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(15 Agosto 2012) Enzo Apicella

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La sinistra e l'Europa. Critica del programma di Tsipras

(11 Marzo 2014)

09 Marzo 2014

Il Partito della sinistra europea, che vede al suo interno forze quali Syriza (Grecia), Izquierda unida e il Pce (Spagna), Rifondazione comunista, il Pcf e il Parti de gauche (Francia), la Linke tedesca, il Bloco de esquerda portoghese, ecc., ha deciso nel suo congresso di dicembre di candidare Alexis Tsipras a presidente della Commissione europea.

È quindi fondamentale analizzare con scrupolosa attenzione le basi politiche di questa proposta per capirne la prospettiva. Le speranze suscitate nella sinistra italiana dalla candidatura di Tsipras per le prossime elezioni europee sono fondate? È possibile rilanciare i diritti dei lavoratori, lottare contro la disoccupazione, l’austerità e l’impoverimento di massa attraverso le proposte avanzate dal leader di Syriza?

La domanda è tutt’altro che accademica. A differenza dell’Italia, in diversi paesi europei (Grecia, Spagna, Francia innanzitutto) le forze aderenti al Partito della sinistra europea hanno visto negli ultimi anni un significativo aumento dei consensi elettorali. L’opposizione alle politiche dominanti, gestite sia dai partiti di destra che dai socialisti ha generato grandi proteste e movimenti di massa che in parte hanno anche espresso un voto a sinistra.

È quindi tanto più importante capire quale risposta debba avanzare la sinistra di alternativa, quale programma e quale prospettiva politica possa dare una risposta all’altezza dello scontro in atto.

I dieci punti di Tsipras

A fine gennaio Tsipras ha pubblicato una Dichiarazione programmatica nella quale ripropone una strategia pienamente inserita in un orizzonte europeista di sinistra. Eccone i punti principali.

1) Porre fine all’austerità.

2) Un New deal europeo da finanziare con prestiti a basso costo da parte della Bce. A dire di Tsipras il modello Usa sarebbe in questo senso vincente: “Se lo hanno fatto gli Usa, perché non possiamo farlo noi?” (dove Tsipras veda questi successi degli Usa è un mistero).

3) Prestiti alle piccole e medie imprese.

4) Usare i Fondi strutturali europei per creare occupazione.

5) Sospensione dell’obbligo del pareggio di bilancio, almeno nei periodi di recessione.

6) Banca europea come prestatrice di ultima istanza, ossia la Bce deve stampare denaro per finanziare i debiti pubblici: “Il destino dell’euro e la prosperità dei popoli europei dipendono da questo.”

7) I paesi con un surplus commerciale devono riequilibrare i propri conti all’interno dell’Europa, ossia esportare di meno e importare di più.

8) Conferenza europea sul debito “come quella del 1953 che alleviò la Germania del peso del suo passato e aiutò la ricostruzione post-bellica della democrazia tedesca”. Eurobond e socializzazione del debito in su scala europea.

9) Separazione delle banche d’investimento da quelle che raccolgono il risparmio, sul modello del Glass-Steagall Act di Roosevelt (1933).

10) Legislazione europea per tassare i paradisi fiscali.

In sintesi: la crisi dipende dal liberismo e non dalle contraddizioni del sistema capitalista; il programma è quindi ispirato al keynesismo classico e non contiene alcuna rivendicazione di classe; l’eurozona viene definita “spazio ideale” per politiche riformiste; l’interlocutore privilegiato è la socialdemocrazia, oggetto di un accorato appello finale: “La realtà non concede altro tempo alla socialdemocrazia europea. I socialdemocratici devono effettuare qui ed ora una svolta storica verso la propria ridefinizione nella percezione e nella coscienza pubblica come una forza politica della sinistra democratica.”

Sparita la lotta di classe, ci si prodiga nel consigliare alla classe dominante delle politiche adatte a mitigare la crisi sociale, tentando di impressionare la borghesia con “grida di dolore” (“se non si cambia qualcosa affonderà l’Europa, affonderà l’euro, avanzerà l’estrema destra”, ecc.).

“Europa e democrazia”?

Parte fondamentale di questa campagna elettorale è lo scontro presunto tra “europeisti progressisti” e “nazionalisti conservatori” o addirittura fascisti. Ma le cose stanno veramente così?

La divisione sul futuro dell’Unione europea e dell’euro non è affatto una divisione di classe, o fra destra e sinistra. La stessa classe dominante è profondamente divisa al riguardo. Divisa fra diversi interessi nazionali, ma anche all’interno degli stessi partiti che la rappresentano più direttamente. I liberal-democratici, terza forza nel parlamento europeo, si sono divisi esattamente su questa linea: alla proposta iniziale di candidare il “duro” Olli Rehn, attuale commissario europeo agli affari economici, si è contrapposta vittoriosamente la candidatura di Guy Verhofstadt, una vittoria degli “europeisti” resa possibile anche dal sostegno dei liberali tedeschi. Queste le parole di Verhofstadt dopo aver conquistato la nomina: “I filo-europei saranno attaccati in molti degli Stati membri, il che rende ancora più importante che coloro che credono ancora nell’Unione Europea serrino le fila per lottare contro le forze reazionarie del nazionalismo e del populismo e la loro propaganda volta a spaventare i cittadini europei”. Stessa divisione nel partito popolare, dove politici del calibro di Angela Merkel si oppongono alla candidatura di Juncker, considerata troppo europeista.

Nonostante tutti i problemi, la frazione prevalente della borghesia in Europa continua ad aggrapparsi all’euro e all’Unione, soprattutto perché l’alternativa appare (ed è) un salto nel vuoto. “Europa e democrazia” rimangono quindi, per ora, le due parole d’ordine attorno alle quali cercare di mantenere il consenso. Si lanciano allarmi per la crescita delle “forze populiste antieuropee di destra e di sinistra”, si sprecano i paragoni col 1914, sottolineando come solo l’integrazione europea abbia garantito la pace e la cooperazione, e via di seguito, fino alla nausea.

Tuttavia “Europa e democrazia”, in un contesto di crisi e di tagli selvaggi, sono decisamente parole screditate, sono cattiva moneta tanto quanto la carta straccia accumulata nei bilanci delle banche e degli Stati.

Per spacciare questa pessima moneta la borghesia quindi chiede e ottiene la entusiastica collaborazione delle forze “riformiste”. È questo il senso della candidatura socialdemocratica di Martin Schulz.

Recentemente è stato presentato un “Rapporto indagine sull’attività, il ruolo e le operazioni della Troika per quanto riguarda i paesi dell’eurozona”. Presentato in accordo fra socialisti e popolari, giunge alla conclusione che la Troika, che ha dettato i programmi di “salvataggio” per Grecia, Portogallo, Irlanda, Cipro, deve essere sostituita da un vero e proprio sistema di governo europeo sottoposto al Parlamento europeo. L’austriaco Hannes Swoboda, presidente dei parlamentari europei socialisti e democratici (tra cui il Pd) si spinge ad affermare che “smantellare la Troika durante la presidenza greca dell’Ue sarebbe una vera vittoria”.

Nel suddetto Rapporto si propone di estromettere il Fmi dalla troika e sostituirlo con un “Fondo monetario europeo nel quadro giuridico comunitario”.

Sul fronte opposto la Bundesbank contrattacca rincarando la dose sulla gestione nazionale delle crisi: “I paesi a rischio bancarotta devono ricavare le risorse dalla ricchezza privata dei loro cittadini attraverso una patrimoniale una tantum prima di chiedere aiuti ad altri Stati, (…) una patrimoniale corrisponde al principio della responsabilità nazionale, secondo la quale i contribuenti sono responsabili degli impegni assunti dal loro governo prima che richieda la solidarietà di altri Stati.” Francoforte specifica che si tratta di misure rischiose ed estreme, da assumersi solo in casi eccezionali, ad esempio per evitare il rischio di insolvenza sul debito pubblico, e conclude: “Non fa parte degli scopi della politica monetaria europea assicurare la solvibilità dei sistemi bancari nazionali o dei governi ed essa non può sostituire i necessari aggiustamenti economici e pulizia dei bilanci” (Reuters, 27 gennaio).

La Banca centrale tedesca, quindi, dichiara guerra ai ricchi… degli altri paesi. Uno schiaffo in faccia e anche una minaccia neanche velata: chi rischia il fallimento si arrangi, e i capitali buoni li risucchieremo noi in Germania.

Socializzare i debiti pubblici?

A questo “egoismo” del capitale tedesco la socialdemocrazia contrappone la proposta di socializzare il debito su scala europea, abbinata al cambiamento dello statuto della Bce. è il cavallo su cui da quattro anni i riformisti puntano le loro speranze ed è anche il principale punto di contatto col programma avanzato da Tsipras. Ma ammettiamo che domani venisse accettata, quali sarebbero le conseguenze? Unificare i debiti pubblici implicherebbe immediatamente unificare i bilanci dei singoli Stati in un unico bilancio europeo e subito dopo unificare i sistemi fiscali per sostenere tale bilancio. Al di là di tutte le chiacchiere sulla democrazia, la borghesia tedesca chiederebbe in cambio un controllo ferreo sulla spesa e le tasse di tutti i paesi, sarebbe la centralizzazione all’ennesima potenza delle politiche di austerità. Peggio ancora se tale mutualizzazione del debito fosse solo parziale, dato che si riprodurrebbe su scala allargata il meccanismo dello spread tra una parte di debito pubblico “buono” e una “a rischio”.

Mutualizzare il debito non significa suddividere il problema per ridurlo, ma significa riprodurlo su scala allargata e non saranno certo gli appelli alla “solidarietà” a convincere chi tiene i cordoni della borsa, ossia la borghesia tedesca, a intraprendere questa strada.

La politica di Draghi ha tentato di imbocccare questa strada in maniera surrettizia, ossia aggirando, con vari artifici, i divieti imposti dallo statuto della Bce rispetto all’acquisto di titoli di Stato. Questa scelta è stata contestata dalla Bundesbank, da numerosi politici tedeschi ed è stata bocciata dalla Corte costituzionale tedesca con l’argomento (vero) che implica una perdita di sovranità per la Germania, che si dovrebbe accollare le conseguenze delle eventuali perdite. La causa è stata poi trasmessa alla Corte europea di giustizia, che dovrà decidere se insabbiarla (fino alla prossima crisi), accoglierne gli argomenti (e signficherebbe sconfessare tutte le scelte di Draghi) oppure respingerla, aprendo uno scontro istituzionale dagli esiti imprevedibili. Per quanto ci si affanni a girarci intorno, la contraddizione è inaggirabile.

Né è vero che se la Bce iniziasse a stampare moneta il problema sarebbe risolto. Non lo è negli Usa, dove il debito pubblico è esploso e la Federal reserve pompa denaro al ritmo di 80 miliardi di dollari al mese per sorreggere l’economia, una politica che equivale a lanciarsi in una discesa alla guida di un’automobile senza freni. E infatti non appena si è iniziato a parlare di limitare questa politica sono esplose nuove contraddizioni, generando una fuga di capitali dai paesi emergenti che già stavano rallentando la loro crescita.

Se l’Europa seguisse le politiche monetarie degli Usa, del Giappone e della Gran Bretagna il risultato sarebbe una serie di svalutazioni competitive delle diverse monete, accompagnata dal risorgere dell’inflazione e probabilmente da una guerra commerciale.

Né le politiche keynesiane, né quelle monetariste possono risolvere questa crisi, che è una crisi organica del capitalismo, anche se è vero che la rigidità della moneta unica ne ha esacerbato gli effetti. Queste illusioni dimostrano solo come le burocrazie riformiste, completamente incapaci di comprendere la profondità di questa crisi, si aggrappano a un passato che non può ritornare. Per i partiti della sinistra radicale, seguirle su questa strada significherebbe il disastro.

Illusioni e realtà

L’attuale instabilità dell’eurozona spinge in prima istanza verso un controllo a livello nazionale (piuttosto che europeo) del quale il governo tedesco e la Bundesbank si fanno campioni. Ma tale risposta, in prospettiva, indebolisce ulteriormente i paesi a rischio e rende inevitabili nuove crisi che mineranno l’euro alla base.

Se la classe dominante si aggrappa all’euro è solo perché le alternative appaiono ancora peggiori. Componente indispensabile di questa politica è il pieno coinvolgimento delle burocrazie sindacali e della sinistra riformista nel sostegno politico alle politiche dominanti.

Schierare la Sinistra europea su questa linea significa scegliere di sostenere una delle frazioni della classe dominante, abbellirne il volto con una retorica “sociale” e “democratica”, portare acqua al mulino dell’avversario.

Non serve ripetere un milione di volte le parole “solidarietà”, “democrazia”, “Europa dei popoli” per cambiare volto alla realtà. Sotto il capitalismo si può avere solo un’Europa capitalista; se comanda la borghesia, lo Stato difenderà i suoi interessi e questo vale sia a livello nazionale che europeo. Non partire da questa realtà significa ingannare se stessi e i lavoratori. Non a caso la classe dominante usa oggi l’accusa di essere “antieuropei” come marchio d’infamia; la dichiarazione di lealtà all’“Europa” è considerata il primo e fondamentale certificato di affidabilità.

Il manifesto di Tsipras offre precisamente questo certificato: “Dobbiamo riunire l’Europa e ricostruirla su basi democratiche e progressiste”. E più oltre: “La riorganizzazione democratica dell’Unione europea è l’obiettivo politico per eccellenza. A questo fine dobbiamo allargare il raggio dell’intervento pubblico e dell’impegno e della partecipazione dei cittadini nelle politiche europee e nella gestione dei servizi. Dobbiamo potenziare le istituzioni che hanno una legittima base democratica come il Parlamento europeo”.

Ma può esistere una Unione europea democratica, progressista, attenta all’ambiente e alla giustizia sociale? L’utopia di una Europa unita sotto il capitalismo, se mai dovesse prendere corpo, si materializzerebbe in una ulteriore concentrazione di forze, a livello economico e politico, da parte della classe dominante. Sarebbe uno strumento mille volte più potente degli attuali Stati nazionali per la difesa degli interessi del capitale, per attaccare ulteriormente le condizioni di lavoro, i diritti democratici, lo stato sociale, per condurre una politica antioperaia all’interno e aggressiva all’estero, nel tentativo di fronteggiare giganteschi concorrenti (gli Usa, la Cina) nella lotta per conquistare mercati, materie prime, posizioni strategiche a livello mondiale.

In tutto il mondo la “democrazia” borghese si svuota sempre più di contenuto; il potere si concentra sempre di più; ovunque si varano leggi sempre più repressive; tutte le decisioni fondamentali vengono sottratte a qualsiasi controllo pubblico, anche il più timido; i governi si alternano senza che nulla cambi… se tutto questo avviene non è per colpa di una qualche “ideologia neoliberista”, ma perché il sistema capitalista non ha più nulla da offrire alla gran parte della popolazione. Nel più potente parlamento del più ricco paese del mondo, gli Usa, la maggioranza non è rappresentata dai repubblicani, dai democratici, bensì dai milionari, che per la prima volta costituiscono la maggioranza assoluta dei deputati. Questo è il vero volto della “democrazia” per milionari che ci si illude di poter ringiovanire e abbellire.

Per la federazione socialista!

Nonostante tutti i proclami la crisi dell’eurozona non è affatto superata. Nuove e più gigantesche convulsioni si stanno preparando: crisi economiche, finanziarie, politiche e soprattutto nuove sollevazioni di massa; la Grecia è stata solo il preludio. Questa è la prospettiva alla quale deve prepararsi la sinistra in Europa: non a fare il consigliere del principe, ma a costruire una reale alternativa per centinaia di milioni di lavoratori e di giovani che si trovano spinti in una strada senza uscita e che non avranno altra scelta se non quella di ribellarsi.

Se – o meglio, quando – la crisi arriverà al suo punto decisivo in paesi come la Grecia, la Spagna, il Portogallo, l’Italia, un governo delle sinistre sarà posto di fronte a una scelta senza mezze soluzioni: o “salvare l’euro”, come propone Tsipras, o rompere con l’Unione europea e avviare un percorso di transizione e rottura col capitalismo che parta dal non riconoscimento del debito, dalla nazionalizzazione delle banche, delle principali industrie e leve economiche, dal controllo dei movimenti di capitale e del commercio estero. Arretrare o cercare la via di mezzo di fronte a queste scelte porterebbe a una sconfitta disastrosa.

La rottura con le politiche europeiste borghesi è una condizione indispensabile per poter svolgere questo compito. Solo rovesciando il dominio del capitale si può andare verso l’unica forma realmente progressista di integrazione europea, ossia una federazione socialista e democratica. Socialista in quanto basata sulla proprietà pubblica e sulla gestione collettiva delle banche, delle grandi industrie, delle reti di comunicazione, dei principali rami dell’economia al fine di rispondere ai bisogni della società; democratica, perché i popoli vi parteciperanno solo su basi autenticamente volontarie e consapevoli, con il diritto di scegliere se entrarvi e se rimanervi.

Claudio Bellotti - FalceMartello

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