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Il futuro delle aziende pubbliche non è negli indici di Borsa

(25 Gennaio 2014)

Neoliberismo. Il taglio al debito pubblico è solo l’alibi –lo shock teorizzato da Milton Friedman- per permettere la privatizzazione di un servizio pubblico universale

futuroindice

Dopo aver ver­sato, per non più di un minuto, lacrime di coc­co­drillo sui dati della disu­gua­glianza sociale nel pia­neta, for­niti dal rap­porto della ong Oxfam – le 85 per­sone più ric­che del mondo deten­gono una ric­chezza equi­va­lente a quella di 3,5 miliardi di per­sone; l’1% del pia­neta pos­siede il 50% della ric­chezza mon­diale– il mini­stro Sac­co­manni, pre­sente all’annuale Forum di Davos, è pas­sato alle cose serie e, in un incon­tro con i grandi inve­sti­tori stra­nieri, ha annun­ciato l’avvio dell’ennesimo piano di pri­va­tiz­za­zioni, con in testa le Poste Italiane.

Senza senso del ridi­colo, è riu­scito a dire che l’operazione, che pre­vede, per ora, la messa sul mer­cato del 40% del capi­tale sociale di Poste, com­por­terà un’entrata di almeno 4 miliardi da desti­nare alla ridu­zione del debito pub­blico. Anche ai più sprov­ve­duti credo risulti chiara l’inversione del con­te­sto: Sac­co­manni dice di voler pri­va­tiz­zare le Poste per ridurre il debito pub­blico, men­tre è evi­dente come il debito pub­blico sia solo l’alibi –lo shock teo­riz­zato da Mil­ton Fried­man– per per­met­tere la pri­va­tiz­za­zione di un ser­vi­zio pub­blico universale.

Bastano due sem­plici ope­ra­zioni di mate­ma­tica: la ven­dita del 40% di Poste Ita­liane por­te­rebbe il debito pub­blico da 2.068 a 2.064 miliardi, con un entrata una tan­tum non ripro­du­ci­bile, e nel con­tempo eli­mi­ne­rebbe un’entrata annuale sta­bile di almeno 400 milioni/anno (essendo l’utile di Poste Ita­liane pari a 1 mld). Ma, ovvia­mente, non c’è dato che conti quando l’obiettivo è quello di dichia­rare una vera e pro­pria guerra alla società, attra­verso la pro­gres­siva spo­lia­zione di diritti, beni comuni, ser­vizi pub­blici e demo­cra­zia, all’unico scopo di favo­rire l’espansione dei mer­cati finanziari.

E, d’altronde, la messa sul mer­cato del 40% di Poste è la natu­rale pro­se­cu­zione di un pro­cesso di tra­sfor­ma­zione del ser­vi­zio, in corso già da quando l’azienda dello Stato è diven­tata una SpA : da allora abbiamo assi­stito a più riprese –tutte avval­late dagli accordi sot­to­scritti da Cgil, Cisl e Uil di cate­go­ria– al pro­gres­sivo sman­tel­la­mento del ser­vi­zio postale uni­ver­sale, con rela­tivo attacco alle sue pre­ro­ga­tive di uni­for­mità di ser­vi­zio su tutto il ter­ri­to­rio nazio­nale, di tariffe con­te­nute e di sod­di­sfa­cente qua­lità del reca­pito. Ciò che si vuole per­se­guire, con la defi­ni­tiva pri­va­tiz­za­zione, è lo sman­tel­la­mento della fun­zione sociale di Poste Ita­liane, attra­verso la sepa­ra­zione di Banco Posta dal ser­vi­zio di reca­pito, tra­sfor­mando il primo –già oggi ricet­ta­colo di mol­te­plici atti­vità finan­zia­rie– in una vera e pro­pria banca e met­tendo sul mer­cato il secondo.

Con la natu­rale con­se­guenza che i ser­vizi postali saranno garan­titi da una miriade di sog­getti pri­vati, solo lad­dove ade­gua­ta­mente remu­ne­ra­tivi (grandi città e grandi utenti) e sman­tel­lati, o a carico della col­let­ti­vità con aumento incon­trol­lato dei costi, in ogni ter­ri­to­rio dove il rap­porto servizio/redditività non sarà con­si­de­rato ade­guato. Senza con­tare il fatto che, con que­sta ope­ra­zione, anche tutta la fun­zione di rac­colta del rispar­mio dei cit­ta­dini, oggi svolta dagli oltre 13 mila uffici postali, che con­vo­gliano il denaro rac­colto a Cassa Depo­siti e Pre­stiti, ver­rebbe messa a rischio o pro­fon­da­mente trasformata.

Stiamo già sen­tendo le con­suete sirene ideo­lo­gi­che di accom­pa­gna­mento : la ven­dita del 40% non intac­cherà il con­trollo pub­blico, men­tre nel capi­tale sociale ver­ranno coin­volti i lavo­ra­tori e i cit­ta­dini rispar­mia­tori, in una sorta di azio­na­riato popo­lare e democratico.

Credo che tre decenni di pri­va­tiz­za­zioni abbiano già for­nito gli ele­menti per con­fu­tare entrambe le tesi : l’entrata dei pri­vati nel capi­tale sociale di un’azienda pub­blica ha sem­pre e ine­vi­ta­bil­mente com­por­tato la tra­sfor­ma­zione della parte pub­blica in sog­getto fina­liz­zato all’unico obiet­tivo del pro­fitto; l’azionariato dif­fuso tra lavo­ra­tori e cit­ta­dini, aldilà delle favole sulla demo­cra­zia eco­no­mica, è sem­pre ser­vito a immet­tere denaro nell’azienda, per­met­tendo agli azio­ni­sti mag­giori –i poteri forti– di poterla pos­se­dere senza fare nem­meno lo sforzo di doverla comprare.

Ogni sman­tel­la­mento di un ser­vi­zio pub­blico uni­ver­sale con­se­gna tutte e tutti noi all’orizzonte della soli­tu­dine com­pe­ti­tiva: cia­scuno da solo sul mer­cato in diretta com­pe­ti­zione con l’altro. Opporsi alle pri­va­tiz­za­zioni, oltre a fer­mare i pro­cessi di finan­zia­riz­za­zione della società, con­sente di ria­prire lo spa­zio pub­blico dei beni comuni e di un altro modello sociale. Per­ché il futuro è una cosa troppo seria per affi­darlo agli indici di Borsa.

Pubblicato su "Il manifesto" del 25/01/2014

Marco Bersani - Attac Italia

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