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(31 Dicembre 2013)
Martedì 31 Dicembre 2013 00:00
Una lunga indagine apparsa nel fine settimana sul New York Times ha provato a fare chiarezza sull’attaco islamista al consolato americano di Bengasi, in Libia, nel settembre del 2012 che causò la morte dell’ambasciatore, Christopher Stevens, e di altri tre cittadini statunitensi incaricati del servizio di sicurezza. Oltre a smentire la ricostruzione dei fatti sostenuta dai repubblicani a Washington, che ne assegnava la responsabilità ad al-Qaeda, l’articolo ha confermato come l’attentato sia stato condotto da forze domestiche che solo pochi mesi prima avevano collaborato con l’amministrazione Obama per rovesciare il regime di Gheddafi.
Firmata dal reporter David Kirkpatrick, l’indagine del Times si apre significativamente con la descrizione di un incontro avvenuto proprio a Bengasi il 9 settembre 2012, due giorni prima dell’attacco al consolato, tra l’ambasciatore Stevens e i leader di alcune milizie libiche. In quell’occasione, questi ultimi intendevano avvertire dei crescenti pericoli per la sicurezza degli americani nel paese nord-africano e, allo stesso tempo, volevano esprimere la loro gratitudine “per l’appoggio garantito dal presidente Obama nella rivolta contro Gheddafi”. Allo stesso tempo, i miliziani non avevano mancato di manifestare il loro desiderio di “costruire una partnership con gli Stati Uniti, in particolar modo attraverso maggiori investimenti” in Libia, ad esempio per aprire nel paese negozi di “McDonald’s e KFC [Kentucky Fried Chicken]”.
Secondo il reportage, dunque, sarebbero stati gruppi fondamentalisti che ruotavano nell’orbita dell’opposizione armata anti-Gheddafi e che avevano legami con gli individui incontratisi con Stevens a giustiziare lo stesso diplomatico americano, a sua volta in prima linea fin dalla primavera del 2011 proprio per stabilire legami tra gli Stati Uniti e le forze “ribelli” sul campo in Libia.
Dopo mesi di interviste con testimoni dell’attacco dell’11 settembre 2012, Kirkpatrick sostiene di non avere trovato alcuna prova che i responsabili siano da individuare in al-Qaeda o in altri gruppi legati al terrorismo internazionale. L’attacco, invece, è stato opera di “guerriglieri che avevano beneficiato direttamente del supporto logistico e delle massicce incursioni aeree della NATO durante la rivolta contro il colonnello Gheddafi”.
Questa conclusione è un clamoroso atto d’accusa nei confronti del governo degli Stati Uniti, il quale per i propri interessi strategici ha deliberatamente appoggiato sia militarmente che finanziariamente gruppi fondamentalisti sunniti, indicati invece come nemici giurati per oltre un decennio.
Il pezzo del New York Times si inserisce poi nel dibattito in corso da oltre un anno a Washington sui fatti di Bengasi e che ha messo di fronte la versione ufficiale dell’amministrazione Obama e dei democratici al Congresso a quella sostenuta dal Partito Repubblicano. Secondo la prima, gli eventi che portarono alla morte di quattro americani erano impossibili da prevedere perché scaturiti dalle proteste spontanee esplose dopo la diffusione di un video di propaganda che irrideva il profeta Muhammad.
Per i repubblicani, al contrario, l’ambasciatore Stevens morì in seguito ad un piano meticolosamente studiato da al-Qaeda ed eseguito nel giorno dell’anniversario degli attacchi al World Trade Center. L’amministrazione Obama, secondo questa interpretazione, avrebbe nascosto la realtà dei fatti per non danneggiare il presidente in piena campagna elettorale, durante la quale stava appunto sostenendo che la minaccia terroristica contro gli interessi americani era diminuita in seguito all’assassinio di Osama bin Laden.
Se la storia pubblicata domenica serve perciò a dare credito a quanto sostenuto dalla Casa Bianca e dal Dipartimento di Stato, entrambe le versioni che hanno occupato le pagine dei giornali d’oltreoceano nei mesi scorsi sono volte soprattutto ad occultare il punto centrale della questione. Cioè che sia l’attacco al consolato di Bengasi che la drammatica situazione in cui si trova oggi la Libia, di fatto nelle mani di milizie integraliste armate, sono la diretta conseguenza della decisione presa a Washington di puntare su formazioni integraliste ultra-reazionarie, presentandole all’opinione pubblica internazionale come forze democratiche per favorire l’abbattimento di un regime sgradito.
Nel caso di Bengasi, tra i responsabili dell’attacco il New York Times ha individuato Amed Abu Khattala, definito come un “eccentrico e insoddisfatto leader miliziano”, vicino “ ai più influenti comandanti che dominavano” nella città della Libia orientale e che “collaboravano con gli americani”. Costoro, inclusi i futuri responsabili della morte dell’ambasciatore Stevens, con l’appoggio americano erano tutti “in prima linea nella lotta contro il colonnello Gheddafi”.
Lo stesso Stevens, inoltre, “così come i suoi superiori a Washington, riteneva che gli USA potevano trasformare la massa di guerriglieri sostenuti nella guerra al regime in amici fidati”, con ogni probabilità da sfruttare in altre imprese a favore della strategia americana nel mondo arabo, a cominciare da quella in Siria contro Bashar al-Assad.
Proprio la presenza di una struttura occupata da un numeroso contingente della CIA a breve distanza dal consolato di Bengasi suggerisce come la rappresentanza diplomatica degli Stati Uniti in questa città fosse subordinata alle operazioni di intelligence. Svariati resoconti giornalistici nei mesi scorsi hanno infatti descritto l’arrivo in Siria di armi e guerriglieri integralisti libici, verosimilmente reclutati almeno in parte proprio dagli uomini dell’agenzia di Langley di stanza a Bengasi.
I fatti dell’11 settembre 2012, dunque, possono essere considerati un classico esempio di quello che nel gergo dell’intelligence a stelle e strisce viene definito come “blowback”. Nel caso specifico, cioè, le forze fondamentaliste islamiche mobilitate dagli Stati Uniti per combattere un nemico comune - come avvenne in Afghanistan negli anni Ottanta contro l’occupazione sovietica - si sono ritorte contro i propri protettori e finanziatori, passando dall’altra parte della barricata quando i rispettivi interessi hanno iniziato a divergere o, per quanto riguarda forse Bengasi, semplicemente a causa di una disputa relativamente minore.
Lo stesso copione libico è sembrato doversi ripetere a lungo anche in Siria, dove una serie di proteste spontanee contro il regime di Assad è stato ben presto sfruttato dagli Stati Uniti e dai loro alleati per orchestrare una vera e propria guerra condotta in grandissima parte da formazioni integraliste e legate al terrorismo qaedista. Solo quando la minaccia dello strapotere di queste ultime è apparso in tutta la sua evidenza, alcune sezioni all’interno del governo e dell’apparato militare e dell’intelligence americano hanno iniziato a esprimere dubbi sulla strategia tenuta per oltre due anni.
Le forze scatenate, tuttavia, come già in Libia hanno devastato forse irrimediabilmente anche la variegata e relativamente prospera società siriana, facendo riesplodere tensioni e violenze settarie, con il rischio di destabilizzare ulteriormente l’intero Medio Oriente.
Michele Paris - Altrenotizie
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