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    Medio Oriente, il flop di Kerry

    (8 Gennaio 2014)

    medioflop

    Mercoledì 08 Gennaio 2014 00:00

    Affrontando pubblicamente la crisi in Iraq, dove il governo centrale del premier Maliki sta combattendo milizie integraliste sunnite nella provincia occidentale di Anbar, qualche giorno fa il segretario di Stato americano, John Kerry, oltre ad escludere il ritorno nel paese mediorientale di soldati USA, ha definito quella in corso come una battaglia che appartiene esclusivamente agli iracheni.

    Il riesplodere del caos in Iraq, tuttavia, è precisamente il risultato nefasto delle politiche statunitensi in Medio Oriente, dove il riallineamento strategico perseguito da Washington in seguito all’esplosione della cosiddetta “Primavera araba” è stato caratterizzato da confusione e cambi di alleanze, producendo tensioni e instabilità che rischiano di incendiare ulteriormente l’intera regione.

    In maniera singolare, la lettura dei fatti di questi mesi in Medio Oriente da parte di media e commentatori ufficiali in Occidente ha messo l’accento su un presunto “disimpegno” degli Stati Uniti da quest’area del globo che avrebbe favorito forze centrifughe, principalmente tramite il propagarsi dell’influenza di formazioni fondamentaliste, i cui effetti si possono osservare in Siria così come in Libano e, appunto, in Iraq.

    Il New York Times, ad esempio, nei primi giorni dell’anno ha attribuito ad un “vuoto di potere” in Medio Oriente il dilagare di gruppi integralisti, mentre in modo relativamente più velato il Financial Times ha lasciato intendere che la mancata aggressione americana ai danni del regime di Bashar al-Assad ha favorito il prevalere delle milizie sunnite in Siria e la conseguente emarginazione delle forze di opposizione secolari o moderate, contribuendo ad allargare il conflitto.

    Per altri, ancora, la spirale di violenza che sta attraversano il Medio Oriente sarebbe invece dovuta soprattutto allo scontro tra Iran e Arabia Saudita, la cui tradizionale rivalità è stata inasprita dalla marcia indietro dell’amministrazione Obama sulla Siria e dall’accordo temporaneo sul nucleare di Teheran siglato a fine novembre. Il ricorso da parte di ognuno di questi due paesi ad un’agenda settaria per destabilizzare le zone di influenza del rispettivo rivale si innesterebbe poi sulle secolari divisioni che caratterizzano l’universo musulmano, principalmente tra sciiti e sunniti.

    A ben vedere, in realtà, le ragioni delle varie crisi in atto sono in larghissima misura riconducibili ad una spiegazione che ha a che fare con i tentativi da parte degli Stati Uniti di esercitare la propria egemonia su tutta la regione, alleandosi di volta in volta con forze e regimi che garantiscano i loro interessi ed aiutino a mettere all’angolo i rivali di turno. Un’eventuale intervento militare in Siria, poi, avrebbe fatto ben poco per stabilizzare il Medio Oriente, mentre avrebbe al contrario contribuito ad aggravare notevolmente la situazione, trascinando con ogni probabilità nel conflitto le altre potenze regionali.

    Almeno da un decennio a questa parte, tutte le scelte fatte allo scopo di allargare la propria influenza in Medio Oriente si sono in ogni caso mostrate fallimentari per gli USA e i risultati attribuibili sia all’amministrazione repubblicana “neo-con” di George W. Bush che a quella teoricamente “liberal” di Barack Obama sono oggi sotto gli occhi di tutti.

    A scatenare il conflitto in Siria è stato così l’appoggio a forze ultra-reazionarie spesso affiliate al terrorismo internazionale, utilizzate dagli USA e dai loro alleati come avanguardie per la rimozione di un regime la cui importanza strategica è legata al rapporto privilegiato che conserva con l’Iran.

    Come già accaduto nel 2011 in Libia, il calcolo statunitense di puntare su gruppi integralisti altrove denunciati come nemici giurati ha prodotto conseguenze disastrose. In Siria sono infatti giunti guerriglieri provenienti da tutto il Medio Oriente e dall’Europa che hanno devastato il paese per poi esportare il conflitto nei vicini Libano e Iraq, trasformandosi un una minaccia anche per coloro che avevano inizialmente promosso la rivolta.

    L’organizzazione legata al al-Qaeda che in questi giorni sta combattendo contro l’esercito di Baghdad in località come Falluja o Ramadi - lo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria - è un prodotto indigeno iracheno, imbaldanzito però dai successi raccolti oltre il confine occidentale grazie soprattutto al sostegno più o meno diretto ricevuto dagli stessi Stati Uniti e dai loro partner mediorientali.

    Sempre nel caso dell’Iraq, inoltre, il malcontento che si traduce talvolta in aperta simpatia per la ribellione armata contro il governo centrale sciita è il prodotto dei metodi sempre più autoritari volti a discriminare la minoranza sunnita messi in atto da un regime installatosi al potere proprio grazie all’invasione americana e alla deposizione di Saddam Hussein.

    Il caso dell’Iraq offre poi l’opportunità di evidenziare ancora una volta l’apparente schizofrenia e pericolosità della politica estera di Washington in relazione al Medio Oriente. Mentre, da un lato, il segretario di Stato Kerry sta offrendo l’aiuto americano al governo iracheno del premier Maliki per reprimere una rivolta guidata da gruppi terroristi sunniti da egli stesso definiti come “gli attori più pericolosi della regione”, questi ultimi sono di fatto difesi dagli Stati Uniti in Siria, dove al regime di Assad viene chiesto di mettere fine ai bombardamenti in corso contro i “ribelli” nella città di Aleppo.

    Gli effetti collaterali delle manovre statunitensi in Medio Oriente sono evidenti infine anche dalla crescente diffidenza di alleati tradizionali come Arabia Saudita e Turchia, le cui reazioni stanno producendo ulteriori tensioni. L’attacco militare abortito contro la Siria nel mese di settembre e il successivo riavvicinamento di Washington a Teheran sono stati accolti duramente a Riyadh, dove i timori per un’emarginazione nella regione e la perdita di influenza a tutto favore dell’Iran si sono espressi in una serie di dichiarazioni a dir poco polemiche nei confronti dell’amministrazione Obama, nonché nel gesto clamoroso di rifiutare un seggio provvisorio al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

    Il governo islamista del premier Erdogan in Turchia, invece, è stato fortemente penalizzato dalla decisione americana sia di rallentare il processo di destabilizzazione di Assad in Siria - che Ankara appoggiava entusiasticamente - sia di ritirare il proprio appoggio al nuovo governo dei Fratelli Musulmani in Egitto. Nel paese nord-africano, infatti, dopo essere stati costretti a liquidare Mubarak di fronte alle oceaniche manifestazioni di piazza del 2011, gli americani avevano finito per trovare un partner relativamente affidabile nel presidente Mohamed Mursi e nel movimento a cui egli appartiene.

    Questa svolta degli USA era stata gradita dalla Turchia - al cui sistema il nuovo regime egiziano si ispirava - ma aveva sollevato le ire saudite, anche se le parti sono poi tornate ad invertirsi quando Washington nel luglio scorso ha avallato il colpo di stato al Cairo delle forze armate per bloccare sul nascere una seconda rivoluzione scatenata dalle politiche sempre più impopolari del presidente Mursi.

    I conflitti riesplosi nell’area mediorientale non possono quindi essere ricondotti ad un fantomatico “disimpegno” degli Stati Uniti o al loro “abbandono” di una regione tuttora strategicamente fondamentale. A produrre instabilità e violenze sono piuttosto le manovre imperialiste di una leadership, come quella attuale a Washington, del tutto inadeguata a far fronte al proprio inevitabile declino sullo scacchiere internazionale e a costruire un modello stabile di governance in Medio Oriente che salvaguardi i propri interessi in presenza di mutate condizioni socio-economiche e di nuovi attori che minacciano gli equilibri consolidati.

    In questa prospettiva, il vero banco di prova di una politica mediorientale finora quasi del tutto fallimentare sarà l’Iran, oggetto dell’ennesima inversione di rotta della diplomazia USA in questi anni. Un’eventuale pacificazione con Teheran testerebbe definitivamente i rapporti più profondi di Washington con i suoi principali punti di riferimento nella regione - Israele e Arabia Saudita - rappresentando, in caso di successo, un passo avanti decisivo nel tentativo di stabilizzare il Medio Oriente, a sua volta requisito fondamentale perché gli Stati Uniti possano finalmente concentrarsi sulla cosiddetta “svolta” asiatica e la crescente rivalità planetaria con la Cina.

    Michele Paris - Altrenotizie

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