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(28 Dicembre 2013)

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Sabato 28 Dicembre 2013 00:00


Il paragone con la storia recente di Egitto e Tunisia verrebbe istintivo, ma quello che sta accadendo in Turchia non ha nulla a che vedere con le primavere arabe. Non solo - ed è ovvio - perché il Paese in questione non è arabo, ma anche per un'altra differenza altrettanto macroscopica. Ad Ankara e dintorni non va in scena un conflitto fra movimenti laici e potere religioso: i due poli contrapposti sono entrambi interni allo Stato e d'ispirazione islamica.

In breve, riepiloghiamo i fatti. Dal 17 dicembre il premier Recep Tayyip Erdogan deve fronteggiare una crisi ben più grave di quella registrata l'estate scorsa con l'ondata di proteste popolari. Stavolta c'è di mezzo uno scandalo di proporzioni ancora difficili da definire. Il caso riguarda un’inchiesta per corruzione - legata ad alcuni appalti - che coinvolge una parte rilevante del partito di governo, l'Akp, e dell'imprenditoria turca. Al centro delle indagini, alcuni trasferimenti di denaro in Iran e il sospetto che diversi funzionari pubblici abbiano ricevuto mazzette per approvare la costruzione di opere edilizie.

Sabato scorso sono state arrestate 16 persone, fra cui i figli dei ministri dell’Economia e dell’Interno, oltre al direttore generale di Halkbank, una grande banca pubblica. Il figlio del ministro dell'Ambiente è stato arrestato, interrogato e rilasciato. In precedenza erano state fermate altre 49 persone e pochi giorni fa il procuratore a capo dell’inchiesta ha ordinato una seconda ondata di arresti, che però la polizia si è clamorosamente rifiutata di eseguire. Secondo alcune voci di stampa non confermate, sarebbero inquisiti anche i due figli di Erdogan.

La reazione del Premier non si è fatta attendere e nel mirino è finita la polizia: circa 30 ufficiali sono stati licenziati o rimossi dal proprio incarico, compreso il capo della polizia di Istanbul, un punto di riferimento per gli inquirenti. Lo scandalo, tuttavia, non poteva non avere anche conseguenze politiche: il 25 dicembre si sono dimessi i tre ministri con i figli sotto accusa e subito dopo Erdogan ha sostituito altri sette membri del Governo, ma ha anche annunciato di non avere alcuna intenzione di dimettersi.

Il rimpasto di Governo non è stato sufficiente a evitare la reazione della piazza, quella reale come quella finanziaria. Ieri la lira turca ha toccato un nuovo minimo storico contro il dollaro, a quota 2,1467, mentre la Borsa turca accumula gravi perdite da diversi giorni ed è scesa al livello minimo degli ultimi 17 mesi. Intanto, questa settimana centinaia di persone hanno manifestato per le strade di Istanbul e di altre città del Paese, chiedendo le dimissioni del primo ministro. Inevitabili gli scontri con la polizia, che ha reagito con lacrimogeni e idranti.

Da parte sua, Erdogan ha parlato dell'inchiesta in corso come di un "complotto organizzato all’estero" da una "banda criminale" per creare uno "stato nello stato" in vista delle elezioni amministrative della prossima primavera. Secondo molti commentatori, con queste parole il Premier ha fatto riferimento a Fethullah Gulen, musulmano 72enne residente negli Stati Uniti e fondatore di un movimento politico - Hizmet, "servizio" - che gode di molto seguito nella polizia e nella magistratura. Si dice che ne facciano parte perfino diversi membri dell'Akp.

Finché si trattava di contrastare il nemico comune, ovvero l'esercito (cuore del potere laico), Hizmet ha sostenuto il governo di Erdogan. Negli ultimi giorni, però, qualcosa è cambiato: Gulen, pur negando qualsiasi coinvolgimento nelle indagini, ha criticato duramente la rimozione degli ufficiali di polizia. Che Gulen sia o meno al vertice di una piramide contrapposta a quella del primo ministro, in ogni caso, il quadro generale non cambia molto.

Il percorso avviato in Turchia sembra dirigersi verso lo sgretolamento del sistema di potere instaurato nell'ultimo decennio da Erdogan. A prescindere dalla veridicità o meno delle varie accuse di corruzione, a livello politico ciò che più conta è la frattura che si sta allargando all'interno dell'Akp. Tre parlamentari della formazione di governo hanno lasciato il partito, dopo che nei giorni scorsi erano stati rinviati a un organismo disciplinare per aver criticato l’atteggiamento di Erdogan nei confronti della polizia e dell’indagine.

Non solo. Anche altri parlamentari dell’Akp hanno attaccato il primo ministro. Alcuni sono giunti perfino all'estrema empietà di chiederne le dimissioni. E in 10 anni non era mai successo.

Antonio Rei - Altrenotizie

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