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(Il saccheggio del territorio)

La pelle del pianeta

(28 Marzo 2014)

Prefazione al libro "Contenere il consumo di suolo in Italia. Saperi ed esperienze a confronto. Raccolta multidisciplinare di saggi" a cura di Gian Franco Cartei e Luca De Lucia, Editoriale scientifica, Napoli 2014

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Questo libro giunge in un momento opportuno. Quando, cioè, la protesta per il danno subito dagli attuali e futuri abitatori del pianeta Terra a causa dell’uso irrazionale della crosta terrestre sembra trovar riscontro nella volontà dei legislatori e dei governanti nazionali e locali di correre ai ripari. I saggi raccolti nel volume ci aiutano a comprendere molte cose: dai significati che il termine “consumo di suolo può assumere alle fonti e ai metodi cui i può ricorrere per misurarlo, dai meriti ai difetti delle proposte legislative approvate o in corso di discussione in Italia ai modi che si raccomandano nell’Unione europea e che si praticano in altri paese europei per contrastarlo, ai rapporti tra il tema specifico del consumo di suolo e i punti di vista di altre discipline, quali quelle della pianificazione urbanistica e del diritto positivo.

Nell’introdurre alla lettura vorrei accennare brevemente a tre questioni. Innanzitutto vorrei riassumere le ragioni per cui si deve considerare il fenomeno del consumo di suolo uno dei segnali più preoccupanti del degrado in cui alcuni secoli della storia della civiltà e della società umana hanno condotto il pianeta che ancora abitiamo, in condivisione con altre civiltà e società. Vorrei sviluppare poi alcune considerazioni, altrettanto sintetiche, sul contributo che la politica urbanistica ed edilizia ha dato in Italia al consumo di suolo, per concludere infine con qualche appunto sul “che fare”.
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Le decisioni nascono da una pluralità di motivazioni, consapevoli o inconsapevoli. Credo che la decisione di contrastare il consumo di suolo debba nascere dalla consapevolezza che il suolo è un bene prezioso: un bene non meno prezioso dell’intelligenza o dell’amicizia, della volontà di vivere e della capacità di sopravvivere. Una consapevolezza che vedo razionalmente basata su tre serie fondamentali di argomenti razionali: che nel loro insieme definiscono le caratteristiche essenziali del suolo. Esso è, al tempo stesso, la pelle del pianeta, quindi il substrato di tutte le comunità biologiche che animano l’universo a noi noto e l’infrastruttura materiale della sua vita. E’ il palinsesto della storia delle civiltà umane, cioè l’insieme dei codici e delle narrazioni della storia collettiva dell’umanità e dei suoi condomini. E’, infine, quello che Piero Bevilacqua definisce l’”habitat dell’uomo” cioè dei luoghi, più o meno trasformati dall’interazione tra storia e natura, essenziali alla nostra vita.

Da queste sue caratteristiche discendono le molte potenziali utilizzazioni del suolo per la razza umana: la conservazione del ciclo della biosfera, la produzione degli alimenti, l’organizzazione più soddisfacente dell’habitat dell’uomo e l’uso parsimonioso delle altre risorse necessarie, preservazione e utilizzazione della storia delle civiltà

Come sa chiunque è capace di guardare al di là dell’hic et nunc le trasformazioni della civiltà umana hanno prodotto, soprattutto negli ultimi secoli, un pesante processo nell’evoluzione delle molteplici utilizzazioni del suolo: tra tutte quelle necessarie e possibili è divenuta dominante quella finalizzata all’uso del suolo come habitat dell’uomo nella forma dell’urbanizzazione: la città, gloria e dannazione della civiltà umana. Il suolo si sta gradatamente ma velocemente trasformando in una “repellente crosta di cemento e asfalto” come diceva Antonio Cederna.

Per conto mio sono profondamente convinto che decisivi in questo mortifero processo siano stati non solo la mancanza di consapevolezza del valore del suolo come bene (come patrimonio da gestire con parsimonia), ma il ruolo che ha via via assunto la rendita urbana. Di fatto, la potenzialità economica della rendita nell’economia capitalistico-borghese, e soprattutto post-borghese, esclude gradualmente le altre possibili utilizzazioni e condiziona pesantemente lo stessa “habitat dell’uomo”

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Il consumo di suolo ha molte forme. Se si vuole davvero contrastarle occorre vederle tutte, sebbene il loro peso sia diverso nei diversi contesto territoriali e sociali. L’esigenza di considerarle tutte non deriva solo dalla necessità di esercitare un controllo globale del miglior uso della pelle del pianeta, ma anche perché le diverse facce del consumo di suolo costituiscono differenti aspetti dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, del saccheggio di patrimoni comuni, e di nascita di condizioni di disagio, precarietà, povertà.

E’ consumo di suolo il land grabbing (l’accaparramento forzoso dei territori dei paesi poveri), come le altre forme di asservimento della produzione agricola al ciclo energivoro dell’economia opulenta, come è consumo di suolo la distruzione materiale della naturalità, della bellezza e della storia mediante l’espansione immotivata della la repellente crosta di cemento e asfalto.

E’ su quest’ultimo aspetto che vorrei soffermarmi, tenendo conto che non è l’unico, e che considerarli tutti nel loro insieme è necessario anche per costituire quel sistema di alleanze sociali che è essenziale per poter contrastare con efficacia il fronte degli interessi vitalmente interessati alla prosecuzione del saccheggio.

Una prima domanda bisogna porsi per comprendere come contrastare il consumo di suolo. La mia ferma opinione è che il consumo di suolo è diventato un problema nella realtà italiana nel corso degli orribili anni 80 quando si è lasciato che a quello che definisco “il ventennio della speranza” succedesse il “trentennio del saccheggio” :una fase, ahimè, che non sembra ancora seppellita.

Nel quadro del sistema giuridico-amministrativo italiano L’unico strumento idoneo a contrastare efficacemente e durevolmente il consumo di suolo è indubbiamente quello della pianificazione urbanistica e territoriale: ovviamente, ove questa sia orientata verso gli obiettivi giusti, quali quelli generalmente predicati negli atti normativi nazionali e – come sottolinea Luca De Lucia - anche regionali.

E’ la pianificazione, a tutti i livelli, che ha la missione di definire e prescrivere un soddisfacente equilibrio tra le diverse, e potenzialmente conflittuali, utilizzazioni del suolo. Del resto la componente edilizia del consumo di suolo (la più rilevante, insieme a quella delle grandi infrastrutture) è “regolata” dai piani urbanistici comunali

Gli anni 80 sono stati, fin dall’inizio, caratterizzati da una progressiva delegittimazione della pianificazione territoriale e urbana (con l’unica eccezione di quella paesaggistica. Ciò è avvenuto mediante una serie di teorie e pratiche devastanti, tutte all’insegna degli slogan dominanti a partire da quegli anni (“privato è bello”, “meno stato e più mercato”, “via i lacci e lacciuoli”). Voglio ricordare la pratica della perequazione come spalmatura generalizzata dell’edificabilità, la connessa teorizzazione dei diritti edificatori ( inesistenti per il diritto, inventati dagli autori del PRG di Roma), lo spacciare una presunta vocazione edilizia come proprietà specifica dei terreni. E voglio ricordare infine, sul piano strutturale quella caratteristica del capitalismo globalizzato che Walter Tocci ha definito il trionfo della rendita, e sul piano politico e legislativo il successo che ha accolto la proposta di legge urbanistica proposta dalla legge di Maurizio Lupi, fondata sulla mutazione della pianificazione urbanistica da compito e responsabilità dell’azione pubblica a ratifica dell’imitativa della proprietà immobiliare.
Il fatto è che l’onda globale del neoliberismo si è aggravata nella sua versione italiana, a causa anche del ruolo storico che ha avuto nel nostro paese la rendita immobiliare, e della debolezza cronica della pubblica amministrazione

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Mi sono domandato spesso della ragione per cui la gravità del fenomeno è stata avvertita così tardi. E’ una domanda che mi pongo da quando, nel 2004, decidemmo (con Mauro Baioni, Vezio De Lucia, Maria Cristina Gibelli) di dedicare la prima edizione della Scuola di eddyburg all’analisi e alla denuncia del consumo di suolo e ci accorgemmo che il tema era del tutto assente dal dibattito politico e culturale (se non in qualche studio accademico, spesso più elogiativo che critico della nuova forma di urbanizzazione).

Non so rispondere, ma c’è certamente una relazione tra questo ritardo, e l’egemonia conquistata dall’ideologia della crescita indefinita (lo “sviluppismo”), la decadenza della politica e il suo appiattimento sul giorno per giorno, la distrazione della gran parte dei saperi specialistici dagli aspetti propri della pianificazione delle città e del territorio, e infine il prevalere nell’accademia della formazione di tecnici per la gestione dei processi in atto (facilitatori) anziché di intellettuali dotati di spirito critico e quindi propositori di strade alternative.

Da allora, fortunatamente, le cose sono cambiate. Oggi “No al consumo di suolo” è diventato uno slogan di massa: il peggioramento delle condizioni materiali, i risultati del saccheggio in nome della rendita hanno suscitato reazioni estese di protesta e di puntuale proposta alternativa. Ma il “No al consumo di suolo” è diventato anche una parola passepartout (come sostenibilità, come sviluppo, come democrazia). Una retorica dietro la quale si nascondono spesso progetti di uso del suolo molto simili a quelli che abbiamo conosciuto e che condanniamo.
C’è ancora una grande confusione sul “che fare”. Le commissioni parlamentari sono affollate di proposte legislative, alcune chiaramente volte a convalidare le scelte perverse che hanno causato il saccheggio del territorio, altre semplicistiche e velleitarie, altre infine mutuate da esperienze di altri paesi il cui contesto è profondamente diverso dal nostro. I saggi raccolti in questo libro forniscono un utilissimo contributo alla comprensione di questa realtà e alla individuazione delle vie da percorrere per uscirne.

La situazione e gravissima ed è urgente dire “stop al consumo di territorio ”non solo nella retorica delle dichiarazioni d’intenti ma nella pratica tecnica, politica e amministrativa.

Molto si può già fare, a tutti i livelli. Ma occorrono almeno tre elementi. Occorre disporre, e rendere condivisa, una visione strategica sull’uso della pelle del pianeta, che sia alternativa rispetto alla miopia prevalente oggi. Occorre un dispositivo che leghi tra loro i diversi livelli di governo: le istituzioni della Repubblica, stato, regioni, province e città metropolitane, comuni.Occorre l’attivazione di procedure che consentano di dare voce informata e consapevole al “popolo sovrano” coinvolgendolo responsabilmente nel processo di decisione.

Edoardo Salzano - eddyburg.it

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