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LETTERA APERTA AL COMPAGNO MARCO RIZZO: PERCHE’ FARE UN PARTITO COMUNISTA SALTANDO DEL TUTTO L’ESPERIENZA DEL PARTITO COMUNISTA ITALIANO?

UNA PROPOSTA

(20 Gennaio 2014)

letteralcompagno

Mi rivolgo al compagno Marco Rizzo, dopo aver appreso dai giornali la sua nomina a segretario di un rifondato partito comunista sorto sulle ceneri di “Sinistra Popolare”.
Partiti con l’etichetta comunista, in realtà ce ne sono diversi sulla scena politica italiana senza che si sia mai riusciti a porre in discussione una possibilità di dibattito e d’incontro: anzi, mano a mano che la loro influenza andava scemando divisioni e incomunicabilità l’hanno fatta da padrone: in più il soggetto di maggiori dimensioni tra questi, il Partito della Rifondazione Comunista (accomunato comunque, sotto questo profilo, dal PdCI) dopo la disastrosa esperienza governista non ha più trovato, sul piano generale, una propria capacità di autonomia politica ed anche elettorale come si è visto nel caso della Sinistra Arcobaleno, di quello – estremamente negativo – di Rivoluzione Civile e come vedremo nel prossimo passaggio relativo alle elezioni europee e della candidatura Tsipras.
Mi rivolgo al compagno Marco Rizzo utilizzando una sua frase contenuta nell’intervista rilasciata oggi a “Repubblica”, laddove pone le basi teoriche della nuova formazione all’interno dell’esperienza sovietica in precedenza a quello che definisce “revisionismo – kruscioviano”, proclamando il suo partito “marxista – leninista”.
Confesso che prendere a spunto quest’affermazione rappresenta per me semplicemente l’utilizzo di un artifizio retorico, senza minimamente voler mettere in discussione le scelte del compagno Rizzo e del partito che rappresenta: piuttosto per porre a tutti coloro che continuano a dichiararsi comunisti dirigendo i diversi partiti che mantengono nell’insegna questa denominazione una domanda.
Si tratta di questo: perché, nel corso di questi anni e nello sviluppo della diaspora comunista verificatasi in Italia, non si è mai riusciti a discutere sul serio dell’esperienza del Partito Comunista Italiano inteso quale forma politica compiuta e originale nel nostro Paese e nell’intero Occidente capitalistico, ma se ne sono assunte soltanto parti della sua elaborazione, oppure – come nel caso del Partito Comunista di cui è neosegretario il compagno Rizzo- addirittura, si oltrepassa, con un salto direi ardimentoso, interamente quell’esperienza.
Entro allora nel merito per formulare, infine, una proposta finale.

La ragione per la quale si può considerare il PCI quale forma politica compiuta, complessivamente esaustiva nel bene e nel male del comunismo italiano e della quale non è possibile fare a meno quando si cercano attualizzazioni e nuovi riferimenti, risiede in una ragione teorica, tutta interna al pensiero gramsciano: Gramsci, infatti, rifonda l’autonomia del marxismo basandone le coordinate di fondo su di una “filosofia della prassi” divenuta sinonimo di produzione di soggettività politica, di critica della concezione del mondo della classe dominante ed elaborazione di un’ideologia congrua alle condizioni di vita dei gruppi sociali subalterni.

Questo tipo di elaborazione consentì l’operazione portata avanti dal gruppo dirigente del Partito nell’immediato dopoguerra, per specifico impulso soprattutto di Palmiro Togliatti.

Il prestigio acquisito dal PCI nell’organizzazione dell’antifascismo militante e nella guerra di Liberazione, nonché l’essenziale contributo dell’Unione Sovietica alla sconfitta del nazismo, furono all’origine, in quel periodo, di un rinnovato interesse per il marxismo.

La ripresa del marxismo, pur traendo alimento da forti referenti storico – sociali, fu processo non facile sul piano teorico.

Nell’URSS di Stalin, durante gli anni ’30 – ’40 la sintesi engelsiana del marxismo era stata trasformata in dottrina dello Stato fondata sull’opposizione tra teoria materialistica e teoria idealistica della conoscenza.

Le leggi scientifiche del materialismo storico furono considerate un’applicazione particolare del materialismo dialettico, in quanto filosofia che compendiava le leggi di movimento della realtà naturale e sociale.

La marxiana critica dell’economia politica fu sostituita da una scienza economica socialista capace di calcolare i prezzi e di allocare razionalmente le risorse nell’ambito di un sistema pianificato.

Le sorti del socialismo furono, così, identificate con i sostenuti ritmi di sviluppo delle forze produttive e i successi politici ed economici della “patria del socialismo” furono chiamati a verificare la validità della teoria marxista-leninista.

L’autonomia teorica del marxismo italiano, e di conseguenza della sua forma-partito, rispetto al quadro fin qui disegnato fu avviata da Togliatti con la pubblicazione dei “Quaderni del Carcere” avvenuta tra il 1948 e il 1951: principiò, in allora, la costruzione di una genealogia del marxismo italiano partendo addirittura da Vico, passando da De Sanctis, Bertrando Spaventa, Labriola, Croce fino a pervenire a Gramsci.

Questa operazione culturale conseguì almeno tre risultati: mise in ombra il materialismo dialettico sovietico, fornì la piattaforma per l’elaborazione strategica del “partito nuovo” aprendo il solco teorico su cui basare la “via italiana al socialismo” tesa alla costruzione della “democrazia progressiva” e difese, infine, nel clima ideologico della guerra fredda, la continuità della cultura democratica progressista italiana, conquistando una generazione di intellettuali di cultura laica, storicista e umanistica a posizioni genericamente marxiste, senza provocare “lacerazioni troppo nette”.

Al primo convegno di studi gramsciani Eugenio Garin, Palmiro Togliatti e Cesare Luporini sottolinearono che Gramsci aveva tradotto in italiano l’eredità valida di Marx e che il suo pensiero era profondamente radicato nella cultura e nella realtà nazionale.

In quella sede fu fortemente criticato l’economicismo, attribuendo importanza alle ideologie e alla funzione degli intellettuali.

Gramsci collocava, infatti (almeno nella stesura togliattiana dei “Quaderni” antecedente all’edizione integrale curata da Gerratana nel 1975) la politica al vertice delle attività umane, sviluppando la dottrina leninista del partito estendendo lo storicismo integrale in direzione di un’originale teoria delle sovrastrutture e respingendo la teoria della conoscenza come riflesso.

La concezione del marxismo in Gramsci è quella di considerarlo non un metodo, ma una concezione del mondo rivolta a cogliere le possibilità storicamente date nella prassi sociale.

Il più valido spunto critico a questo tipo di impostazione venne, dopo il ’56 da Raniero Panzieri e dal gruppo dei “Quaderni Rossi”: Panzieri fu promotore di una riscoperta della democrazia consiliare e del primato del “soggetto classe” sul predicato partito, critico tanto dell’ideologia della stagnazione quanto dell’ideologia tecnocratica della programmazione, che riduceva la questione sociale a un problema tecnico e identificava il capitalismo con la società industriale e l’illimitato sviluppo della produttività.

Panzieri era fortemente critico con l’impostazione togliattiana della celebrazione del nazional-popolare, del recupero storico-culturale della tradizione democratica e soprattutto dello “scarto evidente, nei partiti storici della sinistra, fra il primato esteriore dell’ideologia e la pratica quotidiana di pura amministrazione”.

La scomparsa prematura di Panzieri, il disinteresse del PSI ormai impegnato nell’operazione centrosinistra (la “politique d’abord” di Nenni) la debolezza teorica e politica dello PSIUP non consentirono a questi importanti spunti di analisi di rappresentare la base per una soggettività politica rappresentativa di un vero e proprio contraltare teorico allo storicismo togliattiano.

Non risultò neppure all’altezza di quel confronto il punto di dibattito apertosi al momento della scomparsa di Togliatti, a iniziativa di quella che poi sarebbe stata definita “sinistra comunista”: iniziativa avviata essenzialmente grazie ad una riflessione di Rossana Rossanda e Lucio Magri che rimproverava, sostanzialmente, allo storicismo di aver oscurato il nocciolo teorico di Labriola e Gramsci (Magri riprende il tema nel “Sarto di Ulm”) e di aver annacquato il marxismo nel quadro di una tradizione dai contorni imprecisi rivendicando un primato del politico sull’economico che aveva smarrito il nesso tra teoria e prassi, tra scienza e storia, oscillando così tra il riferimento di una realtà di pura empiria (attribuita all’ala amendoliana del partito) e di un semplice finalismo volontaristico.

Restarono così punti irrisolti di dibattito che forse avrebbero dovuto essere sviluppati con una capacità critica portata molto più a fondo, ma emersero limiti forti di vero e proprio politicismo al punto che, con gli anni’70, si sviluppò una sorta di “primato della politica” che portò, sulla base del prevalere del concetto di governabilità, al collasso della teoria: ben in precedenza alla stagione degli anni’80 che portò alla liquidazione del partito.

Per questi motivi di fondo: autonomia teorica dal modello sovietico, primato della politica sull’economia senza alcuna visione meccanicistica in questo senso, assunzione della concezione gramsciana del rapporto tra struttura e sovrastruttura, sovrapposizione del partito alla classe (nella versione togliattiana del partito nuovo) il PCI togliattiano è stato il soggetto politico che si può considerare quasi complessivamente rappresentativo del comunismo italiano. Il resto (anche nella critica di Panzieri) ha ruotato attorno.

Lo scioglimento del partito, avvenuto in condizioni di evitabile frettolosità e al di fuori da una qualsiasi ricerca di impostazione teorica alternativa ma semplicisticamente sull’onda dell’attualità, di una presunta “fine della storia” e della necessità (davvero provinciale e politicamente angusta) di “sblocco del sistema politico”) ha dato origine a una cesura epocale che al momento apparve irrecuperabile: il patrimonio della stessa “sinistra comunista” che si era opposta all’operazione liquidatoria risultò disperso, al momento dell’esperienza del seminario di Arco del 1990 e del mancato raccoglimento del messaggio lanciato da Lucio Magri con la sua relazione “Il nome delle cose”. La diaspora tra Cossutta e Ingrao e il ritiro di Natta privò quell’area politica di riferimenti unitari per proseguire nella sua storia.

Nacque un soggetto come Rifondazione Comunista all’interno del quale il portato ideal – storicista del PCI e della stessa sinistra comunista non trovò particolare accoglienza sovrastato, in particolare nella fase dell’assunzione della segreteria di Fausto Bertinotti, dai concetti effimeri della personalizzazione e di un impasto tra movimentismo e governativismo, che hanno decreto in poco tempo la pressoché definitiva conclusione di quell’esperienza, contrassegnata inoltre da una lunga serie di scissioni, e, in ogni caso, il suo essere superfluo al riguardo della realtà del sistema politico italiano e, soprattutto, rispetto all’apertura di una ricerca sull’attualità di un nuovo comunismo, dopo l’esperienza fallita dell’inveramento statutale dei fraintendimenti marxiani del ‘900.

Riproporre oggi le linee essenziali della realtà ideologica, storica e politica del PCI è operazione da compiere soprattutto al riguardo del contesto attuale e della necessità di riaprire appunto quella ricerca: un nuovo comunismo che significhi insieme capacità di rappresentanza e di aggregazione del blocco sociale rappresentato da quelle classi subalterne tragicamente colpite dalla criminale gestione capitalistica della crisi e prospettiva di costruzione, per il futuro, di un orizzonte di radicale trasformazione dello stato di cose presenti.
E’ possibile trovare una sede agibile per riaprire una seria discussione attorno a questi elementi teorici e politici, ponendoci tutti finalmente a confronto senza verità in tasca ma nella consapevolezza di ciò che davvero ha rappresentato il passato e partendo da lì per verificare il futuro possibile dei comunisti in Italia.

19/01/2014

Franco Astengo

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