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(5 Aprile 2013) Enzo Apicella
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    Il plebiscito antislamico dell’Egitto

    (15 Gennaio 2014)

    plebiscit

    Votare e votare. Contro la Fratellanza e il caos, per la patria e la rinascita dell’Egitto, per insediare presto come presidente il salvatore della nazione: Abd Fattah Khalil Al-Sisi. Nei 13.000 seggi dove sono chiamati 53 milioni di egiziani, in quel simbolo di democrazia difeso da 200.000 soldati, la popolazione si è recata con ogni mezzo. Vecchi claudicanti sorretti da famigli e militari, anziane in carrozzina, donne con e senza chador. Uomini vestiti a festa e in dimessi panni da lavoro, profumati alla maniera di certi passeggiatori della Sanadiqiyya di Mahfuz e scamiciati che avevano fino a poco prima tosato pecore fin dentro i suburbi della capitale. E barbe salafite, di attivisti qualunque di Al Nour e dei leader come Talaat Marzouq che, tinto il dito indice per contrassegnare il passaggio all’urna, mandava a dire agli avversari della Fratellanza di rivedere posizioni e ostilità verso i militari. Ovviamente ha votato lo stato maggiore dell’esercito, con decine di telecamere che seguivano Al Sisi a ogni passo che lo separava dal seggio. Ha segnato la sua scheda il grande imam della moschea Al-Azhar El-Tayeb, inserendola in una postazione di Luxor. Ha votato Mubarak: in una cabina allestita nell’ospedale Maadi.

    Come mostrano talune foto anche i bambini simulano il voto del futuro. E’ la marea plebiscitaria che monta come durante le oceaniche manifestazioni anti Mursi di giugno. Lo sposare l’aria vincente protetti dalla moltitudine e dai carri armati, quel farsi maggioranza per paura e convincersi che i feloul della politica non reintrodurranno l’Egitto del passato, tutto carcere per i deboli e business per gli straricchi. Si fa strada il dubbio che lo stesso strabordante successo islamico alle politiche libere del 2011-12 subisse l’ipnosi e la forza dell’omologazione. Nelle segrete in cui vengono trattenuti i leader della Confraternita dovranno chiederselo. Nelle code ai seggi della capitale si sentiva: “Sisi unirà il Paese: musulmani, cristiani, tutti berremo dal Nilo (etiopi permettendo, ndr). Abbiamo bisogno dell’uomo forte per proteggere la nostra antica nazione e per far sotterrare le ostilità”. E ancora “Basta, ce n’è abbastanza. L’Egitto non può proseguire così, abbiamo bisogno d’un governo che possa lavorare, ci servono sicurezza e rilancio dell’economia. Questa Costituzione è buona, è civile, è per tutti gli egiziani, non va bene solo alla Ikhwan”.

    Intanto quel che si sotterra sono altri undici corpi. Quattro morti a Sohag nell’Alto Egitto, due nel governatorato di Giza, uno nei paraggi, e in ordine sparso sulle piazze turbolente del Delta e Alessandria. Scontri fra chi si martirizza per Rabaa e gli uomini in nero, coadiuvati dagli antislamisti. Ennesimi martiri per i compagni di lotta e immolazione, gente senza volto per i militi stretti in quelle divise cachi che non li fanno crudeli. Eppure continuano a uccidere a comando, gli dicono “Fuoco!!” e loro premono il grilletto senza ascoltare il tonfo del corpo, avvertendo dalla distanza solo di avere una buona mira. Se la mattanza proseguirà anche stamane, lo sapremo a breve ma non è una novità. Quasi si perde il filo del perché si va a morire per un Egitto abitato da persone che non ti guardano in volto quando t’uccidono e forse neppure s’accorgono del killeraggio. Oppure lo ritengono il male minore. Come i concittadini che tre anni or sono li contestavano e ora li pensano via obbligata per lo Stato democratico. Mohamed Badr, Abdullah Al-Shami, Peter Greste, Baher Mohamed, Mohamed Fahmy giornalisti e cameramen di Al Jazeera con 183, 153 e 17 giorni ciascuno di detenzione per aver narrato le stragi di luglio e dicembre faticano a considerarlo tale.

    15 gennaio 2014

    articolo pubblicato su http://enricocampofreda.blogspot.it

    Enrico Campofreda

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