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Addio, compagno

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    Carla Ravaioli, la ragazza che vedeva lontano

    (17 Gennaio 2014)

    carlaravaio

    Que­sto è l’ultimo arti­colo («Una rivo­lu­zione senza pre­ce­denti. E’ qui la sini­stra») che Carla Rava­ioli scrisse per il mani­fe­sto il 15 otto­bre del 2011 in occa­sione di una straor­di­na­ria gior­nata di pro­te­sta in vari paesi. L’ultimo di una col­la­bo­ra­zione che negli anni l’aveva vista impe­gnata nella cri­tica al modello di svi­luppo delle società moderne.

    Quanto è acca­duto sabato scorso in novan­ta­cin­que città del mondo (a pre­scin­dere dalle vicende ita­liane, sol­tanto ita­liane, che esi­gono un discorso spe­ci­fico ad esse esclu­si­va­mente dedi­cato) parla di qual­cosa come cin­quanta e più milioni di per­sone in mar­cia con­tro il capi­ta­li­smo. A negare cla­mo­ro­sa­mente la vul­gata che con insi­stenza da tempo parla di neo­li­be­ri­smo incon­tra­stato e vin­cente, dun­que di “fine delle sini­stre”. Ciò che peral­tro in effetti risponde non solo quan­ti­ta­ti­va­mente alla debo­lezza delle sini­stre, ma alla totale man­canza di una poli­tica che possa in qual­che misura distin­guerle dalle logi­che domi­nanti; pre­scin­dendo ovvia­mente dall’impegno soste­nuto soprat­tutto dai sin­da­cati a favore dei lavo­ra­tori, nello spe­ci­fico di situa­zioni di volta in volta in que­stione (sala­rio, orari, man­sioni, “difesa del posto di lavoro”); una lotta indub­bia­mente utile, anzi indi­spen­sa­bile, che però non rimette in alcun modo in causa l’organizzazione pro­dut­tiva nelle sue logi­che e nelle sue rica­dute, né in alcun modo garan­ti­sce un’occupazione sem­pre più a rischio.
    Di fatto “ripresa”, “uscita dalla crisi”, “rilan­cio della pro­du­zione”, sono gli obiet­tivi che — non diver­sa­mente dall’intero mondo poli­tico — le sini­stre auspi­cano e per­se­guono, nel segno dell’accumulazione capi­ta­li­stica. Di recente addi­rit­tura è stato recu­pe­rato il vec­chio slo­gan “Creare posti di lavoro”: insen­sato invito alla pro­mo­zione di atti­vità desti­nate solo a occu­pare vite altri­menti rite­nute inu­tili; di fatto capo­vol­gi­mento del lavoro nella sua fun­zione di rispo­sta a biso­gni dati.

    L’origine di tutto ciò risale d’altronde a fatti lon­tani, da potersi sostan­zial­mente situare nel tren­ten­nio della grande ripresa post­bel­lica, quando l’organizzazione pro­dut­tiva che andava via via impo­nendo al mondo i modi e le logi­che dell’ accu­mu­la­zione capi­ta­li­stica, e model­lan­dolo di con­se­guenza, per più versi però parve ogget­ti­va­mente miglio­rare le con­di­zioni delle classi lavo­ra­trici; e fu allora che le sini­stre (pur senza mai negare quell’anticapitalismo nel cui nome erano nate) in qual­che misura anda­rono rimo­del­lando le pro­prie poli­ti­che, pun­tando (sovente d’altronde con apprez­za­bili risul­tati) sulle riforme piut­to­sto che sulla “rivo­lu­zione”. La quale da allora, spe­cie dopo la fine dell’Urss, di fatto venne “messa in sonno”.

    Ma il “pec­cato” più grave delle sini­stre è l’aver di fatto “rega­lato” il pro­gresso scien­ti­fico e tec­no­lo­gico al capi­ta­li­smo. Di fronte alla più grande rivo­lu­zione com­piuta dal pen­siero umano, che avrebbe potuto con­sen­tire quella “libe­ra­zione del lavoro e dal lavoro” auspi­cata da tutti i grandi uto­pi­sti, com­preso Marx, le sini­stre non hanno saputo che difen­dersi dal rischio della disoc­cu­pa­zione tec­no­lo­gica, d’altronde con risul­tati non pro­prio entu­sia­smanti. Di fatto ope­rando secondo la forma dell’ accu­mu­la­zione capi­ta­li­stica, accet­tan­done logica e con­se­guenze, e solo di volta in volta, nello spe­ci­fico delle sin­gole situa­zioni, com­bat­tendo spesso valo­ro­sa­mente in difesa dei lavoratori.

    Oggi, “ripresa”, “rilan­cio”, “cre­scita”, pro­prio come nei palazzi del potere, sono le parole d’ordine delle sini­stre. Incu­ranti (o così par­rebbe) della qua­lità del mondo che a que­sto modo si tro­vano a soste­nere: un mondo in cui l’1% della popo­la­zione detiene il 50% della ric­chezza, 1/6 dell’umanità è sot­toa­li­men­tato men­tre in com­plesso si distrugge circa il 40% del cibo pro­dotto, un diri­gente d’azienda gua­da­gna fino a 640 volte il sala­rio di un ope­raio, la pro­du­zione di armi rap­pre­senta il 3,7% del Pil (cifra uffi­ciale secondo gli esperti assai infe­riore alla verità).

    Un mondo che con­ti­nua a con­si­de­rare la crisi eco­lo­gica pla­ne­ta­ria come una sorta di varia­bile mar­gi­nale, cui dedi­care momenti di escla­ma­tiva atten­zione quando si veri­fi­cano le cata­strofi più gravi, la grande indu­stria (petro­li­fera, nucleare, che altro) viene pesan­te­mente col­pita, i muta­menti cli­ma­tici distrug­gono rac­colti agri­coli di intere sta­gioni, ecc. Senza mai pre­stare ade­guata atten­zione alle voci della comu­nità scien­ti­fica mon­diale. La quale parla di sem­pre più pros­sima e forse irre­cu­pe­ra­bile rot­tura di equi­li­bri mil­le­nari, e con­ti­nua a ricor­dare i “limiti” del pia­neta Terra: che è “una quan­tità” data, non dila­ta­bile a richie­sta, e per­tanto inca­pace sia di ali­men­tare una pro­du­zione in con­ti­nua cre­scita, sia di neu­tra­liz­zare i rifiuti, liquidi solidi gas­sosi, che ne deri­vano, e squi­li­brano l’ecosistema. Men­tre imper­ter­rito risuona il richiamo alla “cre­scita”, invo­cata come una sorta di dovere sociale, cui le sini­stre si associano.

    Ma dove sono le sini­stre? Que­sta è l’obiezione di regola sol­le­vata appena si accenna a posi­zioni e ini­zia­tive che, nella situa­zione data, alla sini­stra appunto par­reb­bero appar­te­nere. E tut­ta­via, i milioni di gio­vani e meno gio­vani che sabato scorso hanno mani­fe­stato in nove­cen­to­cin­quanta città del mondo, che altro sono se non sini­stre? E i popoli della “pri­ma­vera afri­cana”? E i tan­tis­simi che si bat­tono per la pace, per i “beni comuni”, con­tro il nucleare, con­tro opere monu­men­tali quanto inu­tili, che insomma, nei modi più diversi e per i più diversi obiet­tivi imme­diati, met­tono in discus­sione le regole por­tanti del capi­tale? E le donne che, anch’esse, in folle sem­pre più vistose, mani­fe­stano il loro “sen­tire altro” dalla vul­gata del sistema impe­rante, e che per­fino nei paesi di più dura miso­gi­nia sem­pre più di fre­quente tra­sgre­di­scono la regola che le offende?

    Certo, non può stu­pire che le sini­stre orga­niz­zate — quel poco che ne rimane — fug­gano di fronte a una “rivo­lu­zione” come que­sta, che per qua­lità e quan­tità non ha pre­ce­denti. E d’altronde, è pen­sa­bile che la situa­zione possa pro­trarsi così, inde­fi­ni­ta­mente? Dopo­tutto teste pen­santi, con­vinte della insop­por­ta­bi­lità sociale, cul­tu­rale e fisica, della situa­zione attuale, a sini­stra non man­cano. E non man­cano intel­li­genze capaci di una let­tura ade­guata della “glo­ba­liz­za­zione”: un pro­cesso mon­diale ormai inte­ra­mente com­piuto nella sua dimen­sione economico-finanziaria (ivi incluse deva­stanti con­se­guenze eco­lo­gi­che); sem­pre più lar­ga­mente impo­stosi dal punto di vista cul­tu­rale (con la pub­bli­cità a gio­care in ciò un ruolo deci­sivo quanto stra­vol­gente); ma di fatto tut­tora ine­si­stente sul piano poli­tico (essendo la poli­tica di fatto iden­ti­fi­cata con l’economia, e da essa sostituita).

    Teste non solo pen­santi, ma volon­te­rose di “pen­sare con­tro”, e di avven­tu­rarsi sui rischiosi sen­tieri di una rivo­lu­zione che non ha pre­ce­denti né modelli… io sono certa che non man­chino. Forse si tratta solo di cominciare…

    ilmanifesto.it

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