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ATTUALITA’: L’IMPORTANZA DEI SISTEMI ELETTORALI

(23 Gennaio 2014)

sartori

Giovanni Sartori

Infuria, in Italia, il dibattito sulla riforma del sistema elettorale.
Un dibattito che, francamente, pare proprio si stia sviluppando “a vela” (come si diceva una volta) rivelando la consueta incapacità dei protagonisti del sistema politico a ragionare – appunto – in termini sistemici e non, come sta di nuovo accadendo, nella dimensione di un opportunismo di cortissimo respiro.
Tanto più che questo dibattito si è attorcigliato attorno ad una proposta, quella scaturita dall’incontro Berlusconi/Renzi, al riguardo della quale è facile prevedere come non assolva ai dettami della Corte Costituzionale, elaborati nell’occasione della bocciatura della legge elettorale precedente.
Appare allora il caso di riflettere sul punto di partenza di questa discussione, sviluppando una possibile risposta a quella che dovrebbe essere la domanda di fondo: quanto sono importanti i sistemi elettorali nel funzionamento di un sistema politico?
L’importanza dei sistemi elettorali è stata a lungo sottovalutata.
Gran parte degli studiosi ha sostenuto che essi non costituiscono una variabile indipendente e che i loro effetti sono, al massimo incerti: da questa sottovalutazione, che non fu compiuta però – per quel che riguarda l’Italia – in sede di Assemblea Costituente, sono derivate elaborazioni episodiche, attagliate all’interesse del momento, prive proprio di “respiro sistemico” com’è stato nel caso del sistema misto proporzionale/maggioritario adottato tra il 1993 e il 2001, il proporzionale con abnorme premio di maggioranza (2005-2013), l’introduzione dello sbarramento al 4% nell’occasione delle elezioni europee 2009, l’infausta elezione diretta con listino bloccato al seguito dei Presidenti di Regione (questa proprio una vera sciagura, che non ha garantito la governabilità e ha causato una vera e propria “escalation” della questione morale).
L’assunto principale attorno al quale sviluppare un ragionamento di merito è quello che una volta insediati i sistemi elettorali diventano fattori “causanti” che producono, a loro volta, conseguenze (proprio per il principio della “non neutralità”).
Se poi i sistemi elettorali producessero conseguenze di poco conto, perché mai i politici ne farebbero oggetto di aspre battaglie? E perché i riformatori lotterebbero con accanimento per cambiarli? Molto rumore per nulla?
Esiste una tesi secondo la quale, pur riconoscendone l’importanza, ritiene che le discussioni in materia di sistema elettorale alla fine “simulano una libertà di scelta che, in effetti, non esiste” (Katz 1980).
Gli studiosi possono fare poco per contrastare gli interessi personali dei politici, salvo dimostrare che tali interessi sono male intesi: questo fatto però non si sta verificando nel “caso italiano” laddove, invece, si sta procedendo esattamente in senso inverso.
Torniamo, però, alla domanda iniziale sviluppandola con maggiore ampiezza: che cosa fanno i sistemi elettorali e cioè quali sono i loro effetti e su cosa? Qualunque ne sia la causa, che cosa provocano?
Duverger, che è stato il primo autore ad affrontare queste questioni, formulò due leggi seguenti: primo “il sistema maggioritario” a un turno tende al “dualismo tra i partiti”, e secondo il sistema maggioritario a doppio turno e la rappresentanza proporzionale tendono al multipartitismo (è bene ricordare che Duverger non definì questi punti come “leggi”, ma si limitò a denominarli come “schemi” o “formule”).
Difatti si è concordato, ormai che “la maggior parte delle relazioni tra sistemi elettorali e sistemi dei partiti e il processo di cambiamento sociale sono tali da non poter essere riassunte in leggi scientifiche”.
Lo studio comparato dei sistemi elettorali e dei sistemi politici (da cui deriva l’imitazione del modello spagnolo o di quello tedesco o di quello francese, tanto per fare degli esempi) si rivela, probabilmente, più utile nell’illuminare ciò che è unico, piuttosto che nel produrre generalizzazioni.
A smentita quindi della faciloneria con la quale, in particolare negli anni scorsi, si è parlato di avvicinarci ai modelli delle “democrazie occidentali avanzate” trascurando tra l’altro il fenomeno, negativo in sé, del calo della partecipazione al voto scivolato, nel corso degli ultimi 20 anni, di circa 20 punti all’indietro (dal 90% al 70% se non meno).
I sistemi elettorali hanno, dunque, un duplice effetto: uno sull’elettore, e uno sul numero dei partiti.
Questi effetti devono essere valutati separatamente perché il numero dei partiti non deriva solamente dal comportamento degli elettori, ma anche da come i loro voti sono trasformati in seggi parlamentari.
L’effetto sugli elettori può essere definito come coercitivo, attraverso un sistema maggioritario di tipo “frenante”, quale quello attualmente in discussione in Italia, nel corso del quale pare si voglia ammettere in Parlamento soltanto i partiti considerati “rilevanti”.
In questo senso si pone allora una domanda: come s’individuano questi partiti?
La risposta ci viene da Giovanni Sartori (1976):
1) Un partito può essere considerato superfluo (quindi non rilevante) ed essere escluso dal computo quando non appare mai come necessario per essere utilizzato in una possibile coalizione di maggioranza. Viceversa, un partito minore deve essere contato, per quanto piccolo, se può determinare, almeno nei tempi lunghi, una delle possibili maggioranze governative (per questo motivo, nel 1948, fu confermata la legge elettorale proporzionale già usata nel 1946 per l’Assemblea Costituente). Ma questa regola ha un’importante variante;
2) Occorre però anche una supplementare indicazione di una regola più ampia che riguarda il computo riservato ai partiti di opposizione permanente o comunque ideologicamente incompatibili.
Nella sostanza, per le regole individuate da Sartori è necessaria, per la funzionalità del sistema, la presenza dell’opposizione non semplicemente per via dell’alternanza bipartitica e quella del complesso dello spettro ideologico presente, con una certa consistenza, nell’intera società.
Insomma non tutto, per far funzionare il sistema elettorale, deve essere “reductio ad unum” nel senso della governabilità intesa quasi come un “assoluto”.
Su questa base di ragionamento si può esprimere la convinzione che, a sinistra, possa essere portata avanti una battaglia per un sistema pluralista, contrastando con argomentazioni serie la deriva autoritaria che sta avanzando paurosamente sull’onda di - questo sì – un populismo di bassa lega, fondato sull’idea del plebiscito (chi ha messo in moto il carro della cosiddette “primarie” nel contesto italiano dovrebbe cercare di riflettere, al meglio).
Tanto più che è possibile e anzi necessario, sul piano teorico, collegare un sistema elettorale di impianto “pluralista” con un’idea di sistema politico “strutturato”.
Cosa si può intendere per sistema politico “strutturato”? Quali condizioni portano a un sistema politico “forte”?
Finché l’elettore vota per una qualche sorta di “capo” (e qui sta l’errore che non dovremo stancarci di sottolineare delle “primarie”) o di notabile locale (vedi collegi uninominali proprio oggi rivendicati da Panebianco sul “Corriere della Sera”), nel solco del “personalismo” i partiti rimangono etichette di poco o nessun conto.
E fino a quando prevalgono queste condizioni, il sistema partitico non è strutturato.
E’ necessario però, come sostiene sempre il prof. Sartori (Ingegneria costituzionale comparata. Il Mulino V edizione 2004) che i partiti non siano entità astratte o semplici meccanismi di “canalizzazione”.
Torna qui, in conclusione, il tema dei partiti a integrazione di massa: un tema al riguardo del quale andrebbe ripresa una discussione a sinistra che invece, regolarmente, a ogni squillar di tromba elettorale s’incentra sul “nome” da candidare: da Ingroia a Tsipras il passo verso il disastro è sempre più breve.

Franco Astengo

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