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ANTONIO POLITO: INTELLETTUALE TROPPO ORGANICO AL SERVIZIO DEL POTERE

(16 Gennaio 2014)

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L'editorialista, ab initio maoista poi riformista e margheritino, Antonio Polito cerca spazio nella corsia, molto affollata, della teoria a sostegno del premierato e dell'uomo forte alla guida del Paese.

Lo fa dalle autorevoli pagine del Corriere della Sera, con un articolo dal titolo emblematico e coerente con l'obiettivo che vuole raggiungere: La perenne debolezza del potere.
Inizia purtroppo malamente, imputando alla qualità della legge elettorale non tanto il dovere di una rappresentanza (come per altro ci ha ricordato la Corte costituzionale) da cui far discendere una ipotesi di governo, quanto l'obbligatorietà che questa serva a raggiungere “la tanto agognata governabilità”, dimenticando una assoluta banalità: che la miglior garanzia in questo campo può offrirla solo un partito unico e un plebiscito.
Per sostenere la sua tesi spolvera con noncuranza parole -tra il medievale e l'ottocentesco, come “padrone”, “ribellione”, “investitura”.
Il brillante Polito ritiene che sia ora che il Presidente del Consiglio sia non più “un primus inter pares” (certo di memoria albertina, cioè al tempo dei Re d'Italia, ma di gusto indubbiamente troppo democratico in una banale Repubblica parlamentare ), ma che riceva adeguata investitura e maggiori poteri. Come? L'esimio Polito suggerisce una soluzione all'italiana, che aggiri la diffidenza, poiché è certo che i suoi consigli non troveranno ancora l'adeguata accoglienza che pur si meritano.
Ecco come: “Dare al premier il potere di essere eletto dalla Camera ricevendo una fiducia individuale, e di sostituire o licenziare i suoi ministri (che non sarebbero investiti dello stesso rapporto fiduciario); nell'obbligare chi volesse votargli la sfiducia a raggiungere la maggioranza assoluta dei componenti dell'assemblea per farlo cadere, oppure nel dare a lui la possibilità di chiedere lo scioglimento del Parlamento se la sua maggioranza viene meno; e infine nel concedergli il tempo parlamentare necessario per far passare le sue proposte di legge e realizzare il programma cui si è impegnato con gli elettori, invece di diventare un fabbricante di decreti peraltro esposti al racket degli emendamenti.”
Perchè occorre “un primo ministro padrone della sua maggioranza, in grado cioè di guidarla o di mandarla a casa se gli si ribella”.

Dunque l'ex maoista/margheritino nonché migliorista/riformista in un colpo solo non solo rinforza il potere, ma cancella il ruolo del Parlamento, reo di molte cose ma certo la più deleteria è quella mettersi a mezzo con inopportuni emendamenti a leggi ritenute da modificare, il ruolo del Capo dello Stato, che non può sciogliere le Camere, e ipotizza governi di durata anche illimitata, perché sinchè il “padrone/premier” non ha completato il suo programma ha tutto il diritto (sic!) di avere tempo a disposizione (sic!) per completarlo.

Entrare nel merito di ciascuna delle geniali pensate dell'editorialista sarebbe oltremodo opportuno, se avessero almeno una parvenza di credibilità repubblicana sul piano non solo teorico ma pure empirico, ma francamente ci sembrerebbe di sprecare tempo, e si rischierebbe di dare importanza all'ennesima “geniale idiozia”.

Ed allora perché ne scriviamo?

Per un motivo molto semplice: per registrare come - in questa valle di lacrime, dove tramonta miseramente (e finalmente!) l'immagine del “capitalismo illuminato” o “consapevole”, colma di incultura politica, di bieco reazionarismo, di ricerca spasmodica del tiranno di turno e razzismo esplicito (l'editoriale citato qui fa compagnia a quello di Panebianco, per il quale è stato coniato l'appellativo di “panebianco, cuore nero”), di pressapochismo giornalistico- il Corriere della sera si stia distinguendo con merito e valore: collocandosi nei primi classificabili tra i sicuri affidabili al servizio del Potere.

Patrizia Turchi

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