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Socialismo e comunismo

Logomachìe dei giorni nostri

(17 Gennaio 2005)

Quando si discute usando gli stessi termini ma in sensi differenti, si ha una logomachìa. Una delle maggiori, e peggiori, logomachie politiche è quando si parla di "socialismo" e di "comunismo". Credo che pochi termini siano (stati) usati così a sproposito, sia da parte di chi si schiera contro, sia da parte di chi ne fa una bandiera.

Pertanto, per prima cosa ci tocca definire, cioè riassumere col minor numero di parole il senso dei termini che sono stati usati milioni, forse miliardi di volte, ma con significati mutevoli a seconda di chi li ha usati.

Il "socialismo" indica la transizione rivoluzionaria dal capitalismo al comunismo, cioè una società in cui, socializzati i grandi mezzi di produzione e attuata la piena occupazione ("chi non lavora, non mangia"), vige il principio "a ciascuno secondo il suo lavoro".

Il "comunismo" è la fase successiva al socialismo, nella quale, soppresse ormai le classi sociali e scomparso il contrasto di lavoro intellettuale e fisico, lo Stato si estingue e il principio regolatore diventa: "da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni".

Il socialismo si caratterizza, pertanto, quale società rivoluzionaria e transitoria, non confinabile - pena soffocamento - entro i confini di un paese. Il comunismo, a maggior ragione, è (meglio sarà, si spera) un modo di produzione mondiale.

Prima implicazione logico-storica di queste precisazioni. Tutte le esperienze storiche che si richiamano alla mente quando si pronunciano i termini "socialismo" e "comunismo", in realtà possono riferirsi solo ed esclusivamente al primo di essi, al socialismo.

Seconda implicazione. Le "migliori" di queste esperienze possono al massimo essere considerate tentativi di costruzione del socialismo. Per esempio, la Comune di Parigi del 1871 è stato il primo di questi tentativi, abortito sul nascere da una contro-rivoluzione immediata e spietata. La rivoluzione russa è stato il tentativo più prolungato nel tempo (1917-1924), conclusosi col sopravvento, all'interno del partito bolscevico, delle forze dell'accumulazione capitalistica (Stalin) su quelle rivoluzionarie (Trotzki, Bucharin, ecc.; Lenin morirà nel 1924), giustificata dalla teoria del "socialismo in un solo paese".

Nella stragrande maggioranza delle discussioni, anzi logomachìe, in cui vengono usati i predetti termini , gli interlocutori non solo non si accordano preventivamente sul loro significato, ma neppure si premurano di controllare di cosa stiano effettivamente discutendo.

Pertanto, assistiamo, anche da parte di eminenti professori e conoscitori del marxismo libresco, a continui cerimoniali funebri del "comunismo": cioè di una società che sarebbe morta senza neppure essere mai venuta alla luce! Una "civiltà sepolta" ... prima (ancora) di essere mai esistita!

Come si è già precisato, si può parlare, finora, solo di tentativi storici di costruzione del socialismo. Ma appare chiaro, per chi conosce un minimo di storia e di attualità, visto che non sono le parole che contano bensì i fatti, che gli unici due esempi storici in tal senso sono i due prima citati (Comune di Parigi, rivoluzione d'ottobre).

Lo "stalinismo", la Russia dell'industrializzazione forzata, dello sterminio di milioni di contadini, della stessa vecchia guardia bolscevica, dei gulag, ecc. non è la tomba nè del socialismo nè tanto meno del comunismo; ma rappresentano il sopravvento della contro-rivoluzione e del capitalismo di Stato sull'esperimento più radicale e coraggioso di instaurazione del socialismo, in un paese arretrato e rimasto, purtroppo, isolato. La caduta del muro di Berlino del 1989, il crollo dell'impero russo, costituiscono la premessa indispensabile per una ripresa della marcia mondiale della rivoluzione socialista.

E la Cina di Mao, allora? Anche qui bisogna conoscere un minimo di storia, per non parlare a vanvera. I veri tentativi rivoluzionari e socialisti ci sono stati in varie città cinesi negli anni tra il 1925 e il 1927, tutti stroncati sul nascere nel sangue. Il movimento contadino, capeggiato da Mao Tse Tung, prese avvio nel 1928, partendo appunto dalle campagne, come movimento di lotta nazionale contro l'invasore giapponese. Attraverso epiche vicende (ma non solo), tra cui la leggendaria "lunga marcia" (1934-35), riuscì a cacciare i giapponesi, profittando anche della loro sconfitta nella II guerra mondiale. Nel 1949 si costituì la Repubblica popolare cinese, basata su una "democrazia di tipo nuovo" e sul blocco delle quattro classi (contadini, operai, industriali, commercianti). Come si palesa dal nome stesso ("popolare"), non si è mai trattato di una repubblica socialista, nonostante lo sfoggio da parte di Mao e dei suoi seguaci di una fraseologia pseudo-rivoluzionaria. La storia successiva reitera, sotto altre forme, le vicende drammatiche dell'accumulazione capitalistica russa, col corredo di milioni di morti nelle campagne e di epurazioni continue ai vertici del partito e dello Stato, ma senza essere mai passati, neppure per un giorno, per l'anticamera del socialismo. La Cina di oggi si presenta, sul mercato interno, con le note "aperture" alla proprietà privata (che non è mai stata abolita) e al liberismo economico (leggi: super-sfruttamento inaudito della manodopera); e sul piano esterno, come il concorrente imperialista più temibile per l'egemonia calante degli Usa.

Come si spiega, per inciso, il passaggio alle "regole del mercato" sia in Russia sia in Cina, dopo decenni di ferreo "dirigismo" statale? In entrambe i casi, fatte le debite distinzioni, il capitalismo di Stato, una volta esauriti i suoi compiti di leva dell' accumulazione originaria e favorito il decollo industriale, con il conseguente sviluppo monopolistico dell'economia, doveva far posto al capitalismo monopolistico di Stato, cioè allo Stato della socializzazione dei costi e della privatizzazione dei profitti che cominciavano a sgorgare imponenti (petrolio russo e acciaio cinese). Questa è la vera natura del passaggio dal "dirigismo" al "liberismo". Quindi, nulla a che vedere coi problemi del socialismo, bensì con quelli di modi di produzione capitalistici simili a quelli occidentali, sui quali si erano erette formazioni sociali con tratti peculiari e, tra loro, con destini divergenti: mentre la Russia retrocedeva, a causa dell'autonomizzazione dei centri di accumulazione periferici del suo impero; la Cina avanzava impetuosamente, avendo mantenuto intatta l'unità economica nazionale, grazie al più colossale meccanismo di sfruttamento della forza-lavoro (e di estrazione di plusvalore assoluto) mai visto finora nella storia del capitalismo (al cui cospetto gli orrori della "rivoluzione industriale" inglese impallidiscono).

Per gli altri, residui, casi di "socialismo mal invocato" (Cuba, Corea del nord, ecc.), lasciamo ai lettori lo sforzo di studiarsi semplicemente la storia e la realtà economico-sociale di questi paesi e di verificare le enunciazioni verbali dei loro leader alla luce dei principi del socialismo riassunti in premessa. A meno che (ci si passi la battuta pesante) non si voglia confondere il socialismo (delle donne?) col turismo sessuale ... Fermo restando che, ovviamente, ciò chiarito, saremo sempre dalla parte di Cuba e di ogni altro paese oppresso nei confronti degli Usa e di ogni altro imperialismo.

Per concludere. Il socialismo, come prima tappa per il comunismo, per due volte si è provato sul serio ad attuarlo (prescindendo dalle rivoluzioni stroncate sul nascere); altre volte lo si è contrabbandato per invogliare le masse a ingoiare la pillola amara di colossali e tragiche accumulazioni originarie sotto l'egida di capitalismi di Stato. La storia delle rivoluzioni non è di certo finita. Anzi, si può dire che il "bello" deve ancora cominciare: è finita l'epoca del socialismo tradito e pugnalato. Si è aperta l'epoca della rivoluzione socialista mondiale, come movimento reale verso il comunismo.
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Bibliografia minima

- Marx: Critica del programma di Gotha
- Engels: Lettera a Bebel (18-28 marzo 1875)
- Lenin: Stato e rivoluzione

s.b.

Fonte

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