diventare un primo concreto passo verso l’autonomia politica dei proletari.

    Milano, 11 novembre 2013

    Dino Erba

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