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TRENT’ANNI FA IL DECRETO DI SAN VALENTINO: ATTACCO AL MOVIMENTO OPERAIO E PRIMO ATTO DELL’IPERLIBERISMO IN ITALIA

(5 Febbraio 2014)

14 Febbraio 1984, San Valentino: Gianni De Michelis, ministro del Lavoro del governo Craxi, emana un decreto nel quale è adottato il taglio di quattro punti della scala mobile, lo strumento che all’epoca consentiva di adeguare i salari e gli stipendi al tasso d’inflazione.
Seguiranno più avanti, nel corso di questo lavoro, considerazioni d carattere economico e politico maggiormente approfondite anche sul piano della rievocazione storica.
In principio però può essere concesso un giudizio di carattere generale: quel decreto rappresentò un punto
di svolta nell’attacco al movimento operaio, attacco che pure si era già concretizzato negli anni precedenti ad esempio attraverso la vicenda dei 35 giorni della Fiat nell’autunno del 1980 e la cosiddetta “marcia dei quarantamila”.
Il decreto sulla scala mobile significò, invece, la prima applicazione concreta in Italia delle teorie dell’iperliberismo che già negli Stati Uniti avevano avuto applicazione con la “reaganomics” nella fine degli anni’70 e in Gran Bretagna attraverso lo scontro furioso tra il governo di Margaret Tachter e il sindacato dei minatori.
Si apriva così un ciclo assolutamente distruttivo per le idee di eguaglianza e per le condizioni materiali di vita dei ceti più deboli, almeno in Occidente, dentro al quale ci stiamo trovando ancora adesso, accusando un pauroso arretramento anche sul piano politico – culturale.
La scala mobile, oggi riscoperta addirittura dal presidente USA Obama, rappresentava, infatti, nel concreto, un elemento non solo di difesa del salario ma di vera e propria affermazione di un potere da parte del mondo del lavoro.
Sicuramente vivevamo in tempi diversi dagli attuali, quando la presenza dell’industria e quindi delle grandi concentrazioni operaie era ancora forte e quindi la capacità di contrattazione altrettanto elevata
All’inizio degli anni ’80, a fronte del mutare delle condizioni economiche con l’elevarsi dell’inflazione, la crescita del debito pubblico in maniera esponenziale (siamo agli inizi del pentapartito), la crisi delle partecipazioni statali, l’avviarsi del progetto di divisione del sindacato del resto contenuto nello stesso documento di “Rinascita Nazionale” elaborato dalla P2 nel 1975, si avviò un’intensa campagna ideologica contro l’istituto dell’adeguamento salariale al tasso d’inflazione, accusato – ingiustamente – di essere parte della crescita esponenziale del fenomeno inflattivo stesso, di “schiacciare” in una dimensione eccessivamente egualitaria i salari, di togliere spazio alla contrattazione.
All’inizio del 1983 ci fu un primo “lodo Scotti” di sterilizzazione dei punti. Poi arrivò – appunto -il giorno di San Valentino, 14 Febbraio, del 1984 il decreto del ministro del lavoro De Michelis che tagliò di netto quattro punti.
La reazione fu fortissima, con scioperi e iniziative sindacali molto importanti, culminata nel Marzo in un’enorme manifestazione a Roma: CISL e UIL si dissociarono immediatamente, così come la componente socialista della CGIL.
In parlamento PCI, PdUP e DP arrivarono all’ostruzionismo, facendo decadere, in una prima istanza il decreto poi reiterato.
Intanto fatti politici molto importanti stavano accadendo: il principale dei quali fu rappresentato dall’improvvisa scomparsa del segretario generale del PCI Enrico Berlinguer.
Berlinguer aveva annunciato poco tempo prima di morire che sarebbero state raccolte le firme per un referendum abrogativo del decreto di San Valentino.
Il nuovo segretario del PCI, Alessandro Natta, tenne fede all’impegno, ma nel partito e nella stessa componente comunista della CGIL emersero crepe e divisioni, alimentate soprattutto dalla corrente “migliorista” di Napolitano e Lama, che pensava a una trattativa considerando lo strumento della scala mobile ormai obsoleto e frenante in una fase di evidente espansione dell’economia: un errore terribile perché con quel tipo di posizione si smantellava un indispensabile oggetto di difesa delle condizioni materiali di vita delle lavoratrici e dei lavoratori ma, soprattutto, perché non c’era alle viste alcuna fase di espansione dell’economia, drogata da un innalzamento fuori misura della spesa pubblica, comprensiva di un enorme tasso di corruzione, come avremmo poi visto in Tangentopoli e soprattutto nella sparizione definitiva, nel giro di pochi anni, del sistema delle PPSS e di conseguenza delle parti più vitali dell’industria e dell’intera economia del Paese.
Il referendum svoltosi nel giugno del 1985 fu poi perduto pur con il 46% dei voti, vedendo schierati a favore soltanto il PCI, il PdUP, DP e la componente comunista della CGIL.
Da allora iniziò una fase di declino che culminò, dal punto di vista dell’argomento di cui si sta parlando, con la maxi-manovra da 92.000 miliardi attuata dal governo Amato nel giugno del 1993, laddove ciò che era rimasto della scala mobile sparì definitivamente: la bufera di “Mani Pulite” era nel suo pieno, era caduto il Muro di Berlino, era stato firmato il trattato di Maastricht, il debito pubblico italiano stava toccando vette giudicate allora altissime e che, oggi, dagli iper-liberisti che ci governano forse considerate accettabili.
Una brevissima ricostruzione storica, a uso della memoria di molti, per segnalare come la situazione di oggi, di totale inadeguatezza di salari e stipendi rispetto alla crescita del costo della vita, sia conseguenza di quella vicenda.
E’ il caso, però, di allargare il discorso all’identità del sindacato proprio mentre si sta svolgendo in maniera un po’ misteriosa il congresso della CGIL.
Non è possibile, naturalmente,sviluppare in questa sede la storia del sindacato italiano, la sua nascita parallela (a differenza di altre situazioni in Europa) alla formazione dei grandi partiti socialisti di massa, al fatto che accanto alle rivendicazioni puramente sindacali si situassero, sullo stesso terreno di lotta, le rivendicazioni di tipo politico: la libertà d'associazione, la libertà di stampa, l'allargamento del suffragio (quanti ricordano che, al momento della proclamazione del Regno d'Italia il diritto di voto era riservato a meno del 2% dei cittadini, in un paese con l'analfabetismo all'80% ?).
Poi, nel secondo dopoguerra, le diverse fasi della rottura e del recupero dell'unità sindacale, le grandi battaglie degli anni'50 in difesa delle fabbriche nella tormentata temperie della riconversione dell'industria bellica e dell'intervento pubblico, poi il “boom”, il consumismo (elemento sul quale andrebbe aperta una riflessione sincera e spregiudicata), la migrazione biblica dal Nord al Sud, l'avanzamento sociale, l'allargamento del terreno dei diritti.
Quale può essere, allora, il senso di questa estrema sintesi di ricostruzione storica?
Si tratta di ricordare, prendendo spunto proprio dalla vicenda dell’attacco alla scala mobile, i pilastri su cui poggiava il sindacato italiano: non perché oggi si possa recuperare quella realtà, ma come punto di riferimento, nozione di idea-guida, tentativo di mostrare, partendo dal passato, un possibile campo di scelta.
Il primo elemento che è necessario sottolineare è quello dei collegamenti internazionali: oggi sono richiamate “convenzioni internazionali” sui diritti, strumenti sicuramente importanti ma nella maggior parte disattesi. Il punto risiede, invece, nella necessità di ripresa e sviluppo di organizzazioni sindacali che, attorno al nodo della realtà economica e produttiva dell'Europa di fronte alla crisi, si muovano unitariamente in una dimensione transnazionale. Chiedo, allora ad esempio, a quanti sicuramente conoscono la situazione meglio di me: come sta la CISL internazionale (cui anche la CGIL italiana aderì nel momento della chiusura dell'esperienza della FSM)?
Posta questa domanda, si possono elencare quelli che devono essere definiti come i punti nodali:
1) Il Contratto Collettivo nazionale di categoria: lo smantellamento di questo istituto ha rappresentato, prima ancora che sul piano normativo ed economico, il punto esiziale per il riconoscimento di un sindacato nazionale che ha, sempre e comunque, la sua ragion d'essere; il decentramento sotto questo aspetto, che pure poteva rappresentare parzialmente un momento di grande interesse nello sviluppo di vertenze d'azienda e territoriali, non doveva sostituire il momento fondamentale di un sindacato unitario come quello rappresentato dal contratto collettivo nazionale di categoria;
2) La scala mobile. Oggi, a distanza di tanti anni, ho cercato di dimostrare come si debba credo comprendere meglio il valore di quella battaglia perduta;
3) La rappresentanza di tipo “consiliare” all'interno dei luoghi di lavoro. Senza alcun accento nostalgico (di cui pure ci potrebbe essere ragione) è necessario ricordare come l'unità sindacale possa poggiare soltanto su di un’unità di base che i “consigli” erano in grado di assicurare, pur dentro ad un dibattito acceso, non unanimistico, che rifiutava – ed è questo un altro punto decisivo- il neo corporativismo e lo straccio della “concertazione” (Concertazione da distinguere bene dalla politica dei redditi).
Il tentativo è quello di recuperare una pagina di storia di tempi diversi da quelli che stiamo vivendo, ma sicuramente molto utile per riflettere, se possibile collettivamente anche sull’oggi.

Franco Astengo

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