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La bufala della lapidazione

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(20 Settembre 2010) Enzo Apicella
Il presidente iraniano Ahmadinejad: Sakineh non è mai stata condannata alla lapidazione, il "caso" è una montatura giornalistica del governo USA

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Sud Sudan, guerra per il greggio

(27 Dicembre 2013)

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Anche se il giorno di Natale il presidente del Sud Sudan, Salva Kiir, ha lanciato un appello di pace e unità nel neonato paese centro-africano, i combattimenti sono proseguiti senza sosta soprattutto negli stati settentrionali dove si concentra la maggior parte della produzione di petrolio. La disponibilità di Kiir a trattare senza condizioni con le forze ribelli guidate dall’ex vice-presidente, Riek Machar, è stata manifestata dopo il suo incontro con l’inviato speciale di Washington, Donald Booth, ed in concomitanza con la riconquista da parte delle forze regolari della importante città di Bor, a un centinaio di chilometri a nord della capitale, Juba.

Parlando da una chiesa cattolica al termine di una funzione natalizia, Kiir ha anche condannato le violenze commesse in suo nome. Nei giorni scorsi, infatti, si era diffusa la notizia che le forze armate fedeli al presidente erano state protagoniste di svariate atrocità ai danni di civili appartenenti all’etnia Nuer, facendo addirittura migliaia di morti.

Con l’aggravarsi dello scontro, in ogni caso, le Nazioni Unite hanno approvato questa settimana un consistente aumento del contingente di caschi blu in Sud Sudan, mentre giovedì a Juba è arrivata una delegazione dell’Unione Africana per cercare di favorire il dialogo tra le due parti in lotta e fermare un conflitto che ha già creato quasi centomila profughi. Sempre giovedì, anche il primo ministro etiope, Hailemariam Desalegn, e il presidente keniano, Uhuru Kenyatta, sono giunti in Sud Sudan per incontrare Salva Kiir.

Gli Stati Uniti, da parte loro, già settimana scorsa avevano inviato 45 soldati nella capitale per difendere la propria ambasciata ed evacuare i cittadini americani nel paese. Altri 150 Marines sono stati inoltre trasferiti dalla Spagna alla base di Camp Lemonnier, a Gibuti, da dove verranno inviati in Sud Sudan in caso di necessità.

Come è noto, la situazione nel Sudan del Sud era precipitata il 15 dicembre scorso in seguito ad alcuni scontri a fuoco nei pressi di Juba tra le forze governative e quelle fedeli a Machar, rimosso dalla carica di vice-presidente nel mese di luglio dopo aver dichiarato di volere sfidare Kiir nelle elezioni previste per il 2015. Machar aveva chiesto al presidente di farsi da parte dopo averlo accusato di avere violato ripetutamente la Costituzione, mentre Kiir, a sua volta, aveva subito accusato Machar di volere tentare un colpo di stato ai suoi danni.

Le ragioni politiche del conflitto si sono ben presto intrecciate alle tensioni settarie, con l’etnia Dinca - la più numerosa in Sud Sudan e alla quale appartiene il presidente - opposta a quella Nuer dell’ex vice-presidente Machar.

L’appoggio dell’Occidente (e degli Stati Uniti in particolare) continua ad essere garantito al governo di Salva Kiir, il cui Movimento Sudanese di Liberazione Nazionale al potere fin dall’indipendenza dal Sudan nel 2011 ha fatto però ben poco per alleviare la povertà e porre un freno alla corruzione dilagante nel paese.

Le divisioni tra Kiir e Machar risalgono a ben prima dell’indipendenza e la minaccia di quest’ultimo alla leadership del presidente aveva spinto il primo non solo a sollevare il suo vice dall’incarico ma anche a constringere al ritiro un centinaio di alti ufficiali per installare forze più fedeli ai vertici dell’esercito.

Le tendenze sempre più autoritarie di Kiir hanno poi contribuito alla formazione di un esercito parallelo vicino a Machar che negli ultimi giorni ha fatto segnare qualche importante successo militare, come la cacciata delle forze regolari in molte località negli stati nord-orientali di Jonglei, Unità e Alto Nilo.

Al di là dei proclami umanitari di questi giorni e degli scrupoli democratici ufficiali, l’interesse dei governi occidentali nel Sudan del Sud ha a che fare con importanti questioni strategiche legate a questo paese e, più in generale, all’intero continente africano.

Gli Stati Uniti sono stati i principali promotori degli accordi di pace che misero fine al conflitto sudanese, nel quale morirono più di due milioni di persone, portando nel 2011 all’indipendenza delle regioni meridionali da Khartoum. Alla base dell’appoggio di Washington all’indipendenza del Sud Sudan c’era soprattutto il desiderio di creare una nuova entità statale ricca di risorse del sottosuolo meglio disposta verso l’Occidente rispetto al regime del presidente Omar al-Bashir.

Il petrolio sudanese è infatti localizzato in gran parte nel sud e, prima della separazione, più della metà del greggio estratto era destinato alla Cina, il cui governo aveva instaurato legami politici ed economici estremamente solidi con Khartoum.

Fino ad ora, tuttavia, la penetrazione occidentale in Sud Sudan è stata inferiore alle aspettative. La nuova classe dirigente - e, in particolare, proprio le fazioni facenti capo al vice-presidente Machar - è tornata a rivolgersi a Pechino per investimenti e aiuti finanziari destinati a creare infrastrutture estremamente carenti. Inoltre, in assenza di rotte alternative, il petrolio estratto nel Sud Sudan continua a passare attraverso oleodotti situati nel Sudan per essere esportato.

La nuova crisi in Africa, dunque, potrebbe essere sfruttata ancora una volta dai governi occidentali per giustificare l’ennesimo intervento “umanitario” in questo continente, dopo quelli degli ultimi anni che hanno riguardato almeno Libia, Costa d’Avorio, Mali e Repubblica Centrafricana.

Tutti questi interventi hanno seguito la creazione nel 2007 del Comando militare Africano statunitense (AFRICOM), vero e proprio strumento di Washington nella corsa alle risorse del continente e alla lotta contro la crescente influenza cinese nell’ultimo decennio.

Nel caso del Sud Sudan, infine, la crisi a cui il mondo sta assistendo in questi giorni conferma quali siano le conseguenze disastrose delle macchinazioni degli Stati Uniti e dei loro alleati, ai quali va attribuita gran parte della responsabilità per le sofferenze patite dalla popolazione e per il sostanziale fallimento dell’esperimento di indipendenza di questo poverissimo paese nel cuore dell’Africa.

Mario Lombardo - Altrenotizie

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