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(24 Novembre 2010) Enzo Apicella
Crisi irlandese. La finanza specula sul debito pubblico. La politica chiede sacrifici.

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Non è la nostra piazza. Ma...

(11 Dicembre 2013)

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Non abbiamo partecipato ma siamo andati a vedere, per capire. Non ci servono le pubblicazioni del Censis per sapere che la società nella crisi rischia la collisione dei vari frammenti. Certo, l’Italia non si è fermata il 9 dicembre e non sarà quella composizione sociale che ha manifestato nelle piazze, fatto blocchi stradali, contestato la casta che avrà la forza per farlo. Troppa eterogenea per trovare momenti di condensazione politica, per andare a fondo nelle contraddizioni sociali. In questi giorni sui media mainstream abbiamo letto e visto analisi, interpretazioni, mappe delle protesta, schemi di alleanze e… tanta preoccupazione. Il timore che una scintilla possa incendiare la prateria è palpabile, quasi materiale. Un timore che si basa su una reale possibilità? E’ la domanda che facciamo innanzitutto a noi stessi guardando anche quello che fa vedere il 9 dicembre. Gli strumenti con cui si guardano i fenomeni sociali spesso ne condizionano la visione. Facendo solo fotografie spesso si commettono errori di prospettiva, meglio le immagini in movimento pur nei loro limiti. La composizione di chi è sceso in strada è variegata socialmente, politicamente e territorialmente. Ci sono commercianti, artigiani, precari disoccupati, studenti, autotrasportatori, ultras da stadio, gruppi neofascisti, piccoli sindacati corporativi, aspiranti ceti politici. Un insieme di soggetti e sensibilità irrappresentabile, una lista di obiettivi in cui si mescola spirito patriottico, rispetto della Costituzione, ribellione, livore contro la casta, sovranità monetaria. Ricondurre il tutto a un solo elemento, a un solo gruppo politico o strato sociale nasconde l’impotenza dell’analisi ad affrontare le zone grigie, quelle al confine tra le classi. Zone ibride e mobili che nei periodi di crisi profonda si ridefiniscono velocemente. E’ vero, camminando su questo crinale, c’è il pericolo che metta radici un populismo reazionario, di stampo fascista. Questa istantanea, scattata nelle piazze del 9 e poi nei giorni successivi, è reale. Al di là della fotografia, però, quello che non convince è la prospettiva, la forma di autorappresentazione, l'assunzione di umori reazionari, l'assenza di una progettualità.

Tuttavia non convincono neppure i geometri che tracciano linee rette tra passato e futuro. Le evocazioni della repubblica di Weimar, dell’esercito di Franceschiello non colgono il radicale mutamento della geografia politica, della natura delle attuali formazioni politiche a destra come a sinistra, della cappa di piombo dei sindacati innanzitutto confederali e corporativi. Le forme di lotta si danno immediatamente, senza mediazioni. La piazza si riscopre, pur inconsapevole, legittima mentre a essere sempre più illegittima è la rappresentanza politica. Sembra che ci sia un tortuoso tracciato sotterraneo che connette i tranvieri di Genova che violano la legge antisciopero e coloro che bloccano i caselli autostradali. L’intuizione che oggi la protesta e il conflitto presuppongano una legittimità che deve scardinare un’imposta legalità. Che stiamo attraversando un periodo di prove tecniche di una nuova classe a venire in cui ambivalenze e contraddizioni si sprecheranno. In cui non si dà separazione tra rivendicazioni, progetti e forme di autorganizzazione dei soggetti che li praticano. In fondo continuiamo a pensare che lo snodo decisivo sia l’organizzazione in classe dei lavoratori e non misurare quanto la realtà collimi con i nostri modelli di classe dei lavoratori.

Gresbeck - communianet.org

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