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(9 Aprile 2013) Enzo Apicella

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Contro la privatizzazione! Uniti! A fianco dei lavoratori della Fincantieri!

(18 Novembre 2013)

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Il Cantiere navale è stato sempre, per Ancona e tutta la regione marchigiana, il principale cuore produttivo, il cardine attorno al quale far girare l’intero quadro dello sviluppo. La stessa classe operaia del Cantiere navale ha sempre rappresentato -proprio perché classe operaia di una produzione d’avanguardia e quindi essa stessa avanguardia, sindacale e politica, - il perno democratico e culturale di Ancona e delle Marche. Non è un caso, conseguentemente, che all’ormai lunga crisi del Cantiere navale corrisponda un’altrettanto lunga crisi anconetana e marchigiana, sia sul piano economico che sui piani politici e sociali. Lo stesso venir meno – anche per mere ragioni materiali: il Cantiere è passato dai circa 4 mila “arsenalotti” di una quindicina di anni fa alle attuali poche unità - del ruolo centrale della classe operaia del Cantiere ha prodotto un indebolimento generale dell’intero movimento dei lavoratori anconetani e marchigiani, un’involuzione della stessa lotta sindacale e politica, con un’erosione progressiva anche del quadro democratico generale. Della stessa forza della sinistra, sindacale e politica.


E’ in questo contesto che ancor più inquietanti appaiono gli odierni, ultimi attacchi alla Fincantieri, attacchi minacciosamente presenti nella Legge di Stabilità dell’insano governo Letta-Alfano, nella quale, di nuovo, si reitera il tentativo di privatizzazione dei Cantieri navali, compreso quello, naturalmente, di Ancona.

Come in un ritornello stantio, e nel contempo idiota e feroce, riemerge, con questo orrendo governo della Larghe Intese, il progetto di uscire dalla crisi della cantieristica attraverso la strada più semplice, quanto vigliacca: smantellare, di fatto, la cantieristica, la Fincantieri.

E’, questa, la risposta “storica” dei governi italiani imbelli, liberisti e genuflessi ai diversi padroni: di volta in volta l’Unione europea, la Confindustria, la cantieristica privata o quella asiatica. Mai una volta che al centro dell’attenzione vi fossero stati, vi siano tuttora, gli interessi nazionali, dell’economia italiana nel suo insieme e dei lavoratori. Mai.

Già negli anni ’70, sotto i colpi della crisi energetica, vi fu un primo tentativo, condotto dall’asse governo italiano - potere politico ed economico europeo, di colpire i cantieri navali europei e italiani, riducendone drasticamente i livelli produttivi.

In quegli anni Fincantieri non esisteva ancora e i cantieri navali erano isole autonome, l’una contro l’altra armata, impossibilitate, per il loro frazionamento, a condurre una lotta unitaria. Contro questo “arcipelago” si scaglio il progetto brutale del “Piano Davignon”, un progetto europeo che anticipava l’iperliberismo di Maastricht. Il “Davignon” prevedeva una riduzione secca dell’intera produzione navale europea, con conseguenze disastrose, per ciò che riguardava l’Italia ( ma non solo l’Italia) sul piano economico generale e sul piano occupazionale. Un colpo durissimo – dall’Europa di Bruxelles, che già faceva inginocchiare di fronte a sé la politica e i governi di Roma – per l’intera industria nazionale italiana. Gli argomenti con i quali il “Davignon” chiedeva alla cantieristica europea di arrendersi erano simili a quelli che poi sarebbero serviti all’Unione europea per attaccare altri comparti industriali europei e italiani: la crisi petrolifera e la concorrenza, “impossibile da reggere”, di paesi come il Giappone. Contro il “Davignon”, tuttavia, ci fu una risposta operaia e sindacale forte; la CGIL, la FIOM e le altre forze sindacali scesero decisamente in campo, unendo in un unico fronte i cantieri navali, sino a quella fase divisi, e portando alla lotta e alla resistenza anche i territori e i sindaci delle città cantieristiche. La lotta pagò; il “Piano Davignon” fu (in controtendenza rispetto ad altri paesi europei) in buona parte respinto e al posto della riduzione secca della produzione cantieristica si giunse al compromesso di una riduzione parziale, salvando in questo mondo la cantieristica italiana.

Un secondo tentativo di cancellare la cantieristica italiana prese corpo negli anni ’90. L’allora Ministro del Tesoro Piero Barocci predispose un “Libro Bianco” sulle intere Partecipazioni Statali in mano all’IRI. Da tale “libro” risultava che la cantieristica navale era un ramo secco, improduttivo e doveva essere completamente dismessa. Con la “solita” argomentazione, quelle da “capitalismo straccione” e meschinamente e ferocemente antioperaio: la concorrenza internazionale (al Giappone si era affiancata la Corea del sud). Bruxelles, naturalmente, benediceva, sospingeva, la scelta del governo italiano di uscire definitivamente dal settore industriale navale. Anche in questo caso la privatizzazione e la dismissione erano gli obiettivi primari, privi di alternativa, del doppio governo Roma - Bruxelles.

Anche in questo caso, tuttavia, il doppio governo liberista non aveva fatto i conti con la classe operaia italiana, con la CGIL (di allora) e con la FIOM. Grandi lotte operaie si levarono in tutta Italia: furono occupate strade, autostrade, ponti, aeroporti, ferrovie e binari dei treni. La lotta (classica e suprema lezione, soprattutto per l’oggi) unì tra loro gli operai dei cantieri navali, li unì ai territori, agli altri lavoratori, ai cittadini e ai sindaci delle città cantieristiche. E vinse. La Fincantieri evitò l’ondata di privatizzazioni che colpì l’intero comparto pubblico e riacquistò la propria autonomia, potendo così ridefinire il proprio progetto di rilancio.

Rilanciare non fu, tuttavia, facile: lo Stato smise di aiutare i cantieri navali; la Marina Militare, in difficoltà economica, ridusse drasticamente le commesse e con la privatizzazione della Finmare si ridusse notevolmente il sostegno pubblico ai cantieri.

Il quadro, per la Fincantieri, era complicato, ma senza più la paura della privatizzazione il progetto di rilancio poté prendere nuovo vigore. Si riorganizzò e s’innovò la produzione, mettendo al centro di essa una nuova “merce” del mare, sino ad allora sottovalutata: la nave da crociera, la cosiddetta “nave bianca”. Il progetto ebbe fortuna e mercato e negli anni ’90 la Fincantieri giunse ad essere il Gruppo leader mondiale nella costruzione navale. Da Gruppo da liquidare ad eccellenza: era questo il risultato delle lotte operaie, della vittoria contro la privatizzazione e d’un progetto industriale che faceva perno sugli investimenti e sull’innovazione produttiva. Esattamente ciò che oggi manca all’industria privata e pubblica italiana.

La terza crisi della cantieristica, con annesso il consueto tentativo di privatizzazione da parte dell’Unione europea e dei governi italiani, vi fu tra il 1997 e il ’98. Paradossalmente, il boom di navi da crociera ( moltissime erano le commesse, nazionali e internazionali) aveva messo a dura prova le strutture produttive dei cantieri navali italiani ( in questa contraddizione risiede tutta la verità, e la natura, del fragilissimo capitalismo italiano: straccione, ignorante, meschino, nanocapitalismo, tanto volto all’evasione fiscale e alla fuga nei paradisi fiscali, quanto restio agli investimenti e alla ricerca, antioperaio sino all’autolesionismo, sino a compromettere il proprio, stesso, saggio di profitto).

A Monfalcone e Marghera gli operai erano costretti ad un superlavoro continuo; nelle strutture cantieristiche che potevano costruire una nave per volta ne venivano costruite tre. Solo dopo un lungo tempo la produzione venne spostata anche a Sestri Ponente. Ma i cantieri navali italiani non reggevano quei ritmi produttivi, non erano attrezzati per tanto lavoro. Fu in quella fase che entrarono nei cantieri le ditte esterne, le ditte d’appalto e sub appalto. Ciò provocò ovunque uno, sino ad allora sconosciuto, caos produttivo generale; un abbassamento improvviso e notevole del livello di qualità nella produzione; una rottura della solidarietà tra lavoratori; un’inedita, e nefasta anche per la produttività, competizione tra lavoratori della Fincantieri e lavoratori delle ditte d’appalto (nel Cantiere di Ancona questo contrasto è stato altissimo: operai “neri” e “indigeni” in lotta tra loro, senza possibilità, anche per l’immaturità, su questo terreno, delle forze sindacali, di unire i due “fronti” operai in un unico fronte proletario). Il combinato disposto tra l’arretratezza delle strutture produttive ( in relazione all’alto numero di commesse) e l’arrivo destabilizzante e in massa delle ditte d’appalto, portò al rallentamento produttivo e a ritardi sempre più gravi nella consegna delle navi. In quegli anni, su di un fatturato complessivo di 4.000 miliardi di lire, si giunse ad un “buco” di 800 miliardi. La crisi, paradossalmente data da eccesso di domanda, evocò di nuovo i progetti dei privatizzatori italiani ed europei, dei governi di Roma e di Bruxelles.

Fu di nuovo la FIOM ( attraverso una lunga lotta, sindacale, politica e culturale, culminante in una decisiva Conferenza dei metalmeccanici, a Venezia, che scosse il governo) a mettere in luce il problema, a dimostrare come la crisi nascesse dalla debolezza delle strutture, dalla presenza nociva delle ditte d’appalto, non dalla mancanza dei mercati.

La lotta e l’impegno strenuo della FIOM spinse l’allora presidente nazionale dell’IRI, Gianmaria Gros-Pietro, ad intervenire decisamente. Gros-Pietro affidò la Fincantieri ad un nuovo manager, Pier Francesco Guarguaglini. Lo produzione venne razionalizzata, le strutture rafforzate, il ruolo delle ditte d’appalto ridimensionato. Il tutto portò ad una nuova e più alta produttività, sino a che, nel 2000, la Fincantieri iniziò di nuovo a produrre utili.

Tra il 2006 e il 2007 la Fincantieri, sull’onda della crisi economica internazionale, entra in una nuova fase critica, dalla quale sia l’Ue che il governo italiano intendono trarla fuori attraverso un nuovo tentativo di ridimensionamento, attraverso un nuovo ( ma quanto antico!) progetto di privatizzazione, al quale si aggiunge la proposta di quotazione in Borsa. La Fiom denuncia subito il rischio drammatico insito nella quotazione in Borsa: si può avere un titolo in più ma cantieri navali in meno, andando così verso la dismissione totale della produzione navale in Italia. I dirigenti FIOM, rispetto al nuovo disegno di modificare l’assetto societario della Fincantieri, rievocano il precedente della quotazione in Borsa della Finmeccanica: il titolo inizialmente venduto a più di 32 euro era arrivato rapidamente a valerne molto meno, crollando a 20 euro.

Con il progetto destrutturante della privatizzazione e della quotazione in Borsa si giunge alla direzione di Fincantieri da parte di Giuseppe Bono, col quale si inasprisce il tentativo destabilizzante e liquidatorio della cantieristica pubblica.

Come recita un documento FIOM del 2007: “Nella primavera del 2002, la Fincantieri va abbastanza bene. È stata riorganizzata nel controllo di gestione del processo produttivo, ha cominciato a fare utili nonostante la cessazione degli aiuti pubblici (che nell’ultima fase coprivano ancora il 9% del prezzo della nave), ha un discreto portafoglio ordini. Ma il nuovo gruppo dirigente ripropone la costituzione di Finmeccanica 2 in una nuova versione, raggruppando intorno a Fincantieri le aziende civili di Finmeccanica. Si pensa anche a una quotazione in Borsa. Il progetto, sostenuto da una forte campagna mediatica, trova sostenitori soprattutto in Liguria, anche da parte di alcuni sindacati, ma tale progetto non decolla e alla fine si insabbia”.

Si, il progetto si insabbia anche per la forte resistenza operaia, che di nuovo respinge gli intenti distruttivi della cattiva politica e della speculazione finanziaria.

E sono sempre gli operai , i quadri FIOM, a mettere a fuoco e sostenere i progetti, positivi, razionali e verosimili, di rilancio. Gli operai e la FIOM della Fincantieri Ancona lanciano, nel 2009-2010, un disegno di rilancio del Cantiere dorico alternativo al ridimensionamento produttivo, alla privatizzazione e alla quotazione in Borsa.

Il progetto è il seguente: unire la Fincantieri e l’ENI in un unico piano produttivo: l’ENI smette di ordinare navi da trasporto gas e petrolio ai cantieri asiatici e inizia ad ordinare tali navi alla Fincantieri. Il progetto garantirebbe lavoro, solo per il Cantiere navale di Ancona, per almeno un decennio. Ma il piano è respinto: l’unità d’azione tra Fincantieri ed ENI – due grandi soggetti pubblici – sembra al governo e alle forze capitalistiche italiane ed europee una sorta di sovietizzazione dell’economia: troppo socialismo! Piano respinto, con tutta probabilità nemmeno mai preso in considerazione.

Ora, di nuovo, la Fincantieri è sotto l’occhio del ciclone. Nella Legge di Stabilità del governo Letta-Alfano si ripropone la sua privatizzazione. Le lezioni della storia; i rilanci produttivi della Fincantieri attraverso i rifiuti della privatizzazione, attraverso le innovazioni, gli investimenti e la ricerca di nuovi mercati non servono a chi ha orecchie solo per la desertificazione industriale italiana e alla resa ai diktat dell’Europa di Maastricht.

Di nuovo, tutto – anche gli interessi nazionali - è nelle mani degli operai, della FIOM e della loro volontà di lotta. Noi sappiamo, vediamo già in questi giorni, a partire dalle lotte dei lavoratori del Cantiere navale di Ancona, che né la FIOM, né la RSU, né gli arsenalotti dorici cederanno.

Noi, comunisti, siamo al loro fianco. La loro battaglia è, e sarà, la nostra. E lanciamo un appello al PRC, a SEL, alle forze di sinistra, democratiche e di movimento, ai lavoratori e ai cittadini affinché si costituisca il più largo fronte unitario possibile a fianco dei lavoratori della Fincantieri

Fosco Giannini, segretario regionale PdCI Marche

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