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Disseto idrogeo logico

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    Golfo tossico, una storia italiana.

    (13 Gennaio 2014)

    toxicgolfo

    Lunedì 13 Gennaio 2014 00:00

    “Ci sono temi sui quali la giustizia è nelle mani di pochi coraggiosi, uno di questi ha pagato con la vita…”. Così Sondra Coggio, giornalista per il Secolo XIX (redazione di La Spezia), ripercorrendo le linee guida del suo libro - inchiesta, “Il Golfo dei Veleni” (Cut - up Edizioni), appena pubblicato. L’incipit introduce una data, il 13 dicembre 1995, giorno in cui il capitano di corvetta Natale De Grazia, che indagava sulle navi dei veleni e sui traffici illeciti dei rifiuti nel porto di La Spezia, si ritrovò a morire per strada, a torso nudo sotto la pioggia, dopo aver consumato un pasto in un autogrill della Salerno - Reggio Calabria. Per diciotto anni, si è parlato di “morte naturale” fino alla desecretazione degli atti che ne attesta, invece, l’omicidio; il libro si chiude, quindi, con l’auspicio di un proseguimento d’ indagini per la magistratura spezzina.

    Nondimeno, è da tutte le istituzioni cittadine che si attende una risposta, un input d’orgoglio civile, perché sono tanti i testi (fra tutti, “Trafficanti” di Andrea Palladino), o le inchieste giornalistiche (L’Espresso) sui tavoli delle procure di mezza Italia, storie agghiaccianti incentrate sugli occultamenti o inabissamenti di materiali radioattivi e sempre, la città di La Spezia, appare coimputata, crocevia indiscusso per queste attività illegali. Se in trent’anni, le procure disseminate nel belpaese non sono riuscite a spingersi oltre l’archiviazione per “mancanza di prove oggettive”, al medesimo risultato potrebbe attenersi anche la magistratura spezzina, a meno di un ultimo, sferzante exploit probatorio che, dopo tante reticenze e ingiustizie, possa finalmente riannodare i fili attraverso una discernibile realtà processuale dei fatti.

    E di fatti nuovi ce ne sono, come spiega la stessa Coggio: per esempio, la testimonianza (1997) del pentito Schiavone, anche questa desecretata, le prove inconfutabili che il capitano De Grazia fu avvelenato mentre si apprestava a raggiungere La Spezia “dove non arriverà mai e dove avrebbe acquisito l’ultimo tassello (quello definitivo) del suo puzzle…”. Perché, è certo, che le navi “a perdere”, la Rigel, la Latvia, la Rosso (ex Jolly Rosso), fatte debitamente “naufragare” o incagliate lungo le rotte del Mediterraneo, parcheggiarono e mollarono gli ormeggi nel e dal porto di La Spezia. E sempre a La Spezia c’è chi teneva i fili tra la supervision portuale e la criminalità organizzata, chi assicurava un lasciapassare ai mercantili, spesso in pessimo stato, raggirando passaggi importanti, verifiche e controllo dei carichi.

    Già, La Spezia: moli appartati, installazioni militari, fabbriche d’armi, crocevia di servizi segreti deviati e uomini d’affari. Una città portuale senza spiaggia, ultima chance per alzare il velo di silenzio e omertà cui, in parte, è complice quella politica che paventa le verità con omissis, riserbo, decretazioni: il lato più oscuro del nostro paese.

    Dopo quattro anni di nuove indagini, a seguito di un riscontro fortissimamente voluto da Legambiente (tramite un esposto presentato nel 2009), la magistratura spezzina si ripresenta con un’archiviazione e “nessuna notizia di reato”. Gli ambientalisti si oppongono, chiedendo al Gip d’andare avanti ora che ci sono simmetrie e prove concrete: “Elementi tali da far ritenere che a La Spezia, come in Italia, il capitolo navi dei veleni connesso al tema dei rifiuti tossici, sia ancora attuale; tanto in base alle dichiarazioni di collaboratori di giustizia, quanto alla nuova perizia sulle cause del decesso del capitano De Grazia, che stabilisce la morte non naturale dell'investigatore…”.

    Il riesame, rinviato al prossimo 22 gennaio, in virtù, appunto, di una nuova documentazione presentata dalla dr.ssa Valentina Antonini, legale di Legambiente, si evince “in un quadro indiziario emerso dall’audizione di fonti testimoniali nell’ambito delle commissioni parlamentari d’inchiesta…”.

    A nulla sono valse le dichiarazioni di Francesco Fonti (nel 2009), cui è scaturito l’esposto. Il pentito di 'ndrangheta (deceduto nel 2012), parlò di una nave carica di rifiuti tossici, intenzionalmente “affondata” nel golfo di La Spezia, a quattrocento miglia dalla costa, con il placet della criminalità organizzata i cui target di scarico/rifiuti erano, secondo Fonti, anche paesi africani come Kenya, Somalia, Zaire, oltre ai fondali dei nostri mari: una deposizione reboante quanto inattendibile, secondo la magistratura.

    Tutto questo mentre la procura di Nocera Inferiore, riapriva le indagini sulla strana dipartita del trentanovenne capitano Natale De Grazia, ravvisando elementi utili nel formulare l’ipotesi d’omicidio per avvelenamento, poiché, come scrisse Antonino Greco, capo del nucleo operativo provinciale dei Carabinieri a Reggio Calabria: “Si attivarono forze occulte di non facile identificazione” a seguire i movimenti dell’investigatore in procinto di chiudere le sue indagini. A De Grazia, infatti, mancavano i dati inerenti di 180 imbarcazioni affondate, fu eliminato durante il viaggio in macchina verso La Spezia, nel cui porto era stata ormeggiata, nel frattempo, l’ennesima carretta del mare, la Latvia.

    Si presume che la morte del capitano e la presenza della Latvia siano due elementi irrimediabilmente connessi; tant’è che due giorni dopo la nave prese il largo con il suo carico misterioso. C’è voluto un intervallo lunghissimo per smentire la “verità ufficiale” di un “attacco di cuore improvviso”, accertare, invece, che De Grazia morì per “cause tossiche”, avvalorando la tesi dell’intrigo internazionale, a riprova di quanto sostiene anche la relazione conclusiva della Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti.

    Uno scenario accuratamente ricostruito nei “Trafficanti” di Andrea Palladino, un testo che, se non fosse tragicamente autentico, si potrebbe definire come la trama di una narrazione noir: nella notte del 10 settembre 1983, sul confine di Ventimiglia, un trasporto speciale pervenuto da Seveso, con quarantuno bidoni di diossina, passa di mano in mano, da un senatore italiano a un trafficante marsigliese, ex paracadutista. S’intraprende così una caccia in tutta Europa: dov’è finito il carico mortale, zeppo di scorie dell’Icmesa? E’ da quel giallo internazionale che ha origine il traffico dei rifiuti.

    Dalle navi dei veleni e dal porto di La Spezia si arrivò a eliminare un investigatore integerrimo e scomodo come Natale De Grazia, all’esecuzione della giornalista del TG1, Ilaria Alpi e del suo operatore, Miran Hrovatin, in Somalia (dietro il duplice omicidio, transazioni d’armi e rifiuti tossici), fino al veneficio sistematico della Terra dei Fuochi nel Casertano, dove, come afferma Schiavone, “moriranno di cancro, nel giro di vent’anni…”.

    Il sottobosco dei “trafficanti” è nel cosiddetto “mondo degli affari”, con persone prive di scrupoli che eludono le leggi vigenti sullo smaltimento, economizzando con la “sparizione”, l’inabissamento o l’interramento. Al loro servizio si offrono “professionisti” e “consulenti” come l’ingegner Giorgio Comerio, esperto di mine marine, che aveva progettato un vettore capace d’affondare nelle acque del Mediterraneo le scorie radioattive. O insospettabili manager al servizio di una società finanziaria svizzera che recapitavano alle aziende chimiche europee vere e proprie “circolari”, annunciando la possibilità di far sparire i rifiuti tossici nei paesi africani.

    Tutti s’incontravano, si scambiavano “favori”, intrecciando legami con la malavita, dividendosi i mercati e le contabilità “in nero” delle tangenti. Un sistema molto ben congegnato, una geografia complessa che l’autore traccia anche attraverso fonti e rivelazioni inedite di “collaboratori” che tutt’oggi vivono sotto copertura.

    Quando Palladino scrive che “la discarica Pitelli e La Spezia sono il simbolo vivo dell’Italia dei veleni”, ricordiamoci che per vent’anni, dai settanta ai novanta, nell’immondezzaio spezzino, un sito, tra l’altro, definito d’alto valore paesaggistico, sono finiti rifiuti nocivi al massimo grado (scorie nucleari, diossina di Seveso, scarti tossici sbarcati dalle prime navi dei veleni), mentre il processo per “disastro ambientale” terminato nel 2011, ha visto assolti tutti gli imputati per “inconsistenza dei fatti”.

    A La Spezia, in quel “golfo dei poeti” tra Liguria e Toscana che Napoleone definì “il più bello del mondo”, dove soggiornò D.H. Lawrence decantandone le meraviglie e Richard Wagner ne fu tal punto ispirato che vi compose il preludio all’Oro del Reno, il crocevia internazionale dei veleni si inaugurò nel 1997. Il primo mercantile fu Lorna I, svanito nel nulla nel Mar Nero assieme al suo equipaggio, come pure dall’inchiesta sul traffico d’armi intrapresa alla procura di Trento dal giudice Carlo Palermo.

    Seguì la motonave Nikos I, partita alla volta di Lomè in Togo, mai arrivata a destinazione, sparita in circostanze nebulose. Toccò poi alla Panayota, partita da La Spezia il 2 febbraio 1986, affondata l’11 marzo nei pressi dell’isola di Pianosa, dove testimonianze dell’epoca (raccolte da Legambiente), riferirono di un non meglio identificato “fango nauseabondo con vaste zone schiumose in evidente stato di putrefazione…”.

    Al largo di Capo Spartivento scomparvero la Rigel e il suo carico ritenuto “sospetto” dalla procura di Reggio Calabria. Nel 1989, la Jolly Rosso, fu inviata in Libano dal governo italiano per il recupero di 2mila tonnellate in rifiuti tossici scaricati in precedenza da una società lombarda. Il mercantile, rinominato Rosso, prese il largo dal porto di La Spezia il 4 dicembre 1990 per incagliarsi a ridosso di Amantea, piccolo comune sulla costa calabra. Ufficialmente, il carico trasportava innocui generi di consumo, ma erano note agli inquirenti le attività illecite intorno al suo andirivieni; anche l’ultima delle tre inchieste (2009), sul caso Amantea, si è chiusa con un nulla di fatto.

    Liliana Adamo - Altrenotizie

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