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il pane e le rose

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La strana attualità del Grande Timoniere

(27 Dicembre 2013)

Ieri la Cina ha cele­brato i 120 anni della nascita di Mao Zedong (26 dicem­bre 1893). L’attuale Pre­si­dente Xi Jin­ping aveva chie­sto festeg­gia­menti «solenni, sem­plici e prag­ma­tici», anche per dare seguito a quella poli­tica della «fru­ga­lità» che ha con­trad­di­stinto il suo primo anno di regno. Nel luogo di nascita del Grande Timo­niere, a Shao­shan, cen­ti­naia di migliaia sono stati i visi­ta­tori che gli hanno reso omag­gio.

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Cele­brare Mao Zedong, oggi in Cina, è quanto di più com­plesso e con­trad­dit­to­rio possa appa­rire agli occhi degli occi­den­tali e — di sicuro — non è facile nean­che per i cinesi dare un con­torno chiaro alla figura di Mao. Deng Xiao­ping aveva liqui­dato il Grande Timo­niere, con il cele­bre rap­porto deter­mi­nato dal 30 per­cento di errori e dal 70 per­cento di cose giu­ste. Mao, durante le Riforme, è stato dun­que messo in sof­fitta, pur essendo ancora pre­sente con il suo volto, nel luogo che costi­tui­sce il cuore del paese, la piazza Tia­nan­men. Insieme a Mao e i suoi errori, ricon­du­ci­bili tutti a quel periodo sto­rico sul quale la Cina non ha ancora prov­ve­duto ad una rie­la­bo­ra­zione col­let­tiva, ovvero la Rivo­lu­zione Cul­tu­rale, Deng ha abban­do­nato Mao, met­tendo da parte la «poli­tica» e avviando una visione eco­no­mi­ci­sta della sto­ria e del suo svi­luppo sociale. Il par­tito, tea­tro degli scon­tri di Mao e delle sue con­ti­nue fughe in avanti, è diven­tato così da luogo di ela­bo­ra­zione teo­rica, un antro di gestione di inte­ressi eco­no­mici.
Da par­tito dei con­ta­dini e dei lavo­ra­tori è via via dive­nuto un par­tito di miliar­dari, intenti a gestire, nel suo ver­tice, un dilu­vio eco­no­mico e finan­zia­rio, gestito di pari passo con la cre­scita eco­no­mica del paese. A con­tri­buire ad una visione di Mao come qual­cosa di pro­fon­da­mente sba­gliato o quanto meno ormai ana­cro­ni­stico nella let­tura attuale e con­tem­po­ra­nea della Cina, hanno con­tri­buito non poco anche gli occi­den­tali. Si è soliti infatti con­si­de­rare il pro­gresso cinese, come una sorta di pas­sag­gio dal medio evo, l’epoca maoi­sta, alla moder­nità occi­den­tale, rico­no­sciuta come tale solo gra­zie all’ingresso della Cina all’interno del mer­cato mon­diale e alle logi­che capi­ta­li­sti­che, seb­bene con­tras­se­gnate dalla grande e forte pre­senza dello Stato e dalle con­so­la­to­rie «carat­te­ri­sti­che cinesi».
In realtà, come segna­lano alcuni sto­rici, la Cina ha comin­ciato a cre­scere pro­prio durante il periodo in cui a gui­dare il paese era Mao: «anche se l’andamento eco­no­mico della Cina è stata spet­ta­co­lare dal 1978 in avanti, non è stato disa­stroso tra il 1952 e il 1978. Nel corso di que­sti anni il Pil cinese è cre­sciuto ad una media annua del 4,39 per­cento» (Minqi Li, The rise of China and the demise of the Capi­ta­list World Eco­nomy , Lon­dra, 2008). Come inol­tre spiega Gio­vanni Arri­ghi, «già nel 1970 la Cina aveva una base indu­striale che impie­gava qual­cosa come 50 milioni di ope­rai e pesava per più di metà del suo Pil. Il valore del suo pro­dotto indu­striale lordo era cre­sciuto di tren­totto volte e quello dell’industria pesante di novanta volte. Alla mag­gior parte della popo­la­zione, prima anal­fa­beta, era stato inse­gnato a leg­gere e scri­vere. Un sistema sani­ta­rio pub­blico era stato creato dove non ne era mai esi­stito alcuno. La spe­ranza di vita media era aumen­tata da 35 a 65 anni». (Gio­vanni Arri­ghi, Capi­ta­li­smo e (dis)ordine mon­diale , a cura di Gior­gio Cesa­rale e Mario Pianta, Mani­fe­sto­li­bri, 2010).
Non stu­pi­sce quindi che oggi, in un paese fal­ci­diato da una dise­gua­glianza sem­pre più evi­dente, un son­dag­gio del Glo­bal Times , san­ci­sce che l’85 per­cento della popo­la­zione cinese con­si­de­rebbe Mao in maniera posi­tiva. Seb­bene si tratti di un dato «cele­bra­tivo», la con­sul­ta­zione raf­fi­gura in modo netto un ritorno del maoi­smo nella società cinese, dato il pro­fondo squi­li­brio del pro­gresso eco­no­mico nazio­nale. Lo stesso Xi Jin­ping, nel ten­ta­tivo di recu­pe­rare la sini­stra del par­tito, rima­sta orfana del pro­prio lea­der Bo Xilai con­dan­nato all’ergastolo, ha recu­pe­rato nume­rose opzioni maoi­ste. Il neo pre­si­dente cinese ha ripor­tato in auge il con­cetto di «linea di massa» a sot­to­li­neare l’importanza della vici­nanza del popolo al par­tito, non­ché un fer­reo con­trollo della Pro­pa­ganda, come ele­mento in grado di con­fer­mare la cen­tra­lità del par­tito comu­ni­sta, lan­ciando lo slo­gan del Sogno Cinese , che si riem­pie di signi­fi­cati rela­tivi ad una Cina forte nella poli­tica estera, unita da un’identità che recu­pera – e non poco – i pre­sup­po­sti egua­li­tari (in ter­mini di redi­stri­bu­zione della ric­chezza) pro­prio del vec­chio Mao. Cele­bran­dolo a Pechino – si dice che Xi si sia ingi­noc­chiato tre volte di fronte al suo corpo imbal­sa­mato nel mau­so­leo in piazza Tia­nan­men — ha spe­ci­fi­cato che i grandi lea­der non andreb­bero con­si­de­rati come «dei». Anche secondo Xi, «il com­pa­gno Mao» avrebbe com­messo alcuni «errori», ma «date le com­pli­cate situa­zioni sto­ri­che e sociali dell’epoca, andreb­bero ana­liz­zati e com­presi sto­ri­ca­mente» e soprat­tutto non met­te­reb­bero in sor­dina i «suoi successi».

Simone Pieranni, Il manifesto

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