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(10 Marzo 2010) Enzo Apicella

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    PERCHE' LA SINISTRA: RIFLESSIONI E ANALISI SULLA TRASFORMAZIONE DELL'AGIRE POLITICO E DELLA DEMOCRAZIA. INQUIETUDINI DA RACCOGLIERE E DA RIFLETTERE

    (21 Marzo 2014)

    Il blog “Perché la sinistra” porta avanti, ormai da molto tempo, una riflessione e un’analisi intorno ai temi della trasformazione dell’agire politico e della pericolosa involuzione del sistema in senso plebiscitario, ben oltre il populismo o la semplice affermazione della “governabilità” con la cancellazione del concetto di rappresentatività politica.
    Sta assumendo sotto questo aspetto particolare pericolosità il tentativo, ormai in uno stadio avanzato, di svuotare di senso lo stesso esercizio del voto e trasformare l’opinione pubblica in una massa indistinta di “osservatori non partecipanti” e di “fruitori degli eventi di una politica sempre piu’ ristretta negli ambiti dei vari cerchi o “gigli” magici.
    Non è tanto per ricordare che il nostro lavoro ma per invitare tutti i nostri interlocutori a riflettere al meglio su questi temi e avviare una iniziativa politico-culturale conseguente alla gravità della situazione che ripubblichiamo di seguito alcuni testi sui quali, nel recente passato, abbiamo lavorato attorno a questo argomento nell’idea di fornire un utile contributo a tutti.

    Troverete, quindi, di seguito ripubblicati:
    1) CRISI E MUTAMENTI (passività, leader carismatico e partito frattale) di PATRIZIA TURCHI pubblicato il 2 Gennaio 2013;
    2) LA DEMOCRAZIA DEL PUBBLICO E LE RAGIONI DI CLASSE di PATRIZIA TURCHI pubblicato il 29 Marzo 2013
    3) MISTIFICAZIONE DELLA RAPPRESENTANZA E RAPPRESENTANZA COME VALORE di FRANCO ASTENGO pubblicato il 9 Marxo 2014



    CRISI E MUTAMENTI (passività, leader carismatico e partito frattale) di PATRIZIA TURCHI
    Non v'è dubbio che la parola crisi sia entrata violentemente nei nostri pensieri così come nella nostra vita materiale e quotidiana. E non v'è dubbio che tale termine sia stato rinforzato grandemente non solo attraverso le azioni di governo ma anche con un rimbombo particolarmente assordante da parte dei media.
    Un esempio calzante è quello rappresentato dal termine “spread”, termine tecnico del quale nessuno aveva mai sentito parlare fatti salvi i pochi che della finanza hanno fatto un mestiere, ma che improvvisamente diventa il perno delle conversazioni al bar o allo stadio, sull'ascensore piuttosto che dal panettiere, e di come sia -nell'immaginario popolare- diventato il termometro unico col quale misurare il nostro possibile benessere.
    Proviamo però a riflettere cosa significa “crisi” e quali meccanismi accenda e come questi governino ben oltre ciò che -forse- ci aspettiamo.

    Generalmente parliamo di “crisi” quando vi è una rottura di dinamiche ed equilibri pre-esistenti e contemporaneamente una incapacità di ri-regolare e/o stabilizzare il sistema. Per certo la “crisi” ha una storia prodromica che spesso non è compresa se non nella sua esplosività.

    L'esordio della crisi può avere molte manifestazioni palesi: ad esempio si può trattare di un cambiamento di politica e di discorsi; o di operazioni di controllo lanciate da istituzioni esterne; o ancora dalla presa di potere da parte di un personaggio o di un gruppo (cit. Dizionario di Psicosociologia – Barus-Michel, Enriquez, Lévy – 2002).

    Le reazioni alla crisi seguono allora dinamiche che possiamo considerare simili tra i vari contesti, da quello personale o famigliare, a quello delle grandi organizzazioni.

    Per certo il clima di tensione, il contesto socioeconomico, il mercato del lavoro, i cambiamenti tecnologici o il clima politico sono ogni volta avvertiti come un ulteriore appesantimento delle pressioni minaccianti. I membri dell'organizzazione si sentono esclusi dagli ambiti decisionali a cui avevano avuto l'impressione di partecipare: le rappresentazioni diventano negative e vi è perdita di fiducia, scoperta o giudizio di incompetenza, accuse di machiavellismo, di doppiezza di arbitrarietà.
    In un clima di indignazione o di scoraggiamento vi è un disinvestimento nei valori sino a quel momento creduti fondanti, le pulsioni non canalizzate sono iperattive e si disperdono in interazioni disordinate, discordanti, con rivalità e disgregazione sino al crollo (ibidem). Le esperienze di potere collegiale si dissolvono o sono tradite dall'ambizione di alcuni dei loro rappresentanti. La violenza ed un immaginario mortifero prendono il sopravvento. Si affaccia il fenomeno dei suicidi dovuti alla crisi vissuta come disperante: il senso di impotenza è forte e destabilizzante.

    E' evidente che intervenire nella crisi, specie se viene proposta e rinforzata continuamente dai media e da fattori esterni significa agire su meccanismi particolari e universali:

    “Si può facilmente determinare una sovrastimolazione del soggetto attraverso meccanismi della suggestione. L'apparente attività può corrispondere intrapsichicamente ad una passività dell'Io nei confronti sia della realtà esterna che delle pulsioni.”, (Psicologia clinica. Vol. 4: Trattamenti in setting individuale. Psicoterapie, trattamenti somatici. di Margherita Lang, 2001).

    Ed ancora: D. Rapaport (1953) ha proposto l'attività e la passività dell'autonomia relativa dell'Io e dell'Es e della realtà esterna. Lo stato di passività dell'io nella crisi, evidenziato o provocato da avvenimenti della realtà esterna (percepiti come, ndr) inaffrontabili, si manifesta come impotenza nei confronti del proprio ES e quindi come difficoltà di controllo e modulazione di affetti, pensieri ed azioni. Si assiste a fenomeni come passività, ubbidienza, suggestionabilità, fragilità, condiscendenza, atteggiamento regressivo, assenza di pensiero critico.

    In questa “crisi”, che passa dal contesto generale a quello personale ed individuale e viceversa, si possono verificare, traducendo il tutto in termini di dinamiche politiche e sociali, sottomissioni vissute come salvifiche a qualcosa, più grande e potente, che assume per noi la guida e la risoluzione, oppure, come accennato sopra, l'assunzione di condotte individuali autolesive, come il suicidio, estrema esemplificazione e realizzazione del senso di impotenza.

    Sottomettersi? Si, ma a chi?

    Chi meglio di un capo carismatico?

    Al capo carismatico è affidato il compito di indicare il percorso per uscire dalla fase di sbandamento, nell'idea che il riordino della società avvenga al fine di agire/vivere in un ambiente più rassicurante, più stabile, più riconoscibile, per riacquisire una propria collocazione ed un ruolo. L’individuo, in questa individualizzazione spinta e promossa con enfasi a cui egli stesso ha creduto come via per il benessere e la felicità, persa la collocazione all'interno di una comunità e di un collettivo ove riconoscersi e identificarsi con efficacia, si sente (è portato a sentirsi) scarsamente valorizzato dalla società ed addebita a questa l’insufficiente considerazione di se stesso, da cui dipende anche la sconfitta continuamente patita nelle relazioni con i suoi pari, di cui, magari, crede di non possedere lo stesso cinismo o la stessa abilità comunicativa, oppure, rispetto ai quali, non gode degli stessi favoritismi.

    Ce ne siamo avveduti con l'ascesa alla presidenza del consiglio del prof. Monti. Una ascesa del tutto extra-parlamentare, con un ruolo del capo dello Stato ai limiti della Costituzione, che venne accolta come passaggio discutibile ma necessario. Non solo: nel Paese si era assistito ad una vero e proprio giubilo, con tanto di bandiere alle finestre, poiché l'ascesa di Monti significava metter via la fase berlusconiana. E se questo accantonamento avveniva per rispondere adeguatamente alle direttive europee (quelle stesse che in nome del potere finanziario non temono di schiacciare e ridurre in miseria popoli interi), e non per via politica, poco importava.

    Ad un anno di distanza i nodi, per chi li vuol cogliere, non solo non si sono risolti, ma si ripropongono in tutta la loro drammaticità, e ci si accorge che la “fase berlusconiana” non attiene semplicemente alla persona fisica, ma riguarda una filosofia di fondo che sembra aver assunto il comando di ciò che resta dell'agire politico.
    Infatti partiti, media e istituzioni rispondono a questa impronta, e da questa prendono le mosse.
    La vicenda delle Primarie del Centrosinistra, di cui ci siamo occupati in queste settimane, ne è l'emblema più evidente.
    La trasformazione dell'elettore in consumatori di eventi, fossero anche popolarmente graditi, si perpetua in questo scorcio d'anno.

    Assistiamo ad una rincorsa senza pari alle cosiddette primarie per i/le parlamentari.
    Non è intenzione di chi scrive deprimere quanti si avvicinano a questa kermesse con grande slancio e fatica, e soprattutto speranza (o più realisticamente illusione di scelta), ma crediamo sia giusto proporre un cono di visuale che tenti di buttare un sasso nello stagno degli accadimenti non assumendoli come naturali, nell'assoluto silenzio teorico che sembra imbavagliare qualunque tentativo di analisi e ricerca da parte di chi ha maggiori e ben più dettagliati strumenti
    Il PD sembra aver adottato, appunto attraverso un percorso storico e non naturale, una connotazione -in qualità di ciò che un tempo veniva definito “partito”- che trova le sue basi nella teoria delle organizzazioni. Il genere a cui facciamo riferimento, rispetto alla TdO, è quello dell'organizzazione manageriale. e sulla cui base pare incentrato tutto il processo delle primarie, le cui “regole” sono, per sommi capi, quelle che hanno disciplinato l'“elezione del premier” (o meglio dell'indicazione del nome del leader della coalizione che si presenterà alle elezioni secondo le norme dettate dal famigerato Porcellum).

    Nell'organizzazione manageriale abbiamo:
    un nucleo centrale e sovraordinato che detiene il potere e l'autorità, che ha chiari gli obiettivi, la strategia e la tattica per conseguirli,
    esistono staff laterali che collaborano, ciascuno con le proprie competenze (ad esempio la comunicazione e l'uso dei media),
    un corpo manageriale attivo che è chiamato a portare il proprio contributo, agendo sia a cascata su possibili “acquirenti”, “fette di mercato”, ecc., che lateralmente -mettendosi in competizione- anche minando il territorio dei propri pari. I manager risponderanno agli obiettivi dati con risultati concreti e valutabili, che si esprimono attraverso la compilazione di apposite classifiche.

    Facendo le dovute e necessarie trasposizioni troviamo che l'evento delle primarie parlamentari ben soddisfano questa schematizzazione organizzativa:
    l'obiettivo è costruire, sulla base di un consenso sufficientemente largo (tradotto in gradimento) un nucleo di possibili parlamentari, che in qualche modo aggiri parzialmente l'odioso obbligo della elencazione coatta (la nomina) prevista dal Porcellum.
    Questi candidati alla candidatura devono trovare sostenitori (firmatari) per comparire nell'elenco (anzi, nei due elenchi, uno per le donne ed uno per gli uomini).
    Costruiti gli elenchi questi saranno sottoposti a successiva valutazione di gradimento popolare (la platea di quanti hanno partecipato alla definizione del leader della coalizione), dando vita alle “primarie dei parlamentari”.
    Non entriamo a piè pari su temi come le “cordate”(sindacali, territoriali, lobby, ecc), perché avremo modo di farlo più nel dettaglio successivamente, ma già così è chiaro che ciò che viene messo in fieri è un processo complesso che nulla sembra avere a che fare con quella che sino ad oggi potevamo chiamare struttura partitica. Dove la ricerca del consenso non avveniva attraverso la reificazione “in carne ed ossa” fisica ma sulla base di un'adesione (identificazione) che traguardava l'individuo poiché al primo posto erano appunto le “ragioni del collettivo” (o le “ragioni sociali” se vogliamo utilizzare un termine aziendale).
    Oggi tutto sembra essere proposto in modo esasperato: dall'individuo, che sceglie, all'individuo che viene scelto.
    A coronamento non solo abbiamo il soggetto (candidato ad essere candidato), ma anche un programma individuale, tanto che a fronte di un programma di coalizione, si declina il programma di partito, e pure quello individuale. In questi giorni, sui quotidiani, si leggono le biografie dei candidati alla candidatura che raccontano non solo se stessi (biografia), ma le proprie priorità programmatiche o addirittura un proprio programma personale, a volte non proprio armonico con quello del partito di appartenenza.
    Questa impalcatura è sorretta e proposta con grandi dichiarazioni in nome di un modello di democrazia che “finalmente” (ri)mette in connessione il “popolo” e le “istituzioni”, e tutto senza che la leadership o il nucleo sovraordinato, nelle sue direzioni e scelte, venga coinvolto o messo in discussione.
    Nello specifico si parla di listini o nominativi direttamente a disposizione del segretario, che ne disporrà a seconda delle bisogne e delle opportunità.

    Naturalmente questa complessa operazione non poteva non essere copiata dal piccolo partito che si pone a fianco del PD: Sel. Che infatti adotta in pieno le impostazioni per le primarie parlamentari del PD (addirittura utilizzando le stesse sedi di consultazione) ma, essendo nato come “partito personale”, le modula, addomesticandole, con minor professionalità aziendale scatenando le ire della base (http://www.ilmanifesto.it/attualita/notizie/mricN/9037/), nell'obiettivo di esonerare i membri del cerchio magico dal rischio di cannibalizzazione o di esclusione.

    Non si comprende come questo processo, molto elaborato e forse per la prima volta sperimentato nella sua realizzazione, non sia oggetto di analisi politica.
    Siamo oltre la tassonometria classica indicata dalla teoria delle organizzazioni partitiche, come il partito dei notabili, il partito cartello, il partito-azienda (si legga al proposito uno scorrevole testo redatto da Pierluigi Castagnetti, dal titolo: La sfida della democrazia interna).

    Probabilmente dalla “politica frattale” (Luca Ricolfi) siamo passati al “partito frattale”, che -sempre se stesso a qualsiasi livello lo si scomponga- riproduce anche lo stesso meccanismo di individualizzazione, a scendere dal vertice alla base.
    Pare un assetto nuovo e per certi versi mai utilizzato, che riteniamo debba avere attenzione da chi ha ben altri strumenti di ricerca e di analisi.
    Analizzare infatti questi processi riporta obbligatoriamente alla necessità di contestualizzare, dando perciò significato agli accadimenti, assumendo come riferimento l'assunto che questi siano processi storici (cioè costruiti dall'uomo) e non naturali, e pertanto inseriti in un contesto (una fase?) e che da questo ne sono al contempo frutto e determinante.



    LA DEMOCRAZIA DEL PUBBLICO E LE RAGIONI DI CLASSE di Patrizia Turchi

    In una intervista apparsa ieri su La Stampa a Zagrebelsky, l'insigne giurista esprime una serie di domande che ci paiono efficaci per avviare una riflessione.
    «La questione è questa: la tecnologia informatica applicata ai processi decisionali pubblici, l’idea della sovranità immediata e individuale del singolo, distruggerà la politica a favore di qualcosa che per ora non si sa che cosa sia? Oppure: questi strumenti possono essere usati per rinvigorire la democrazia, renderla più responsabile, più consapevole, in processi di sintesi comune?”
    Il tema è d'attualità, ed è giusto provare ad addentraci, tenuto conto che con modalità ed espressioni diverse molti hanno ipotizzato che la “democrazia del pubblico” sia la nuova frontiera alla quale giungere dopo una evidente debacle della “”democrazia rappresentativa” così come si è andata a sviluppare in Italia.
    Lo ha fatto Giorgio Cremaschi, all'indomani dell'esito elettorale, richiamando la necessità di una democrazia diretta, così come Remo Bodei sulle pagine del Sole 24 ore.
    Crediamo sia opportuna una premessa, che potrà apparire ripetitiva come la più celebre “Carthago delenda est”, e cioè che da più di due decenni l'Italia si ritrova con un sistema di rappresentanza parlamentare di tipo maggioritario che si è via via sempre più degenerato sino all'attuale Porcellum.
    Difatti, e se ne vedono bene gli effetti in questa fase, i Partiti (tradizionali e no) subiscono o si avvantaggiano con un numero di seggi in Parlamento assolutamente non rispondenti alla realtà dell'esito del suffragio. Rimandiamo all'articolo di Franco Astengo su questo tema che ben esplicita la realizzazione di questo vero e proprio orrore democratico.

    Ma non possiamo non considerare che la realtà che ha permesso questa indecorosa rappresentanza scaturisce da quei partiti in crisi che hanno subito una trasformazione: dallo status di “corpo intermedio” a luogo di potere e nomina, la cui struttura è coincidente con la rappresentanza istituzionale o al massimo con un contorno molto limitato di temporanei coadiutori, comunque oligarchie lontane dalla società.

    Potremmo così avventurarci in una dichiarazione decisamente forte: i “corpi intermedi” 1(quelli per intenderci quelli per intenderci già teorizzati da Montesquieu che sosteneva la tesi che tra sovrano e cittadini siano necessari l’inserimento di gradi intermedi di distribuzione del potere che tutelino questi ultimi dalle forme dispotiche del suo esercizio), sono da tempo scomparsi nella forma partitica.
    Ecco allora che si affaccia prepotente la cosiddetta “democrazia del pubblico”, cioè il tentativo del popolo, espulso dai luoghi di elaborazione delle decisioni, di “contare” nella migliore delle ipotesi ovvero di partecipare ma in modo assolutamente passivo.

    Scrive Remo Bodei, analizzando il movimento grillino con codici di interpretazione assai illustri come Machiavelli e Hegel, passando per Max Weber, che il “realismo” deve essere temperato attraverso un progetto che si innesti nella realtà effettuale, non concepita come qualcosa di istantaneo e immodificabile (una sorta di antitodo al politicismo?), e che il populismo, di cui tanto si è parlato in riferimento al movimento pentastellato (così come per Berlusconi ma per motivi diversi, per il quale venne coniato il termine di politica pop da parte di Mazzoleni e Sfardini), pur trovando ragioni nella scaturigine2 deve recuperare un meccanismo di bilanciamento, altrimenti diventa “una degenerazione della democrazia e visto come uno spettro o, al contrario, come una calamita che attrae tutti gli scontenti e gli indignati. Ma è sufficiente demonizzarlo, esaltarlo o banalizzarlo?”.

    Chiude Bodei rammentando la frattura tra le élite e il popolo, e propone una disamina della crisi di rappresentanza tradizionale e della tormentata transizione da una democrazia dei partiti ad una democrazia del pubblico.
    Quindi, seppur con qualche attenzione, per Bodei appare logica questa trasformazione, salvo soffermarsi sulla necessità di analisi poiché lo ritiene un doveroso esercizio di “realismo”.

    Ora quindi la questione pare già indirizzata, e poco spazio sembra essere riservato a quanti ritengono invece che questa trasformazione abbia le caratteristiche intrinseche del processo storico, al quale possa essere contrapposta una diversa interpretazione e realizzazione.

    Ci fermiamo per aggiungere un'altra premessa: la prima vera riflessione è se davvero la democrazia rappresentativa, nella sua espressione partitica tradizionale, ha concluso il proprio ciclo.
    Siamo certi che ci troviamo di fronte ad un declino della democrazia rappresentativa e non ad una forma, questa sì deleteria, che ha surrettiziamente trasformato la propria natura, mantenendo un involucro che non corrisponde più al contenuto e alla prassi?
    Ci richiamiamo evidentemente alla prima premessa formulata, laddove i Partiti tradizionali hanno supplito la propria base di riferimento con i movimenti (ad esempio a suo tempi il PRC) o con un “pubblico” al quale viene chiesto di esprimersi (pensiamo alla vicenda delle Primarie), ovvero ancora con un pubblico televisivo.

    Ma cosa è la “democrazia del pubblico”?
    Intanto va detto che da tempo si è proceduto ad una forma di comunicazione politica che affonda le sue radici nella strategia del marketing, attraverso rappresentazioni iconiche, slogan immediatamente assimilabili, che per la loro banalità non richiedono sforzi ermeneutici3 per essere decodificati e impressi nella memoria, dando vita ad una “politica indiziale” che anticipa i nostri desideri con un'arte manipolatoria che suscita transfert di realtà (Rappresentanza politica e governabilità di Laura Polizzi).
    In questo solco Ilvo Diamanti si sofferma in un suo articolo, ormai datato ma sempre efficace, sull'intreccio tra media e sondaggi, “principio di legittimazione politica e istituzionale sempre più importante, perché agisce in tempo reale, trasformando la democrazia in plebiscito”.

    Bernard Manin, filosofo politico francese, dedica alla democrazia del pubblico molto spazio all'interno del suo testo dedicato ai “Principi del governo rappresentativo”.
    La formula della democrazia del pubblico descrive, per Manin, un'epoca in cui i partiti cedono spazio alle persone, intese come moltitudine (somma di 1)4, l'organizzazione alla comunicazione, mentre le identità collettive si indeboliscono, svuotandosi e facendosi attrarre dalla fiducia personale diretta: lo spazio della rappresentanza coincide con lo scambio tra leader e “opinione pubblica”, attraverso i media, nei termini sopra indicati, e ovviamente a senso unico, cioè asimmetricamente.

    É la personalità degli eletti che “ispira fiducia”. L'eletto non è portavoce ma il fiduciario. Si forma così un particolare tipo di élite: i notabili, com'è nella tradizione del parlamentarismo liberale.
    Mentre nella democrazia dei partiti, specie in quelli di massa di orientamento socialista, l'eletto in parlamento diventa (Kautsky) “un delegato del suo partito”.

    Manin non si scaglia contro la personalizzazione della politica, poiché la intende come una “metamorfosi”: la rappresentanza è comunque “personale”, ed anche nei partiti di massa i rappresentanti sono persone in grado di esercitare una autonomia personale.

    Viene inoltre scippato in Italia -nella rincorsa della democrazia del pubblico- persino il concetto di opinione pubblica, come corpo di garanzia e dibattito sulle pubbliche scelte, poiché assume tutt'altro ruolo.

    Manin scrive: la democrazia del pubblico mette in scena una prima frattura rispetto alla democrazia dei partiti: l'erosione della fedeltà elettorale disgiunta dalle condizioni sociali, economiche e culturali. In tal senso, prosegue Manin, potremmo osservare che la centralità assunta dall'offerta politico elettorale si coniuga con una superfetazione dell'elemento percettivo (le icone) propria di una fase dominata da nuove tipologie di comunicazione, ristrutturando l'immagine dei singoli e incentivando i processi di atomizzazione sociale (passiamo dal collettivo alla multitudine, come già detto sommatoria infinita di uno). Questo produce una situazione di fluidità elettorale: gli elettori sono indotti a rispondere -in relazione al tipo di elezione e di offerta politica- in modo diverso in luogo di una identità definita. Ma attenzione: la capacità di differenziare la risposta che dovrebbe appartenere a questo elettorato è invece ben saldamente in mano ai candidati, che sanno scegliere le differenziazioni e divisioni più efficaci e vantaggiose per loro (pensiamo alla “rottamazione” di Renzi e al “Tutti a casa” di Grillo).
    Tutto questo produce una nuova forma di élite politica (che parla direttamente al pubblico) e al contempo individua nell'inaspettato allungarsi delle distanze tra governati e governanti la causa del malessere nei confronti della rappresentanza e come il verdetto del popolo non sia di certo scomparso nell'era della democrazia del pubblico, necessariamente causata dal principio di distinzione, sopra citato, che connota strutturalmente la rappresentanza (A. Girometti)

    Ora non resta che affrontare il corno del dilemma: cioè se riteniamo che la democrazia del pubblico sia strumento e azione politica adatta ad un cono di visuale marxista oppure si debba tentare di rimettere in pista il concetto di democrazia rappresentativa attraverso forme partitiche non degenerate.
    E' pur vero che la teoria marxista, in specie in “Critica del diritto statuale hegeliano”, sembra scivolare in una machiavellica “riformulazione del politico”, così come negli scritti dedicati alla Comune di Parigi, dove si identifica la democrazia come produzione di rapporti di non dominio e lotta permanente contro lo Stato in quanto apparato separato ed unificante, al punto che autori come Althusser rilevano l'assenza di una teoria marxista dello Stato e delle organizzazioni della lotta di classe (A. Girometti).
    Non è che rilevando l'assenza di una dottrina marxista dello Stato e il fallimento dell'esperienza sovietica di identificazione tra la politica e lo Stato, che si debba rinunciare a rompere le asimmetrie "naturali" dettate dalla nascita e dalla ricchezza, così come dalla competenza, che sono intrinseche ai processi capitalistici di potere, di produzione, di sfruttamento e depauperamento.
    Rovesciare il processo di atomizzazione, fornire identità collocate nelle ragioni di classe, compattare quanto è stato volutamente disgregato sul piano delle rivendicazioni dando a queste una connotazione politica a partire da un approccio teorico di riferimento, significa proporre formulazioni di adesione ideale non basate sulla democrazia del pubblico ma di identificazione politica e sociale.
    Poiché seppur è vero che qualora la forma di democrazia del pubblico -così di moda- rischia una ulteriore trasformazione, al punto che Giorgio Galli la aggettiva come involutiva, chiamandola “democrazia dei subordinati”, è anche vero che il nostro approccio marxista avrebbe ancora una volta piena ragione poiché ci troveremmo in una forma di pseudodemocrazia (autoritarismo moderno?) e di dominanza sulle classi subalterne .

    Si ringraziano tutti gli Autori citati nell'articolo (in specie Andrea Girometti con "Governo rappresentativo e democrazia: considerazioni critiche a partire da un testo di Bernard Manin" )


    1Nella definizione di corpi intermedi viene compreso l’insieme di organizzazioni di rappresentanza, associazioni, movimenti di opinione e partiti che esprimono valori e interessi nell’ambito sociale e politico, mobilitano adesioni e consenso, per farlo esprimere in particolare nell’ambito delle istituzioni o nelle relazioni sociali. Nei paesi democratici sono stati protagonisti del rinnovamento economico e sociale, contribuendo con la loro azione a migliorare la capacità di risposta delle istituzioni rispetto alle domande delle persone e dei gruppi sociali.
    In questo ambito i corpi intermedi rivendicano, mediano, agiscono, presidiano, attivano i canali di partecipazione dando vita a quel pluralismo di opinioni e di scelte che caratterizza le moderne democrazie.
    La capacità dei corpi intermedi di esercitare la responsabilità sociale è fondamentale per garantire la coesione sociale nelle comunità nazionali e locali e la governabilità delle società complesse. (cit. Natale Forlani)

    2 Bodei richiama appunto un passo di Machiavelli circa il popolano fiorentino che attribuisce la colpa del peggioramento delle condizioni di vita dopo la cacciata dei Medici, alle ambizioni e alla corruzione dei “signori”.

    3Con buona pace di Tullio De Mauro, e il suo allarme sulla analfabetizzazione, di cui ampiamente ci siamo già occupati ( ANALFABETISMO DI MASSA e CAMPAGNA ELETTORALE 2013: CARAMELLE, VAMPIRISMO E ANALFABETISMO (ANCHE POLITICO))

    4 L’evoluzione moderna delle forme della democrazia deriva da una messa a punto di una teoria economica il cui caposaldo è stato rappresentato dalla “nozione di capacità”: ovvero dalla facoltà del soggetto rivolta ad affermare l’esigenza di agire considerando “ i diritti come scopi”, ossia non come presupposti già dati ma come obiettivi da raggiungere. Su questa base sono state elaborate teorie dai forti risvolti applicativi, per alcuni versi orientate al raggiungimento dei risultati in maniera il più possibile indipendente dalle logiche della soggettività. Le identità non sono così considerate come “radici”, ossia come fattori già dati naturalmente o storicamente, ma come oggetto di continua interrelazione e di negoziazione.
    Il superamento del concetto d’identità viene così correlato quello di moltitudine.
    La “moltitudine” non è apparsa centrale nell’epoca della statualità moderna che ha di preferenza elaborato concetti come classe o cittadinanza. Una nozione, quella di moltitudine che descrive la forma (molteplice, disseminata, priva di radici) assunta da istanze di liberazione, al riguardo delle quali la democrazia deve essere esercitata in forme organizzative e perseguendo obiettivi politici ben diversi da quelli perseguibili attraverso la rappresentanza di classe.
    L’identità viene così assunta dal singolo attraverso una sorta di “pratica dell’obiettivo” che, nella sostanza, si configura come un esercizio della sovranità attraverso la somma delle espressioni individuali espresse attraverso il dibattito pubblico e l’espressione di consenso o dissenso su “single issue”, al di fuori dalla mediazione di corpi intermedi collocati tra la società e le istituzioni rappresentative. (Franco Astengo - 2013)


    MISTIFICAZIONE DELLA RAPPRESENTANZA E RAPPRESENTANZA COME VALORE di Franco Astengo


    Sotto il titolo “La Rappresentanza come valore” Nadia Urbinati scrive oggi 9 Marzo, sulle colonne di Repubblica un lungo e impegnato articolo dal quale si riportano di seguito alcuni passaggi fortemente significativi:

    “ …queste diverse strategie riflettono il riconoscimento che la rappresentanza è un valore o una forma di partecipazione. La ricerca di correggere strategie di rappresentanza è un fatto d’indubbia rilevanza.” e ancora più avanti: “ La comprensione del valore del suffragio e della rappresentanza hanno marciato assieme: non godere di eguale possibilità di essere elette è una forma di decurtamento del diritto politico”.
    I riferimenti dell’articolo di Urbinati naturalmente sono rivolti al tema del giorno, quello della rappresentanza di genere. Un tema intorno al quale, nell’ambito della discussione su di una possibile nuova legge elettorale si sta sviluppando un forte confronto politico.
    Un confronto politico che si misura, però, sul terreno di vere e proprie marginalità come quella – appunto – della rappresentanza di genere o della possibilità di espressione delle preferenze: marginalità perché il quadro complessivo che la nuova legge elettorale esprime, al riguardo del disegno complessivo riguardante il sistema politico, è quello di un vero e proprio “soffocamento” dell’idea della rappresentanza politica, spostando tutto il peso del meccanismo sul versante della governabilità.
    Un grave squilibrio che, in primo luogo, contraddice la stessa sentenza n.1/2014 della Corte Costituzionale con la quale furono dichiarate illegittime le parti fondamentali della legge elettorale del 2005. Sentenza che esplicitamente parla di “equilibrio tra governabilità e rappresentanza”.
    Urbinati cita un passaggio “storico” nell’evoluzione delle democrazie occidentali: il marciare assieme della comprensione del valore e del suffragio.
    Fu sulla base della comprensione di quel passaggio che si verificò la grande spinta verso il suffragio universale (maschile e femminile). Suffragio universale intenso come possibilità di espressione piena della rappresentanza politica, sulla base della quale si formarono i grandi partiti europei della classe operaia della prima rivoluzione industriale.
    Se si chiude la porta alla possibilità di una piena rappresentanza politica, come sta avvenendo in Italia da molto tempo con le leggi elettorali via, via, elaborate nel tempo dalla crisi sistemica degli anni’90, allora tutti gli altri livelli di rappresentanza “settoriale” o “neo-corporativa” compresi quelli di genere finiscono con il non disporre del valore di fondo, quello dell’espressione piena della rappresentanza delle sensibilità e delle opzioni politiche.
    In una soffocante rincorsa al centro della “governabilità” intesa quale fine esaustivo dell’azione politica e anche istituzionale finisce con il perdere valore qualsiasi altro concetto di alternativa o anche soltanto di “diversità”.
    La grande contraddizione, nello specifico del “caso italiano” (che vale ancora, sia ben chiaro) è con il dettato costituzionale che disegna con grande chiarezza lo scenario della centralità del Parlamento e della presenza nelle istituzioni di un largo spettro di rappresentanza politica, sia sotto l’aspetto delle idealità che delle capacità progettuali.
    Siamo al punto in cui, per cercare di evitare le tagliole degli sbarramenti, a molti non appare più possibile presentarsi con il volto delle grandi idealità della storia politica d’Europa e d’Italia e ci si maschera da “altro” (l’Altra Europa ad esempio, come fu la Rivoluzione Civile o L’Arcobaleno): un atto d’ignavia politica dettato da condizioni storiche all’interno delle quali il sistema si frappone con tutti i mezzi alla possibilità di una limpida espressione di appartenenza, anche ideologica.
    Conclude Urbinati: “Quindi la parità (di genere e non di rappresentanza politica, n.d.r.) è oggi più che ma un’esigenza di giustizia, proprio perché la rappresentanza non può contare più sole sulle piattaforme generali dei partiti, nei quali le donne possano riconoscersi. Presenza e voce stanno insieme ora più di quanto non succedesse nell’età dei partiti di massa”.
    Un punto di domanda, allora, e una considerazione conclusiva: può valere questo rapporto tra presenza e voce in un’assise elettiva, dove lo squilibrio a favore della rappresentanza maggioritaria è quella di registrare una fortissima alterazione tra consenso reale e forza parlamentare (l’allusione è evidentemente rivolta a chi si trova eletto grazie ad abnormi premi di maggioranza)?
    Il governo attualmente in carica ha puntato a riequilibrare, almeno nella sua forma di visibilità primaria (i ministri) la rappresentanza di genere: ma si tratta, pur sempre, di un governo formatosi non sulla base dell’espressione di un principio di consenso elettorale ma (come sta avvenendo in Italia ormai da tre anni a questa parte) su di un’ardita manovra di palazzo. Vale allora, in questo caso, come fattore politico il riequilibrio della rappresentanza di genere, oppure anche in questo caso la definizione più semplice che si può usare è quella di “mistificazione”?.
    Domande che appaiono importanti e alle quali il sistema pare proprio non essere in grado di fornire risposta: il sistema della rappresentanza è in gravissima crisi così come la democrazia italiana.
    E’ questa la constatazione di fondo dalla quale ripartire se s’intende ragionare sul serio sui concetti di rappresentanza e di espressione della soggettività politica.

    Redazione "Perchè la Sinistra"

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