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(1 Febbraio 2005)
Alle cinque del pomeriggio di domenica (le quindici ora italiana), si sono chiuse le urne per le elezioni in Iraq. I primi incespicamenti sono cominciati proprio sui dati dell’affluenza alle urne. Una settimana prima del 30 gennaio, il presidente statunitense Bush aveva profetizzato in una conferenza stampa che l’affluenza sarebbe stata del 72%, ed effettivamente per almeno due ore e mezzo, le agenzie internazionali e le televisioni di domenica 30 gennaio hanno tenuto bordone alla profezia di Bush, passando per buono il dato del 72%. Nel primo pomeriggio il nuovo segretario di stato americano Condoleeza Rice dichiarava che le cose stavano andando meglio del previsto. Intorno alle 17.00 (ora italiana) la Commissione elettorale irachena doveva smentirsi rivelando che l’affluenza era…del 60% e che quella del 72% era una stima (essendo una stima annunciata da Bush era diventata una verità). Ma le agenzie di stampa e i colonnini delle televisioni continuavano a mantenere in evidenza la dichiarazione di Condoleeza Rice di tre ore prima secondo cui “le cose stanno andando meglio del previsto”.
Ed i risultati elettorali? I primi si sapranno dopo una settimana, i definitivi dopo dieci giorni. Motivo? La sicurezza ovviamente, lo stesso motivo per cui la gente doveva votare candidati anonimi in quanto non erano scritti sulle liste. Ma in Iraq c’erano osservatori internazionali? Si, c’erano tra i 19 e i 25 funzionari delle Nazioni Unite coordinati dal rappresentante Carlos Valenzuela integrati in una squadra di 50 esperti internazionali delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni (tra cui il famigerato International Crisis Group creato da George Soros). Ma anche i funzionari delle Nazioni Unite non si sono sottratti alle gaffe sulla valutazione dell’affluenza al voto, infatti per ore hanno tenuto bordone alla versione del 72%, dopodichè devono essersi resi conto che la cosa non era gestibile.
Per le elezioni in Iraq gli aventi diritto erano circa 14.200.000 a cui vanno aggiunti circa 1.200.00 iracheni residenti all’estero. Di questi ultimi si sono registrati per votare meno del 25% (circa 280.000) , il numero più alto di iracheni all’estero registratisi è in Iran, il più basso in Francia e Turchia. Il 60% di affluenza alle urne dichiarato in Iraq, è un dato “assai dilatato” perché se sono otto milioni gli iracheni che sono andati a votare, ne mancherebbero - per far quadrare il dato dichiarato- più di mezzo milione, altrimenti il dato scenderebbe di almeno 6 punti percentuali, il che si avvicina alle più realistiche previsioni fatte dalla IECI (la Commissione Elettorale Indipendente Irachena) che parlavano di un 50% di affluenza.
Gli osservatori confermano che nelle città delle province centrali sunnite i seggi erano deserti, ma che anche nel sud sciita o nei quartieri sciiti di Bagdad l’affluenza non è stata così massiccia. Alle elezioni hanno dunque partecipato praticamente solo i kurdi (che hanno votato massicciamente) e circa la metà degli sciiti. Al boicottaggio delle elezioni non avevano chiamato solo le forze che animano la resistenza armata, ma anche coalizioni di forze politiche interetniche ed interreligiose come l’Iraqi National Foundation Congress composto da personalità e da una trentina di partiti; il leader sciita Moqtada Al Sadr ed intellettuali laici che avevano firmato la dichiarazione promossa da Mussa Al Husseini. Si tratta di settori importanti della società irachena.
Elezioni-vetrina. A dicembre si vota di nuovo.
Queste elezioni sono servite per eleggere due istanze a livello iracheno e tre a livello delle province kurde:
1) l’Assemblea Nazionale di transizione composta da 275 membri che funzionerà da parlamento fino allo svolgimento di elezioni per un organo permanente;
2) I consigli regionali delle 18 province irachene, composti da 41 membri ciascuno, tranne Bagdad che deve eleggerne 51
3) L’Assemblea Nazionale del Kurdistan solo per le tre province del Nord Iraq composta da 111 membri.
Una volta eletta, l’Assemblea nazionale dovrà scegliere un presidente e due vicepresidenti che daranno vita al Consiglio di Presidenza che a sua volta nominerà il primo Ministro e i componenti del governo. Inoltre l’Assemblea Nazionale dovrà stendere entro il 15 agosto 2005 una Costituzione che dovrebbe essere approvata con un referendum da tenersi entro il 15 ottobre di quest’anno. Se la Costituzione verrà approvata, nel dicembre 2005 si terranno nuove elezioni per il governo vero e proprio. Di fatto, queste elezioni per la maggioranza degli iracheni sono state più una vetrina internazionale ad uso e consumo dell’occupazione militare della coalizione guidata dagli USA che un dato sostanziale (infatti a dicembre si dovrebbe votare di nuovo per il governo). Gli unici che hanno preso seriamente la vicenda sono i due partiti kurdi (PDK e UPK) che puntano al controllo totale delle tre province del Nord, inclusa quella di Kirkuk dove i kurdi non sono proprio maggioritari ma che è decisiva per mettere le mani sul petrolio. In questa provincia, oltre alle minacce della Turchia, cominciano a pesare le preoccupazioni per l’ondata di pulizia etnica messa in opera dalle milizie kurde con l’obiettivo di “de-arabizzare” Kirkuk e stringere la minoranza turcomanna (che ha però il sostegno della Turchia). Se le cose dovessero precipitare in Iraq, lo spettro della secessione kurda nel nord (con il pieno appoggio di USA e Israele e l'aperta ostilità della Turchia) diventerebbe realtà, coronando così il progetto di cantonizzazione dell'Iraq accarezzato da decenni dai likudzik della Casa Bianca e di Tel Aviv. E' molto probabile che la resistenza irachena non sia da ritenersi persuasa del risultato elettorale e che pertanto continuerà ad attaccare le forze militari d'occupazione ed i collaborazionisti. Le macerie lasciate da questa guerra in Iraq non potranno essere ripulite con le operazioni di maquillage elettorale.
Editoriale di Radio Città Aperta 31.01.2005
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