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Sull’imperialismo....

Alcune riflessioni sull’imperialismo tra passato e presente

(17 Gennaio 2005)

Quello che segue è il primo di una serie di articoli del compagno Raffaele Picarelli sul tema strategico dell’imperialismo,

L’autonomia teorico-politica dei comunisti

La questione dell’imperialismo, cioè del capitalismo dei nostri tempi, non è uno dei temi importanti in ordine al quale i comunisti, nelle difficoltà presenti, sono chiamati ad interrogarsi, ma la questione, lo snodo decisivo al quale la riflessione e la prassi dei comunisti non può sottrarsi a lungo se essi ritengono, come credo, necessario ed ineludibile ricostruire e una teoria della società capitalistica odierna e un percorso rifondativo reale. L’autonomia teorico-politica dei comunisti è oggi, come in passato, un bene prezioso, ma un bene sempre più in pericolo. (Ri)conquistare l’autonomia nei processi di conoscenza del modo sociale di produzione vigente significa, tra le altre cose, tornare ad impossessarsi pienamente della teoria e della prassi del marxismo e del leninismo, quale è stata tramandata dall’esperienza di conoscenza e di lotte per la trasformazione di milioni e milioni di donne e di uomini. Questo patrimonio giunto fino a noi va non solo conservato ma vivificato attraverso un rapporto costante con il movimento reale della società. La sua utilizzazione antidogmatica ci permette di cogliere i grandi benefici di quella che si è storicamente posta e continua a porsi come la forma più avanzata ed organica di critica del modo di produzione capitalistico e come il progetto grandioso di liberazione dell’umanità dai vincoli di un ordinamento economico-sociale oggi più che mai incapace di produrre sviluppo, libertà e cultura, cioè, in una parola, civiltà e progresso nella vita dei popoli.

Lenin e la “sostanza economica dell’imperialismo”

Nel suo notissimo “saggio popolare” “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo”, Lenin manifesta immediatamente lo scopo del suo libro. Nella prefazione alla prima edizione russa che appare nell’aprile del 1917, egli dice che intende chiarire “la questione economica fondamentale, la questione cioè della sostanza economica dell’imperialismo, perché senza questa analisi non è possibile comprendere né la guerra odierna né la situazione politica odierna”.(1) Lenin dichiara così subito l’intendimento di contrastare le tesi di Kautsky e di coloro che con lui avevano portato la Seconda Internazionale all’accettazione e al sostegno della guerra imperialistica, basate sull’interpretazione dell’imperialismo quale politica particolare del capitalismo. Lenin pur assumendo la parola “imperialismo” dall’economista inglese J.A. Hobson nella cui opera essa si caratterizzava per una valenza “politica” connessa alla grande espansione imperialistica (nel senso di conquista coloniale) attuata dall’Inghilterra a cavallo dei secoli XIX e XX, attribuiva alla stessa il significato non di un fatto politico ma di uno stadio (o fase) non reversibile del modo di produzione capitalistico, ossia la fase in cui prevale una struttura monopolistica della società. La centralità assunta dai monopoli nell’economia come caratteristica essenziale dell’imperialismo capitalistico è evidenziata nelle prime pagine del “saggio popolare” e poi più volte ribadita da Lenin nell’opera: “[La] trasformazione della concorrenza nel monopolio rappresenta uno dei fenomeni più importanti – forse anzi il più importante – nella economia del capitalismo moderno e noi non possiamo fare a meno di esaminarla ampiamente”.(2) E ancora: “se si volesse dare la definizione più concisa possibile dell’imperialismo, si dovrebbe dire che l’imperialismo è lo stadio monopolistico del capitalismo”.(3)
Non è inutile rammentare, in un momento di teorizzazioni per così dire “neokautskiane” e di difficoltà delle mobilitazioni antimperialistiche, in un recente passato spesso e in gran misura connotate da elementi di pacifismo e da sopravvalutazioni dell’aspetto “politico” dell’imperialismo, le riflessioni assolutamente attuali dell’opuscolo leniniano: “Kautsky si schierò risolutamente contro il concetto fondamentale espresso nella nostra definizione, allorché dichiarò non doversi intendere per imperialismo una ‘fase’ o stadio dell’economia, bensì una politica ben definita, una certa politica ‘preferita’ dal capitale finanziario, e non doversi ‘identificare’ l’imperialismo col ‘moderno capitalismo’. [...] Kautsky separa la politica dell’imperialismo dalla sua economia interpretando le annessioni come la politica ‘preferita’ del capitale finanziario, e contrapponendo ad essa un’altra politica borghese senza annessioni, che sarebbe, secondo lui, possibile sulla stessa base del capitale finanziario. Si avrebbe che i monopoli nella vita economica sarebbero compatibili con una politica non monopolistica, senza violenza, non annessionista”. E di fronte alla posizione kautskiana che l’imperialismo non sia il capitalismo moderno, ma semplicemente una forma della politica del moderno capitalismo e che si possa e si debba combattere “contro l’imperialismo, contro le annessioni”, la replica leniniana è chiara e sintetica: “una ’lotta’ contro la politica dei trust e delle banche che non colpisca le basi economiche dei trust e delle banche si riduce ad un pacifismo e riformismo borghese condito di quieti quanto pii desideri”.(4)
Da qui la nota critica alla “teoria dell’ultra-imperialismo”, vale a dire del “super-imperialismo, della unione degli imperialismi di tutto il mondo e non della guerra tra essi, la fase della fine della guerra in regime capitalista” e l’affermazione che un “ultra-imperialismo ‘dal un punto di vista estremamente economico’ non rappresenta che un’ultra-stupidità”.(5) Torneremo in seguito su questo.

Concentrazione/centralizzazione dei capitali e monopolio

E’ noto che il concetto leninista di “monopolio” non è quello del monopolio assoluto, ma quello del dominio più o meno rilevante non solo del mercato, ma di tutta la struttura economica da parte di poche imprese, ognuna delle quali in tal senso è un monopolio. Il concetto di oligopolio è più tecnicistico e si riferisce essenzialmente alla formazione dei prezzi e al “tipo di mercato”, quando esistano poche imprese dominanti.
La operatività della legge fondamentale dell’accumulazione capitalistica, base della riproduzione allargata, comporta nella fase della libera concorrenza la necessità per il capitale di aumento incessante della produzione attraverso l’investimento di una sempre maggiore quantità di capitale. In via generale, solo accumulando, cioè trasformando parte del plusvalore, e quindi del profitto, in capitale addizionale oppure, in via individuale, impadronendosi e/o associandosi a capitale altrui, si può realizzare lo scopo: la concentrazione (per accumulazione diretta o autofinanziamento) e la centralizzazione del capitale hanno portato storicamente alla formazione della grande impresa.. Ad un “grado assai elevato” della concentrazione della produzione, cioè dell’offerta, e del capitale è sorto il monopolio “con funzione decisiva nella vita economica”. Da qui la tendenza alla formazione di “unioni monopolistiche di imprenditori”, cioè di “associazioni monopolistiche di capitalisti”, attraverso le più varie forme (accordi, cartelli, trust). “I cartelli si mettono d’accordo sulle condizioni di vendita, i termini di pagamento ecc. Si ripartiscono i mercati. Stabiliscono la quantità delle merci da produrre. Fissano i prezzi. Ripartiscono i profitti tra le singole imprese, ecc.”.(6) Si tratta però di accordi necessariamente temporanei in quanto contrastati da quella legge dello sviluppo disuguale e a salti del capitalismo per singole imprese, settori industriali e paesi, più volte sottolineata da Lenin e che porta all’incessante modificazione dei rapporti di forza: “in regime capitalistico non può darsi sviluppo uniforme di tutte la singole imprese, trust, rami d’industria, paesi, ecc.”.(7)
Il processo di concentrazione dell’offerta e del capitale, che aveva già raggiunto un grado elevato all’epoca di Lenin, è continuato in seguito ed ha assunto un ritmo accelerato negli ultimi 15-20 anni con il boom delle acquisizioni e delle fusioni, forma di centralizzazione del capitale. Sono interessanti, al riguardo, i dati forniti di recente da V. Giacchè, secondo il quale “stiamo assistendo ad un processo di concentrazione tra le imprese che non ha uguali in nessun altro momento della storia del capitalismo, né per numero di imprese coinvolte da processi di fusione e acquisizione, né per il loro valore, né quanto alla portata transnazionale delle concentrazioni. Spettacolare, in particolare, l’incremento del volume totale di queste transazioni negli anni Novanta: 500 miliardi di dollari nel 1990, 2.500 miliardi di dollari nel 1998, 5.000 nel 2000 […]. Quanto al fatto che i monopoli abbiano una “funzione decisiva nella vita economica”, sarà sufficiente ricordare pochi dati riferiti alle zone Euro: tra le 274 principali multinazionali mondiali, le 18 tedesche nel 2001 hanno fatturato 737 miliardi di euro; le 24 francesi, 478 miliardi di euro; le 15 italiane, 170 miliardi di euro”.(8) Se il problema basilare è rendere massimo il processo di accumulazione, appropriarsi della quantità massima di plusvalore e di un capitale sempre crescente, con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico cresce, nel corso del tempo, per i processi di concentrazione/centralizzazione sopra descritti e per contrastare la caduta del saggio di profitto, l’entità del capitale iniziale necessario per l’avvio del processo produttivo. I bisogni dell’accumulazione diventano tali che occorre impadronirsi e dominare la massa di capitali fluttuanti non durevolmente investiti ed il risparmio vero e proprio ed utilizzarlo in senso capitalistico. La necessità di mobilitare tutto il capitale monetario esistente trova il suo soddisfacimento nei processi di concentrazione del sistema creditizio in senso lato, già avanzati ai tempi di Lenin. La concentrazione monopolistica nel campo finanziario e creditizio rende sistematica e pervasiva quell’opera di centralizzazione e messa a disposizione dei capitalisti del capitale monetario, che è stato e rimane uno dei compiti principali delle banche e degli organismi finanziari.

Il capitale finanziario: concetto e caratteristiche del suo sviluppo storico

Come è noto, Lenin riporta sul suo saggio la definizione data da Hilferding di capitale finanziario. “Una parte sempre maggiore del capitale industriale – scrive Hilferding – non appartiene più agli industriali che lo impiegano. Il capitale è messo a loro disposizione soltanto per mezzo della banca, che ne rappresenta di fronte ad essi il proprietario. Reciprocamente, la banca deve impiegare nell’industria una parte sempre maggiore dei suoi capitali; in tal guisa essa diventa, in proporzioni sempre maggiori, capitalista industriale. Il capitale bancario – e quindi il capitale in forma di denaro – che nella realtà si trasforma così in capitale industriale viene da me chiamato capitale finanziario. Il capitale finanziario è il capitale di cui dispongono le banche, ma che è impiegato dagli industriali”.(9) La definizione fu corretta da Lenin perché vi mancava l’accenno al monopolio: “il capitale finanziario è il capitale bancario delle poche banche monopolistiche fuso col capitale delle unioni monopolistiche industriali”,(10) ossia è il capitale monopolistico stesso che, per così dire, monopolizza ingenti disponibilità di capitale da prestito. Si giunge così al concetto di simbiosi tra le varie forme, modi di essere, funzioni del capitale (monetario-bancario-assicurativo, industriale, alle quali bisogna aggiungere la forma del capitale commerciale): “concentrazione della produzione; conseguenti monopoli; fusione e simbiosi delle banche con l’industria: in ciò si compendia la storia della formazione del capitale finanziario e il contenuto del relativo concetto”.(11) Il concetto di capitale finanziario è una unità economica e politica delle varie forme di capitale. Ma, nel capitale finanziario, prevale il momento monetario (e bancario-assicurativo) o il momento del capitale industriale? La consapevolezza di Lenin della centralità del capitale produttivo di plusvalore (capitale industriale) e della impossibilità di una reale vita autonoma, cioè staccata dal processo produttivo, dell’altra forma di capitale (anche se forte è la tentazione del capitalista di far denaro senza la mediazione del processo produttivo) non gli impedisce di mettere in evidenza in più parti l’estrema importanza del capitale monetario. In tal senso egli scrive delle banche e della loro funzione, del credito industriale e dell’attività che oggi chiameremmo di “merchant bank”: “[…] non appena la banca ‘accumula’ capitali enormi […] allora ne risulta una sempre più completa dipendenza del capitalista-industriale dalla banca. Nello stesso tempo si sviluppa, per così dire, un’unione personale della banca con le maggiori imprese industriali e commerciali, una loro fusione mediante il possesso di azioni o l’entrata dei direttori di banche nei consigli di amministrazione delle imprese industriali e commerciali e viceversa”; così pure scrive dello sviluppo dei prestiti internazionali e del possesso di titoli finanziari di tutto il mondo.(12) E’ importante sottolineare che vi sono stati periodi successivi, per esempio nella storia italiana dopo il 1933, cioè dopo la fase acuta della crisi, in cui il fulcro dell’azione del capitale finanziario è ritornato nel luogo di produzione. “Il fulcro del processo di accumulazione e quindi il momento di decisione economica” è ritornato ad essere in questo periodo, “l’impresa produttiva, in cui si attua l’accumulazione diretta ed originaria. Conferma di tale opinione è l’alto tasso di autofinanziamento, che rende l’impresa in gran parte indipendente dal mercato del capitale monetario”.(13) E’ stato di recente sottolineato l’alto tasso di autofinanziamento delle imprese (il 50% del fabbisogno di capitale nel 1950) nella fase di espansione postbellica.(14)
L’imperialismo è la fase dell’egemonia del capitale finanziario e del dominio dell’oligarchia finanziaria.
Nei nostri giorni sembrerebbe confermarsi, come al tempo della teorizzazione di Hilferding, il ritorno del “fulcro“ al momento monetario (e bancario/assicurativo). Andando infatti avanti nel tempo, non si può non notare una interrelazione tra centralità dell’impresa produttiva, nell’unità economico-politica del capitale finanziario, e la fase successiva alla crisi del 1929-33 e soprattutto la fase dell’espansione economica postbellica e, viceversa, tra prevalenza del capitale monetario e la fase di crisi della crescita, rilevata a partire della metà degli anni ’70 del Novecento.

La “finanziarizzazione “ capitalistica e il ruolo delle banche.

Da oltre un trentennio(15) è florida la “finanziarizzazione” dell’economia capitalistica internazionale. Per finanziarizzazione, in senso generale, si può indicare, da un lato, l’incremento esponenziale del capitale da prestito erogato da soggetti bancari e non, e, di riflesso, il crescente utilizzo del capitale bancario (e di terzi) da parte dei grandi gruppi industriali e commerciali e delle pmi industriali, commerciali e artigiane, dall’altro, la incredibile proliferazione dei soggetti operanti nel campo finanziario (gruppi bancari, conglomerati finanziari, imprese, società di gestione del risparmio, fondi comuni di investimento, fondi pensione, Sicav, hedge funds ed altro). Espressione della finanziarizzazione dell’economia capitalistica (e manifestazione della crisi dell’accumulazione reale) è il fenomeno della crescita con progressione geometrica del valore e della quantità del capitale monetario impiegato (in uno con il risparmio) in operazioni finanziarie (su valute, titoli azionari, obbligazioni, sulle congerie dei vari strumenti finanziari offerti dai “mercati mobiliari”, sui cosiddetti prodotti “derivati”).
I più grandi gruppi monopolistici a base italiana e non presentano da molti anni un indebitamento che ha assunto carattere strutturale. Si è esteso l’utilizzo del capitale bancario (insieme a quello degli obbligazionisti e delle consociate) nell’attività caratteristica e in quella crescente di natura finanziaria svolta dalle imprese. I grandi gruppi industriali italiani, cioè 12 dei 30 gruppi a maggiore capitalizzazione di borsa, esponevano al 30.9.2003 debiti finanziari pari a quattro volte e mezza il patrimonio netto tangibile, cioè il patrimonio netto meno gli attivi immateriali. Il totale delle società quotate in borsa aveva, a fine 2003, un indebitamento finanziario verso banche (obbligazionisti e consociate) sostanzialmente pari al patrimonio netto tangibile.(16) Le vicende Parmalat, Cirio, Bipop, Giacomelli ed altre hanno messo in rilievo di recente il ruolo preminente delle banche nel panorama economico italiano. Infatti le banche e le istituzioni finanziarie in genere sono riuscite a disimpegnarsi da impieghi creditizi rischiosi ed hanno vistosamente ridotto le esposizioni collocando sul mercato, con notevoli guadagni, bonds delle società in via di “decozione”. I gruppi industriali e commerciali interessati non hanno potuto opporsi, ammesso che lo volessero, perché notevolmente indebitati con il sistema creditizio e da esso sostanzialmente controllati. Il tutto , come è noto, ha comportato come effetto il “rovesciamento del rischio” a carico di altri gruppi economico-sociali: parte dei ceti portatori di varie tipologia di rendita (finanziaria, immobiliare, fondiaria), i ceti professionistici e manageriali, segmenti di piccola e media impresa in particolare del nord-est e del centro del paese. Il banchiere Mattioli, parlando della grande operazione che in Italia portò alla creazione dell’Iri e dell’Imi e alla legge bancaria del 1936, affermò che essa aveva portato alla liberazione del capitale industriale dal peso e dalla soggezione alla banca, permettendo così ad esso un più rapido sviluppo. Se per capitale industriale intendiamo, nel caso di specie, soprattutto la piccola e media impresa, si può vedere nel comportamento recentemente tenuto dall’ex ministro dell’economia Tremonti nei riguardi del sistema creditizio e delle banche il tentativo di rinegoziare la posizione ed il ruolo subordinati dei ceti capitalistici e non capitalistici sopra citati. Il tentativo è completamente naufragato. Infatti, il disegno di legge governativo sul risparmio del febbraio 2004, tendente a depotenziare il ruolo di Bankitalia sottraendole oltre alla tutela della “concorrenza” nel settore bancario, le competenze del controllo sulle emissioni di valori mobiliari e sulle emissioni finanziarie delle banche, è rimasto “insabbiato” per molto tempo e se,come pare in questi giorni, verrà ripreso, non conterrà certamente nulla che possa dispiacere a Bankitalia. La annosa polemica di Tremonti contro il sistema detto “Basilea 2”(17) non ha portato a risultato alcuno, mentre si è riaffermato il ruolo centrale della Banca d’Italia nella gestione del sistema finanziario italiano e nel sostegno di un quadro politico ad essa non ostile.(18) D’altronde, proprio per il tentativo di rimettere in discussione gli assetti del potere bancario, Tremonti è stato costretto alle dimissioni.

La banca “universale”

Le vicende dei crack degli anni scorsi hanno riportato all’ordine del giorno, da parte di settori del personale politico ed economico dei gruppi capitalistici dominanti, la messa in discussione del modello della cosiddetta “banca universale”, cioè dell’organismo finanziario che raggruppa in sé le funzioni di raccolta del risparmio, di esercizio del credito a breve (credito commerciale), a medio-lungo termine (credito industriale) e di investimento, cioè di assunzione di partecipazioni nelle imprese e di attività di advisory nelle operazioni (transnazionali e non) di fusione e acquisizione, in quelle di collocazione di emissioni azionarie e/o obbligazionarie conseguenti a privatizzazioni e aumenti di capitale, e nella generale attività di garanzia nell’allocazione di assets: in questo caso, come è noto, si parla di banca d’affari o merchant o banca di investimento nelle varie forme. E’ questo un canale importante, già evidenziato da Lenin, che ha condotto e conduce allo stretto rapporto tra banca e industria e altre forme di capitale e, per lunghi periodi, ad un controllo di fatto dell’industria da parte della banca. La storia della banca “mista” o “universale” nei paesi capitalistici è caratterizzata fondamentalmente da tre fasi: la prima, di sviluppo, che va dalla fine del secolo XIX alla Grande Crisi del 1929-1933; la seconda, di crisi, che vide da un lato la separazione tra banca e industria, cioè dell’attività creditizia da quella di investimento, con il divieto alle banche di credito ordinario si assumere partecipazioni azionarie nelle imprese e, dall’altro, la separazione tra attività di credito ordinario (a breve termine) e credito industriale (a medio-lungo termine); la terza, negli anni novanta, di ritorno in grande stile della banca universale.(19) La separazione di quella “mostruosa fratellanza siamese” tra banca e industria, di cui parlò il banchiere Mattioli negli anni Trenta e che sfociò in Italia nella citata legge bancaria del 1936, rappresentava il tentativo di risolvere, dopo la grande “paura” del ’29, le vecchie e nuove contraddizioni, rispettivamente acuite e generate dalla crisi capitalistica, nell’ambito stesso del modo di produzione vigente. In questo senso, quelli che erano veri e propri provvedimenti di stabilizzazione dell’ordinamento creditizio costituivano, per dirla con Marx, delle forme antitetiche dell’unità sociale. I complessi processi che hanno portato in ambito mondiale alla sostanziale liquidazione del capitalismo monopolistico di stato, hanno avuto, tra gli altri, come effetto, fin dai primi anni Novanta, la privatizzazione del sistema bancario e il ritorno alla banca universale. Sono stati in molti ad ascrivere al ritorno della banca mista la genesi in Italia, e ovviamente non solo in Italia, in un solo decennio, di disordine e, in alcuni momenti, di caos finanziario, contribuendo in tal modo a quella grande instabilità propria della fase imperialista del capitalismo che si manifesta sia sul terreno economico-finanziario e monetario che su quello sociale e politico.(20)

Concentrazione e centralizzazione nel settore bancario e finanziario

Se le banche sono state determinanti in passato per la sopravvivenza stessa dell’industria ed hanno accelerato le dinamiche di concentrazione monopolistica dell’industria (e delle altre forme di capitale), esse stesse sono state, e sono tuttora, protagoniste di poderosi processi di concentrazione/centralizzazione. Il fenomeno fu osservato e descritto da Lenin: “ […] i monopoli sorsero dalle banche. Queste si trasformarono da modeste imprese di mediazione in detentrici monopolistiche del capitale finanziario. Tre o cinque grandi banche di uno qualunque tra i paesi più evoluti attuarono “l’unione personale” del capitale industriale e bancario, e concentrarono nelle loro mani la disponibilità di miliardi e miliardi che costituiscono la massima parte dei capitali e delle entrate in denaro di tutto il paese”.(21) Le fusioni e acquisizioni bancarie e finanziarie effettuate nel mondo dal 1990 al 2000 sono state 7500 per un valore di 1.600 miliardi di dollari; in Italia dal 1987 al 2000 il numero delle banche è sceso da 10.200 a 864, mentre si sono formati 4 grandi gruppi che da soli controllano il 50% del mercato del credito (Banca Intesa, Unicredito, San Paolo Imi, Capitalia); in Europa il sistema finanziario è in mano ad un numero ristretto di grandi banche: nella maggior parte dei casi i 5 maggiori istituti gestiscono più del 50% degli assets totali.(22) La tendenza alla concentrazione/centralizzazione prosegue, favorita dalla Banca d’Italia timorosa dell’inadeguatezza attuale del sistema finanziario italiano a sostenere la competizione monopolistica mondiale: è recente la vicenda dell’opposizione di Bankit alla scalata per il controllo delle Assicurazioni Generali, tramite Mediobanca, da parte di gruppi finanziari francesi, mentre sono dei nostri giorni le vicende del “patto” e “contropatto” di sindacato in BNL e della Banca Antonveneta, nelle quali si è chiaramente palesato l’orientamento della Banca centrale di contrastare il rafforzamento nel capitale sociale delle due banche di due istituti finanziari, rispettivamente a base spagnola e olandese.

Il capitale finanziario nell’esperienza dei nostri giorni

Il sistema creditizio e finanziario nel suo complesso, comprendente quindi oltre le banche anche gli investitori istituzionali, cioè le compagnie di assicurazione, i fondi comuni di investimento chiusi e aperti, la Sicav, le società di intermediazione mobiliare, i fondi pensione, gli hedge funds, è oggi più che mai un “immenso meccanismo sociale inteso a centralizzare i capitali “(23) da destinare a colossali investimenti in tutto il mondo. I fondi pensione (o le relative società di gestione), ampiamente diffusi, come noto, in questi ultimi anni e destinati a rastrellare risparmio previdenziale in tutto il pianeta per trasferirlo dalla circolazione del reddito a quella del capitale, sono in grado di operare investimenti che, date le caratteristiche di erogazione delle future (e incerte) rendite previdenziali, possono essere oltre che giganteschi anche di lungo periodo, in quanto non soggetti a disinvestimenti repentini per improvvise richieste di riscatto, come avviene per le altre tipologie di fondi.
Il sistema bancario-assicurativo, direttamente e attraverso proprie società di gestione del risparmio (SGR), finisce per amministrare la quasi totalità del risparmio. Gli stessi fondi speculativi “puri” (hedge funds) operanti in Italia sono distribuiti da 6 società di gestione del risparmio, facenti capo o collegate al sistema bancario.(24)
I grandi gruppi bancari e i grandi conglomerati finanziari(25) partecipano o controllano, come detto, un numero notevole di società industriali, commerciali o di servizi. In Italia è di questi giorni la gigantesca operazione di “ingegneria finanziaria” del gruppo Telecom di cui è opportuno parlare più diffusamente perché in essa si sono poste all’evidenza di una opinione pubblica più vasta del novero degli specialisti una serie di fenomeni e comportamenti tipici del capitale finanziario e dell’oligarchia finanziaria.
Innanzitutto vengono in risalto l’ampiezza e le caratteristiche delle catene di controllo societario che permettono a gruppi finanziari o industriali “a monte” della piramide di controllare a cascata numerose altre società con il minimo esborso di denaro. La catena di controllo del gruppo Telecom parte da una società che è denominata GPI (Gruppo Partecipazioni Industriali), holding non quotata di proprietà della famiglia Tronchetti Provera. La GPI detiene il 57,6% della Camfin, una finanziaria quotata in borsa, la quale a sua volta con una partecipazione del 26,9% e con un patto di sindacato che raggiunge il 42% del capitale, controlla il capitale della Pirelli (il cosiddetto “parco buoi” dell’azionariato diffuso, che detiene il 58% del capitale, non conta nulla). L’ulteriore anello della catena è Olimpia controllata al 50,4% da Pirelli: Olimpia con il solo 17% del capitale ordinario controlla di fatto Telecom, la quale a sua volta detiene il 56,1% della “gallina dalle uova d’oro” Tim (quest’ultima società ha chiuso il 2003 con utili netti di 2,5 mld. di Euro).
Il sistema delle “scatole cinesi” non era sfuggito a Lenin che parla di “sistema della partecipazione” per riferirsi alle strutture piramidali di controllo, mettendo pure in evidenza il ruolo di “portatori di acqua” svolto dai piccoli azionisti a favore dell’oligarchia finanziaria.(26)
Ritornando alla ristrutturazione del gruppo Telecom, si nota un rafforzamento del ruolo delle banche.
Infatti GPI cederà a Banca Intesa, Capitalia, Generali e Mediobanca il 6,5% del nuovo capitale Camfin dopo l’aumento che quest’ultimo effettuerà per circa 250 milioni di Euro (l’operazione sarà assistita da un consorzio di banche); Camfin cederà l’1,9% del capitale Pirelli a Capitalia e Banca Intesa, già presenti nel capitale della società e che ora entreranno nel sindacato di controllo della Pirelli. Quest’ultima effettuerà un aumento di capitale di oltre un miliardo di euro, gestito da un consorzio di garanzia in cui spicca Capitalia, Mediobanca e Unicredit. Banca Intesa e Unicredit detengono inoltre l’8,4% ciascuna di Olimpia. Telecom ha lanciato un’ “offerta di pubblico acquisto e scambio” (OPA) su 2/3 del capitale Tim per poterla successivamente incorporare. L’esborso derivante dall’acquisto delle azioni portate in adesione dell’Opa sarà sostenuto soprattutto con un finanziamento di 12 miliardi di euro, concesso da un pool di banche in cui J.P. Morgan agirà come coordinatore globale: in tal modo l’indebitamento complessivo di Telecom Italia salirà da 30 a 44 miliardi di euro.
Lo scopo dell’intera operazione è finanziario. Scrive il giornale confindustriale: “Olimpia controlla di fatto Telecom con il 17% del capitale. Gli altri azionisti sono troppo piccoli e dispersi per contare. Fondere Tim in Telecom significa anche avvicinare i ricchi flussi di cassa Tim alle società che detengono la catena di controllo: Olimpia ovviamente, poi Pirelli e infine Camfin”.(27) Olimpia, peraltro, è fortemente indebitata con le banche.
Passando dal settore strategico delle comunicazioni a quello dell’energia, vi è un vero e proprio controllo bancario del secondo gruppo energetico italiano. Infatti, Italenergia Bis (Ieb), la società che controlla il 62% di Edison (quotata in borsa), è partecipata da Banca Intesa per il 10,7%, da San Paolo Imi per il 12,5% e da Capitalia per il 14,2%. E’ appena il caso di ricordare che il gruppo FIAT è di fatto controllato dal sistema bancario, che dispone del diritto di convertire in partecipazioni i rilevantissimi crediti vantati nei confronti del gruppo torinese (prestito convertendo). Lo stesso discorso vale per il gruppo Parmalat. Notevole è stato pure il ruolo delle banche (in particolare di Banca Intesa) nella recentissima e rilevante operazione di concentrazione industriale che ha portato il gruppo Piaggio, con l’acquisto di Aprilia e Guzzi, a diventare il primo gruppo europeo nel settore delle moto. Si è negli ultimi anni ridimensionata, ma rimane niente affatto trascurabile, l’attività di Mediobanca, storica merchant del sistema finanziario italiano.
Uscendo fuori dal nostro paese, vediamo che in Germania il gruppo bancario-assicurativo Allianz/Dresdner Bank deteneva (nel 2001) 39 partecipazioni per un valore di 70 miliardi di dollari.
In sostanza, il sistema creditizio e finanziario attraverso le partecipazioni, la crescente erogazione del credito (di cui l’indebitamento del sistema produttivo e commerciale è l’altra faccia) e le multiformi attività di merchant, mantiene un’influenza tale da orientare la gestione delle imprese industriali, commerciali e di servizi.
Consistenti e diffuse, anche se meno rilevanti e meno capaci di condizionamento (ma l’indebitamento consistente è esso stesso una forma potente di condizionamento), sono, nell’attuale fase, le partecipazioni detenute dal complesso delle imprese nel sistema bancario e creditizio in genere. Di questa situazione è espressione, come detto, il declino relativo di quel luogo di integrazione e pariteticità nelle decisioni economico-finanziarie rilevanti tra le varie forme di capitale (compreso quello monopolistico pubblico) che è stata per decenni Mediobanca con la sua funzione di “stanza di compensazione” del capitalismo italiano.

La normativa antitrust

Da molto tempo esiste in USA una normativa antitrust. In Europa essa era prevista fin dal trattato istitutivo della CEE; in Italia è stata recepita con la legge 10.10.1990 n. 287. Il diritto antitrust vieta alle imprese, sotto pena di nullità, di stipulare tra loro qualunque intesa che abbia per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente, il “gioco” della concorrenza su una parte sostanziale del mercato rilevante. Sono inoltre vietati gli abusi di posizione dominante. Sotto il profilo del diritto antitrust i gruppi monopolistici sono giustamente considerati un’unica impresa: si accoglie, non importa se consapevolmente o meno, il concetto di capitale finanziario nel senso imperialistico del termine, quale fusione delle varie funzioni delle singole forme del capitale che è individuato nella struttura della holding.
Il primo gruppo di teorici divieti attribuiti alla potestà dell’Autorità antitrust oltre a contenere una serie di limitazioni dell’attività inibitoria (nozioni di limitazione consistente, parte sostanziale e mercato rilevante), conferiscono all’Autority un tale potere discrezionale da connotarla come organismo politico soggetto ad ogni ingerenza del capitale finanziario. Relativamente alla seconda teorica limitazione (abuso di posizione dominante), il diritto antitrust, salva l’ipotesi di centralizzazione di cui diremo tra poco, non vieta alle imprese di raggiungere una posizione di monopolio attraverso la concentrazione del capitale e dell’offerta, che costituisce anzi per la norma un premio concesso dal mercato all’impresa. L’intervento è solo successivo e si limita ad impedire gli “abusi” del potere connesso ad una posizione già monopolistica. La posizione è di per sé dominante se la quota di mercato posseduta dall’impresa monopolistica è superiore all’80% (!); vi sono poi ulteriori indizi per l’accertamento della sua esistenza, quali il vantaggio tecnologico, la potenza finanziaria, ecc. Formalmente sottoposte a controllo sono le operazioni di centralizzazione del capitale, cioè le fusioni o le acquisizioni, che vengono dalla legge chiamate concentrazioni. Tuttavia, queste “concentrazioni” non sono mai soggette a divieti rigidi e sono oggetto di “valutazione” solo quando costituiscono o rafforzano una posizione dominante sul mercato nazionale, in modo da eliminare o ridurre in modo sostanziale e durevole la concorrenza sul mercato nazionale. Si tratta, come può ben vedersi, di un complesso di norme tendenti ad impedire qualcosa che si avvicina al monopolio assoluto anziché disciplinare una assai improbabile e comunque circoscritta “concorrenza” sul mercato nazionale. Divieti più consistenti esisterebbero in teoria nei settori dell’emittenza televisiva e dell’editoria, dove il legislatore più che alla “concorrenza” guarda alla tutela del pluralismo delle fonti di informazione. Al riguardo, è paradossale e grottesca la situazione italiana in cui il presidente dell’Autorità nazionale antitrust Tesauro, dopo un’indagine iniziata nel 2003, denuncia la posizione dominante del gruppo del presidente del consiglio (Fininvest) nel settore della raccolta pubblicitaria televisiva e gli effetti di depotenziamento della RAI operati dalla cosiddetta legge Gasparri. La denuncia e la proposta di semplice limitazione della posizione dominante non sono tenute in alcun conto dal monopolista oggetto dell’indagine dell’autorità garante della concorrenza e dal suo governo.(28) Come non ricordare a questo punto l’incredibile evento della nomina all’Antitrust di due sodali del capo del governo effettuata proprio quando l’antitrust è chiamata a vigilare sull’attuazione della legge sul conflitto d’interessi?(29)
Anche gli Antitrust più potenti e di più vecchia istituzione (come quelli degli USA e dell’UE) nulla o poco possono, ammesso che vogliano, contro la forza dei monopoli e del capitale finanziario. Possono tutt’al più tentare di assicurare la concorrenza intermonopolistica al livello più alto di concentrazione/centralizzazione dei gruppi transnazionali, come sembrerebbe indicare la recente vicenda del procedimento aperto dall’Autorità dell’UE contro la Microsoft. Tuttavia, è la stessa istituzione delle Autorità garanti della “concorrenza e del mercato” a dimostrare, se ve ne fosse ancora bisogno, l’enormità dei processi di concentrazione/centralizzazione realizzatisi a livello planetario.

Qualche breve conclusione

Alla luce di tutto quanto si è detto, è davvero difficile negare oggi che “l’imperialismo [sia]… il capitalismo giunto a quella fase di sviluppo, in cui si è formato il dominio dei monopoli e del capitale finanziario”.(30) Se si guarda poi alla definizione di imperialismo contenuta nel “saggio popolare” ci sembra non solo che abbiano piena vigenza ma che addirittura si manifestino con maggiore evidenza nella realtà capitalistica contemporanea i contrassegni dell’imperialismo di cui abbiamo finora parlato e cioè “1. la concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica; 2. la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo ’capitale finanziario’, di un’oligarchia finanziaria”.(31)
Continueremo le riflessioni sul capitalismo monopolistico proseguendo l’esame, riferito alla realtà contemporanea, degli altri contrassegni dell’imperialismo, cominciando dall’esportazione dei capitali e dalla sua importanza in confronto con l’esportazione di merci; ciò ci porterà a parlare della crisi dell’accumulazione, dell’eccedenza dei capitali e dell’indebitamento colossale di molti paesi ed aree economiche del mondo. Da qui sarà inevitabile parlare di ruolo e funzione delle istituzioni economico-finanziarie e politiche internazionali nel tempo del dominio del capitale finanziario (FMI, Banca Mondiale, WTO, OCSE, l’Onu degli ultimi due decenni, G8). Sarà necessario poi soffermarci sul significato odierno del “possesso monopolistico della superficie terrestre definitivamente ripartita“ tra ”le più grandi potenze capitalistiche”(32) e dei conflitti e delle interrelazioni tra aree monetarie imperialistiche concorrenti a livello mondiale. Si cercherà di valutare le cause e conseguenze della crisi della valuta americana a partire dal 2002 e dei gravi fattori di squilibrio rappresentati dai deficit interno ed esterno degli USA. Si cercherà inoltre di individuare i nessi tra l’insieme di questi fenomeni e la guerra, anzi, le guerre imperialistiche degli ultimi anni. Si proseguirà parlando dei grandi temi politici, della privazione dei fondamentali diritti di libertà, della fascistizzazione dei regimi politici e costituzionali, delle frequenti e devastanti mobilitazioni reazionarie di massa per sostenere le guerre, le destrutturazioni dei regimi democratici e le tante “Guantanamo”esistenti nel mondo capitalistico nella fase del “dominio dei monopoli e del capitale finanziario”. Si concluderà cercando di individuare le più durature realtà politiche, sociali ed economiche, contraddittorie all’imperialismo, che stanno emergendo dalle lotte dei popoli e dalle altre forme di resistenza antimperialista.

NOTE:

1) V.I.Lenin, “L’imperialismo fase suprema del capitalismo”, Roma, Editori Riuniti, 1973, p. 570.
2) Ivi, p. 578.
3) Ivi, p. 638.
4) Ivi, pp. 640-642.
5) Ivi, p. 643.
6) Ivi, pp. 580, 667, 582.
7) Ivi, p. 664.
8) V. Giacchè, Imperialismo e capitale finanziario, in “L’Ernesto”, n. 3 maggio/giugno 2004, p. 75.
9) Lenin, op. cit., p.603.
10) Ivi, p. 638.
11) Ivi, p. 603.
12) Ivi, rispettivamente pp. 598, 608, 615.
13) A. Pesenti, Manuale di economia politica, Editori Riuniti, 1984, p. 762.
14) V. Giacchè, art. cit., p. 71.
15) Cfr. il mio articolo “Crack: non solo Parmalat” in “L’Ernesto”, n. 2 marzo/aprile 2004, p. 47.
16) Dati elaborati da Mediobanca e riportati su Il Sole-24 ore del 10.12.2003 e del 10.01.2004
17) Si tratta di accordi che entreranno in vigore all’inizio del 2007 e che, tra l’altro, prevedono precisi rating per l’erogazione del credito dalle banche alle imprese. Tramonti, ergendosi a paladino delle piccole e medie imprese, ha criticato a più riprese il loro impianto, paventando il rischio di una restrizione del credito.
18) E’ il caso di rammentare che proprio in questi giorni il governo ha approvato un maxi-emendamento ad un suo precedente disegno di legge che prevede un trattamento di favore delle banche sull’importante questione delle revocatorie fallimentari in caso di procedure concorsuali alle quali siano assoggettate le imprese. Il fatto di dover restituire gli incassi conseguiti in un certo tempo anteriore al fallimento e/o di rinunciare a garanzie acquisite (ipoteche, ecc.) ha sempre costituito uno “spauracchio” per le banche. Se la legge, come si prevede, sarà approvata nei termini del maxi-emendamento la banche potranno dormire sonni tranquilli.
19) Per una chiara esposizione delle vicende salienti della banca “mista” o “universale” dall’inizio del sec. XX fino ai nostri giorni, cfr. V. Giacchè, art. cit., pp. 70-72.
20) “L’esperienza ci dice che la banca pigliatutto“ affermava l’ex presidente di Mediobanca, ex ministro ed attuale deputato della Margherita Antonio Maccanico, “crea più problemi di quanti ne risolva […]. La banca universale è all’origine di molti conflitti di interesse e della sovrapposizione tra banca commerciale e banca d’affari. E’ da valutare se non sia il caso di tornare alla separazione tra credito a breve e credito a lungo termine. So benissimo che la banca universale non è un’invenzione italiana, ma non mi pare che anche altrove abbia dato buona prova di sé: basta vedere cosa sta succedendo in America, dove qualcuno comincia ad avere dubbi sulla liberalizzazione bancaria e sulla confusione dei ruoli (Il Sole-24 Ore del 24.01.2004). Sulla stessa linea si muoveva Franco Bernabè, ex amministratore delegato di Telecom ed Eni, secondo il quale lo scandalo Parmalat “ è il frutto del conflitto d’interesse nato da una liberalizzazione che ha portato alle banche tuttofare e che sta creando problemi anche da noi, dove sarebbe ora di superare anche per legge la banca universale tornando alla specializzazione degli istituti (Il Sole-24 Ore del 10.01.2004). Cfr. inoltre il mio art. cit., pp. 49-50.
21) Lenin, op. cit., p. 668.
22) Giacchè, art, cit. p. 74-75.
23) Marx, III, cap. 27.
24) Il Manifesto, 26.11.2004.
25) Si tratta di gruppi che riuniscono in sé le funzioni di banca, di società finanziaria e di società assicuratrice.
26) Lenin, op. cit., p. 604.
27) Il Sole-24 Ore del 7.12.2004.
28) Il Manifesto, 27.11.2004.
29) La stessa stampa padronale è scandalizzata dall’evento (cfr. Il Sole-24Ore del 31.12.2004).
30) Lenin, op. cit., p.639.
31) Ivi, pp. 638-9.
32) Ivi, pp. 638-9.


Firenze, 15 gennaio 2005

Raffaele Picarelli

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