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il pane e le rose

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La ribellione anti-nazionale di operai e disoccupati in Bosnia

(27 Marzo 2014)

La Bosnia attuale, a seguito degli accordi di Dayton del 1995, è uno Stato suddiviso in Repubblica Serba Srpska, che è il territorio dei serbo-bosniaci, e la Federazione Croato Musulmana, dove vivono in maggioranza bosniaci musulmani e croato-bosniaci, a sua volta composta di dieci cantoni con i propri governi locali. Prima della guerra era conosciuta per le numerose e fiorenti fabbriche, ma oggi quel quadro produttivo è radicalmente cambiato e, a venti anni dalla fine del macello iugoslavo, la deindustrializzazione è compiuta. Diverse industrie sono state privatizzate, poi smantellate, in un processo che è ancora in corso, facendo svanire i sogni borghesi di un aumento del numero dei posti di lavoro. La realtà è quella di un Paese dove la produzione industriale è in netto calo e in caduta libera le esportazioni.

I devastanti effetti della guerra hanno inoltre compromesso le infrastrutture, che a stento vengono rimodernate, frenando ulteriormente l’economia. Nelle poche fabbriche sopravvissute non è un’eccezione che gli operai lavorino senza esser pagati. Il paese ha una disoccupazione tra le maggiori d’Europa: l’agenzia nazionale di statistica ne valuta un tasso di oltre il 40% e in alcuni cantoni gli occupati sono meno dei disoccupati; però molti proletari sono costretti a lavorare in nero. Anche le rimesse degli emigrati (oltre il 15% dei bosniaci vive all’estero), salvagente fondamentale per il Paese, risentono della recessione e negli ultimi anni sono diminuite sensibilmente.

Dal 2008 i prezzi delle materie prime sono crollati mettendo in ginocchio l’economia basata principalmente sull’esportazione di legname, metalli e derivati. Il resto lo ha fatto il calo della domanda in Germania, Serbia e Croazia, partner commerciali storici di Sarajevo.

Queste difficoltà economiche pesano sempre più su una popolazione ormai priva di riserve. Le statistiche inseriscono la Bosnia Erzegovina tra i paesi più poveri del pianeta: tra la striscia di Gaza e lo Yemen.

In questo contesto la fedele arma della classe dominante, il nazionalismo, ha per decenni tarpato le ali ad un proletariato sempre più alla fame, ad una classe lavoratrice chiusa nei recinti delle fabbriche dalle complici organizzazioni sindacali e indebolita nella lurida divisione in razze, religioni, cantoni.

Ma le prime crepe di questa odiosa impalcatura del capitale iniziano a scorgersi e i fatti ne sono una testimonianza. Infatti nel 2013 il paese è stato teatro di numerosi scioperi e manifestazioni di protesta. Ad aprile, uno sciopero di otto giorni ha paralizzato la città di Sarajevo coinvolgendo tutto il cantone. I lavoratori dell’impresa pubblica di trasporti sono entrati in sciopero contro il mancato pagamento degli arretrati. Per più di una settimana non sono circolati autobus e tram. Lo sciopero ad oltranza dei lavoratori ha scavalcato i sindacati di categoria che hanno avuto in principio un ruolo marginale e poi sono passati alla difesa dell’azienda. Come a Genova e a Seoul i lavoratori sono stati accusati di oltraggio al fantomatico bene comune dei cittadini. Gli autisti percepiscono circa 800 marchi mensili, neanche 400 euro, in media con la classe lavoratrice del Paese.

Ma questo è stato solo il più significativo di una lunga serie di scioperi, alcuni sostenuti da vari sindacati, che si sono protratti per tutto il 2013, come quello dei ferrovieri, sia della Federazione Bosniaca sia della Repubblica Srpska, che chiedevano il pagamento degli arretrati. Contro i mancati pagamenti hanno scioperato anche i vigili del fuoco e le scuole materne di Mostar, gli impiegati della BIRA, un’impresa a Bihaæ, i comunali di Sanski Most, etc. etc.

Scoppia la rabbia proletaria

Il 5 febbraio scorso a Tuzla, che era una città industriale nel Nord del paese, sono scesi in piazza migliaia di lavoratori licenziati o non pagati di diverse aziende privatizzate, tra cui la serba Dita, che produce detersivi, il mobilificio Konjuh, la Polihem e la Resod-Gumingsono. La manifestazione in poche ore si è ingrossata: in migliaia, in maggioranza proletari disoccupati, molti dei quali giovani, hanno affiancato e sostenuto i lavoratori. La tensione è cresciuta e gli scontri con le forze dell’ordine, a difesa dei palazzi del potere, sono stati inevitabili. L’eco della protesta si è diffusa in tutto il paese e due giorni dopo, il 7 febbraio, la scintilla di Tuzla ha innescato la rabbia di un proletariato in miseria che è esplosa imprevista e simultanea in decine di città.

Diverse sedi cantonali sono state prese d’assalto e quattro finite in fiamme: a Tuzla, Zenica, Mostar e Sarajevo. Nella maggior parte dei casi le manifestazioni sono state a guida operaia, e le parole più gridate contro la cattiva gestione e la chiusura delle fabbriche. In realtà la chiusura delle fabbriche a Tuzla è effetto della crisi internazionale, non certo arginabile dai governi borghesi che in questi anni si sono avvicendati nel piccolo Paese. Manifestazioni e scontri con la polizia si sono protratte per giorni, in particolare nella Federazione Croato-musulmana.

Nella capitale Sarajevo la polizia è intervenuta con proiettili di gomma e gas lacrimogeni, che non sono bastati a fermare la rabbia proletaria. A Mostar solo dopo giorni di scontri è tornata la calma e diversi organizzatori delle manifestazioni sono stati arrestati compreso un sindacalista.

I governanti dei cantoni di Sarajevo, Zenica e Tuzla si sono dimessi, così come il capo della polizia di Mostar. Le proteste si sono placate con le dimissioni di quattro governi cantonali - Tuzla, Mostar, Sarajevo e Bihaæ - e il rilascio di numerosi dimostranti arrestati.

È stata concessa la costituzione dei “Plenum”, generiche assemblee di cittadini incaricate di elaborare delle proposte economiche e sociali per il bene del Paese. Sappiamo che questo bene generico equivale al bene della classe dominante. Queste assemblee interclassiste, anche nel caso di buona volontà dei partecipanti e di forte presenza di lavoratori in esse, non potranno mai scalfire il potere e la struttura del capitale, e quindi contrastare efficacemente gli effetti della sua crisi sui lavoratori. La classe operaia dovrà mettersi in moto ed agire autonomamente dalle altre classi e cercare la solidarietà, non delle mezze classi in rovina nel proprio cantone, ma della classe lavoratrice di tutto il proprio paese e, tendenzialmente, di tutto il mondo. I “Plenum” sono sicuramente una trappola dei borghesi; se i lavoratori vi entreranno dimostreranno solo la loro debolezza ed inesperienza, privi come oggi sono, anche in Bosnia. di una sincera organizzazione economica in grado di organizzarli in fabbrica e fuori per difendersi dagli attacchi del capitale e di un partito di classe che indichi loro per tempo i pericoli a cui vanno incontro.

Il 9 febbraio, senza perder tempo, il primo ministro croato Zoran Milanoviæ si è incontrato a Mostar, città con una numerosa popolazione croata, con i leader locali, mentre il presidente della Repubblica Srpska - Milorad Dodik - si è recato in Serbia incontrando Aleksandar Vuèiæ primo vicepremier della Serbia. La paura delle borghesie croata e serba sono evidenti. Mentre le manifestazioni, salvo alcuni casi isolati, non hanno avuto alcuna connotazione né divisione etnica, i capi borghesi dei due Stati non hanno tardato a gettare benzina sul fuoco del nazionalismo fingendo di accusarsi a vicenda di tutta una serie di complotti contro la propria patria.

Contro il nazionalismo

La genuina rabbia che i proletari di Bosnia hanno riversato sui simboli del potere è stata priva di alcuna connotazione e divisione etnica, religiosa o nazionale, un esempio per tutti i lavoratori d’Europa in un periodo di crisi dove i venti di guerra si fanno sempre più intensi. E in diversi casi la rivolta ha assunto connotati esplicitamente antinazionali. A Tuzla, mentre l’edificio del governo andava in fiamme, una scritta su di un muro intimava: dimettetevi tutti - morte al nazionalismo, in un paese dove il nazionalismo, pochi anni or sono, è stato invocato per macellare migliaia di proletari su fronti opposti. In diverse città come a Monstar sia croati sia bosniaci si sono lanciati insieme all’attacco alle sedi centrali di entrambi i maggiori partiti nazionalisti, HDZ e SDA. Manifestanti di etnia croata hanno protestato anche a Livno e Orašje, mentre altri di etnia serba hanno organizzato manifestazioni, seppur in forma ridotta, a Prijedor, Banja Luka, Bijeljina e Zvornik. A Drvar, una piccola città al confine con la Croazia, un sindacato la cui maggioranza dei membri è di nazionalità serba ha appoggiato i manifestanti per la maggior parte croati.

È questa la strada che i proletari di tutto il mondo dovranno percorrere, superando le artificiali barriere della classe dominante, costruendosi una vera organizzazione di lotta per la difesa dei loro interessi, ineluttabilmente in collisione con quelli dei borghesi. La rivolta dei proletari di Bosnia, gli stessi che furono costretti dal capitale mondiale a massacrarsi a vicenda col pretesto di antistoriche superstizioni sub e pre-nazionali, hanno dimostrato come è possibile travolgerle quando monta la genuina lotta di classe. È su questa traiettoria che la classe operaia mondiale arriverà ad opporre alla guerra fra le nazioni dei borghesi la sua propria guerra fra le classi, dentro e fuori i confini del proprio paese.

Partito Comunista Internazionale

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