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Acqua contaminata a Pescara, il capitalismo avvelena

(28 Marzo 2014)

Giovedì 27 Marzo 2014

La storia dell’inquinamento ambientale e delle acque in questo giorni all’attenzione dei media è strettamente legata a quella del polo chimico di Bussi sul Tirino che ebbe un’evoluzione lungo tutto il corso del Novecento, producendo ricchezza e sviluppo industriale, ma anche una montagna di rifiuti tossici.

Nel 1926 venne creato un vero e proprio villaggio operaio, all’epoca considerato un’oasi felice, che dava lavoro a 18mila operai per questo definiti “i signori di Bussi Officine”.
Negli anni ’60, con l’acquisto della fabbrica da parte della Montedison, Bussi divenne l’”Eldorado d’Abruzzo”: tutti i terreni destinati all’agricoltura e alla viticoltura adiacenti alla fabbrica chimico-industriale vennero acquistati dal gruppo, trasformati in discariche di residuati produttivi velenosi e occultati tramite interramento lungo il corso del fiume, a monte dei pozzi da cui sgorgava l’acqua potabile che riforniva tutto il comprensorio della Val Pescara.
Nel 1999 la Montedison si sbarazzò della fabbrica e ovviamente del pericoloso fardello inquinante con la cessione dell’intero polo chimico alla Solvay.
Ora anche la Solvay chiuderà bottega dopo aver ottenuto diversi aiuti governativi, come del resto aveva già fatto prima la Montedison e dopo che il caso è emerso in tutta la sua gravità.
Era l’inizio del 2007 quando l’allora deputato d Rifondazione comunista Maurizio Acerbo presentò un’interrogazione parlamentare su un presunto ma documentato inquinamento delle acque potabili dei pozzi di Bussi sul Tirino destinate a servire oltre 700mila abitanti di tutto il comprensorio della Val Pescara.
Ad essa fecero seguito una forte campagna d’informazione, battaglie e denunce da parte di ambientalisti del WWF, Forum dell’acqua, Italia Nostra, Legambiente, Mare vivo e altri.
Primo immediato effetto di tali iniziative fu una denuncia a carico di Maurizio Acerbo per “procurato allarme”, per diffusione di notizie infondate tendenti ad allarmare la cittadinanza.
Ma, successivamente, il 17 settembre 2007 le autorità disposero la definitiva chiusura dei pozzi Sant’Angelo oggetti della protesta.
Oggi, a distanza di sette anni, la relazione che l’Istituto superiore di sanità ha presentato, nel corso del processo a carico della Montedison (accusata di aver creato ed occultato la discarica di rifiuti tossici), conferma “la pericolosità per la salute umana dei fenomeni di contaminazione delle acque nel sito di Bussi sul Tirino”.
Di fronte a questo ennesimo grave scandalo come stanno reagendo i massimi responsabili della Regione?
Gianni Chiodi, Presidente della Regionale Abruzzo: “Non sapevo nulla di questi dati. (…) Del rischio per la salute nessuno mi ha mai detto nulla altrimenti avrei preso provvedimenti”.
Mario Amicone, direttore generale dell’Arta (Agenzia regionale per la tutela dell’ambiente, nominato e da poco confermato dal presidente Gianni Chiodi): “Non ho visto la relazione dell’Istituto superiore della sanità su Bussi. (…) Le analisi sono vecchie. Ho fatto quello che gli enti (cioè la Regione Abruzzo da cui dipende, Ndr) mi hanno chiesto”.
Insomma un disastro ambientale annunciato ma figlio di nessuno e con i politici responsabili che, oramai concentrati nella campagna elettorale per le prossime elezioni regionali alla ricerca di una sospirata riconferma, cercano di smarcarsi e di tranquillizzare ancora una volta i cittadini: “oggi nessun pericolo, l’acqua si può bere”.
A tal proposito è bene ricordare ai politici, ed in primis al sindaco di Bussi di Rifondazione comunista, che in una dichiarazione inviperita rilasciata agli organi di informazione dichiara infondate e lesive le notizie, che la discarica dei veleni sta tuttora avvelenando, e lo farà ancora per parecchi anni, il fiume Pescara e il mare con conseguenze nocive per la salute della popolazione e per la conservazione dell’ambiente naturale.
Per il Polo chimico di Bussi ora si paventano due gravi emergenze da affrontare: emergenza ambientale (e per bonificare la discarica non basteranno 150 milioni di euro) ed emergenza sociale in un territorio che, dopo anni e anni di sfruttamento, rischia di restare senza prospettive produttive.
Tutta questa storia è la palese dimostrazione che la ricerca del profitto, a Bussi come a Taranto e in tante altre parti, passa sopra a tutto e a tutti con la connivenza delle istituzioni borghesi che si preoccupano solo di difendere la possibilità di fare profitti in assoluta tranquillità e sulla pelle dei lavoratori.
Ecco perché appare sempre più pressante l’esigenza di impedire le privatizzazioni, espropriare e riconvertire le aziende privatizzate, impedire la ingiustificata delocalizzazione delle aziende, nazionalizzare le aziende che producono servizi essenziali, sotto il controllo operaio sulla produzione.

Alfonso Capodicasa - FalceMartello

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