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IL PANE E LE ROSE - classe capitale e partito
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CRISI UCRAINA E RUMORI DI GUERRA:
PER UNA RIPRESA DEL MOVIMENTO ANTIMILITARISTA E CONTRO LA GUERRA.

(1 Aprile 2014)

La vicenda ucraina rappresenta solo l’anello più recente di una catena di avvenimenti della politica internazionale in direzione di una crescente conflittualità tra le principali potenze mondiali la cui evoluzione dovrebbe far scattare più di un campanello di allarme tra gli attivisti ed i pacifisti conseguenti.
La competizione non si svolge più solo con gli strumenti della finanza o della diplomazia ma sempre più spesso attraverso l’uso delle armi. Che siano inviate ai propri alleati locali nei paesi che si intende destabilizzare o usate direttamente dai propri eserciti di occupazione, dipende dai rapporti di forza momentanei e da valutazioni di opportunità.
I rumori di guerra si avvicinano in maniera crescente al centro dell’area europea ma tutto questo non sembra ridare vitalità a quel movimento contro la guerra che di fronte all’aggressione all’Iraq del 2003 seppe portare in piazza milioni di persone per denunciare la natura brigantesca di quella invasione anche se si mascherava dietro le insegne della missione umanitaria e del ripristino della legalità internazionale.
Eppure noi siamo convinti che siamo entrati in una fase in cui il confronto tra le grandi potenze non può rimanere più confinato in aree geografiche limitate ma è destinato a sfociare in uno scontro a tutto campo in cui si vanno accumulando le condizioni per un conflitto mondiale generalizzato che solo una opposizione radicale in tutti i paesi coinvolti può arrestare.
Questo testo vuole essere un invito alla riflessione collettiva per indagare le ragioni di tale latitanza e provare a ritrovare le motivazioni per una opposizione senza se e senza ma ai crescenti interventi militari comunque vengano giustificati e mascherati.

Le ragioni e gli artefici della crescente conflittualità internazionale.
Obama si era presentato come colui che avrebbe ridotto la presenza militare americana nei teatri di guerra, ma, anche se si è ritirato dall’Iraq e promette di farlo in Afghanistan, ha lasciato consistenti contingenti militari nel primo e dichiara di voler fare altrettanto nel secondo.
Nel frattempo ha proseguito la corsa al riarmo del suo predecessore ed ha aumentato l’interventismo diplomatico e militare in altre aree del mondo, anche se spesso questo avviene tramite l’utilizzo degli “asettici” droni o attraverso l’armamento di ascari locali che svolgono il lavoro sporco per conto degli USA.
L’Europa, nonostante le sue divisioni interne e la sua incapacità a muoversi come un soggetto politico e militare unitario, è impegnata, attraverso i diversi paesi che la compongono, in svariate missioni militari, con un particolare protagonismo della Francia e del suo governo “socialista” che mira chiaramente a ripristinare il controllo neocoloniale su aree geografiche rientranti nel suo vecchio impero.
L’Italia in tale contesto non è da meno avendo aumentato in questi anni la quantità delle missioni militari in cui è presente ed offrendo i propri territori e le proprie basi militari come piattaforme da cui lanciare le aggressioni militari verso paesi da disciplinare alle esigenze della grande finanza internazionale ed al capitale delle grandi potenze occidentali.
Tale è infatti la ragione principale di questo crescente interventismo militare e solo i gazzettieri asserviti alla voce del padrone possono accreditare le motivazioni umanitarie o di ripristino della democrazia addotte dai nostri governanti a giustificazione dei vari interventi che si susseguono.
Dopo la fine della guerra fredda, apparentemente, le ragioni di interventi militari esterni e di frizione tra le grandi potenze avrebbero dovuto diminuire ed invece si sono moltiplicati. Prima è stata la volta dei dittatori pericolosi per i propri paesi e per il resto del mondo, poi è venuto il turno del terrorismo islamico, peraltro adeguatamente foraggiato e sostenuto quando si trattava di destabilizzare paesi da riannettere alla propria sfera d’influenza, infine si sta tornando alla minaccia rappresentata dall’Orso Russo che, benché mutilato del suo vecchio “impero” sovietico e dopo la miserabile parentesi Eltsiniana, pretende di comportarsi a sua volta da potenza mondiale che rifiuta di accettare un ruolo subalterno nello scacchiere internazionale.
All’orizzonte si profila la nuova minaccia rappresentata dal “pericolo giallo” della Cina che, dopo essersi liberata dalla dominazione coloniale ed aver aperto a sua volta alle leggi del mercato, pretende il suo posto al tavolo delle potenze, rifiutando di restare confinata al ruolo di officina del mondo per conto del capitale internazionale occidentale che le era stato assegnato.
Ma allora perché, nonostante l’assenza, al momento, di un vero competitor paritario a livello mondiale in grado di minacciare seriamente la supremazia degli USA e delle altre potenze occidentali, si vanno moltiplicando gli interventi militari e le frizioni internazionali fino a sfiorare uno scontro mondiale?
Riteniamo che le ragioni non troppo recondite di tale aumentato interventismo militare vadano ricercate nelle crescenti difficoltà dell’economia capitalistica e in particolare di quella afferente alle aree centrali del pianeta. Dopo un lungo periodo di affanno dell’accumulazione capitalistica durato circa un trentennio, da cui si era pensato di uscire amplificando a dismisura il ruolo della finanza, le contraddizioni sistemiche dell’economia di mercato sono esplose con tutta la loro virulenza con la crisi manifesta iniziata nel 2007.
Nonostante la spaventosa finanziarizzazione avesse consentito di spostare in avanti le contraddizioni dell’economia, soprattutto scaricandone i costi su paesi periferici e sul proletariato interno, permettendo per tale via anche un relativo rilancio dell’economia nei paesi occidentali, alla fine i nodi sono venuti al pettine.
Le conseguenze sono state ancora più gravi di quelle che si intendeva evitare e l’immane castello di carta costruito con la finanza creativa è stato sul punto di crollare trascinandosi dietro l’intera economia produttiva se non fossero intervenuti gli stati a sorreggere il mondo della finanza con iniezioni di capitali regalati a fondo perduto.
Tuttavia, con un mercato entrato oramai in uno stato comatoso ed un incremento della produttività schizzata alle stelle negli anni precedenti, c’era ben poco da investire in capitale industriale per inondare di merci un mercato già saturo e non in grado di assorbire nemmeno i prodotti già esistenti. Così i grandi istituti finanziari hanno ricominciato ad investire nella finanza creativa in un circolo vizioso che si autoalimenta fino al prossimo crollo che sarà di entità ancora più consistente di quello che lo ha preceduto.
Intanto il problema si è semplicemente spostato poiché gli stati, per sostenere la finanza, si sono dissanguati portando a cifre astronomiche il proprio debito, caricandosi di una cambiale di cui diventa sempre più difficile procrastinare la scadenza. La fiducia o la tenuta del dollaro USA o dell’Euro, non ha oramai nessun nesso con i fondamentali dell’economia reale ma è principalmente legata alla forza militare che questi paesi possono mettere in campo (ecco “forse” individuata una delle principali cause della corsa al riarmo) e all’assenza di un'alternativa credibile in grado di svolgere il ruolo di moneta internazionale di riferimento.
Ma questa politica non si può impunemente procrastinare all’infinito, pena l’impietoso giudizio di quel mercato continuamente invocato come regolatore naturale dell’economia che non tarderebbe a prendere atto di trovarsi in mano - semplicemente - carta straccia, con le inevitabili conseguenze sulle economie di questi paesi e del mondo intero.
Se quindi negli anni precedenti al pieno manifestarsi della crisi economica la politica di aggressione, di rapina e di sottomissione di paesi più deboli era diventata una prassi consolidata per cercare di scaricare su altri i costi della crisi, adesso, con i pericoli di una nuova deflagrazione economica di proporzioni catastrofiche, diventa un imperativo categorico per i governi delle principali potenze occidentali.
Se tutto ciò si può ottenere con le armi della diplomazia, con i ricatti dei grandi organismi finanziari internazionali, o soffiando sul fuoco di dissensi interni a questi paesi, bene; altrimenti si procede direttamente all’intervento militare per ricondurli alla ragione e sottometterli ulteriormente alla vera dittatura del grande capitale internazionale assetato di profitti.
Non è detto che ciò possa bastare a risollevare le sorti delle economie dei grandi paesi occidentali, ma intanto rappresenta una significativa boccata di ossigeno per allontanare lo spettro di una recessione di proporzioni immani che costringerebbe ad un attacco ancora più duro alle condizioni di vita e di lavoro del proletariato interno, con le immaginabili conseguenze in termini di scontro tra le classi, finora abbastanza contenuto, ed i relativi pericoli per la conservazione del potere politico ed economico delle classi dominanti.
Ma il pianeta terra non è infinito, e nella corsa a riannettere aree del globo ci si sta pericolosamente avvicinando ad aree di influenza di potenze emergenti come la Russia e la Cina che, pur non avendo la forza finanziaria e tantomeno le capacità belliche delle potenze occidentali, non possono tollerare che si mettano in discussione le proprie “periferie” senza creare le condizioni per dover rinunciare definitivamente alle loro aspirazioni di espansione e di rafforzamento e dover in prospettiva sottomettersi esse stesse alle pretese di dominio del capitale occidentale.
In tale contesto, e sotto le impellenze della crisi assolutamente non risolta, la miscela esplosiva per l’innesco di un nuovo conflitto mondiale va accumulandosi, anche ben oltre le stesse intenzioni degli artefici del crescente interventismo militare. Essi in fondo non sono che le maschere di un regista ben più potente di loro che detta le regole del gioco in maniera ferrea: il grande capitale internazionale e le sue necessità di tutelare le esigenze di una continua accumulazione, di difendere e rafforzare i profitti e con essi i privilegi di classe che esso assicura ai suoi attori.
Quando una simile condizione si va determinando “l’incidente di percorso”, deliberatamente cercato o capitato accidentalmente, è sempre a portata di mano. Ma esso non rappresenta che l’innesco più o meno casuale di quella miscela esplosiva che deliberatamente si è contribuito ad alimentare.

Necessità della ripresa di un antimilitarismo conseguente
È paradossale che, in quello che rimane di attivisti del precedente ciclo di lotte contro la guerra, il nesso crisi - ripresa della conflittualità militare venga sostanzialmente rimosso e con esso la capacità di individuare le cause di tale accelerazione ma anche la possibilità di dotarsi di strumenti per meglio contrastarla.
Eppure siamo quotidianamente bombardati dai media che ci spiegano la gravità della crisi in atto, con relativa promessa di vedere spuntare la ripresa all’orizzonte, a patto che ci accolliamo i pesanti sacrifici e gli attacchi alle nostre condizioni di vita e di lavoro che “loro malgrado” sono costretti a rifilarci senza soluzione di continuità.
A patto di assecondare quelle “riforme” economiche e politiche che da un lato stanno aggravando il divario tra la classe borghese e quella proletaria e dall’altro trasformano in senso sempre più autoritario le istituzioni per renderle completamente impermeabili alle esigenze della stragrande maggioranza dei cittadini ed attrezzarle meglio alla repressione di chi non si piega supinamente alle supreme esigenze del mercato (cioè dei profitti).
A patto di stringerci a sostegno degli interessi nazionali nella politica estera e militare, poiché il messaggio che ci si vuole trasmettere, in maniera nemmeno tanto occulta, è che solo dal rafforzamento della nostra presenza internazionale dipende la possibilità di limitare i sacrifici che siamo costretti a subire, cioè dalla possibilità di scaricare su altri paesi i costi di questa crisi e poco importa se è necessario farlo con bombardamenti ed occupazioni militari.
Intanto quello che registriamo è un pauroso aumento delle spese militari che vengono sottratte alla possibilità di essere utilizzate come spese sociali ed una crescente militarizzazione di aree di territorio nazionale dove sono insediate le basi militari. Senza contare le conseguenze dei “nostri” interventi militari.
A tale proposito non abbiamo bisogno di fare congetture o profezie, poiché le esperienze pregresse sono li ad indicarcene i risultati. Non solo morte e distruzione per quelle popolazioni martoriate dalla nostra “esportazione di democrazia” con successiva rapina di risorse e ricchezze nazionali, ma anche piena sottomissione alle regole del mercato che si traduce, per le popolazioni locali, nella scomparsa di quella economia informale e di quel minimo di garanzie che gli consentivano di sopravvivere.
Quindi emigrazione di massa nei nostri paesi con forza lavoro ricattata e brutalizzata da leggi liberticide e razziste che li costringono ad accettare condizioni di lavoro schiavistiche, quindi investimenti in loco dopo avere smantellato qualsiasi regola e tutela del mercato del lavoro. Il tutto si traduce in un attacco generalizzato, sebbene graduato in maniera differente a tutto il mondo del lavoro, tanto quello dei paesi investiti dai nostri interventi finanziari e militari quanto quello dei paesi metropolitani a cui si chiede di plaudire a tali interventi.
Come è pensabile invertire la paurosa marcia del gambero in materia di stato sociale o di condizioni di lavoro avviata negli scorsi decenni a fronte della enorme forza di ricatto che il crescente interventismo economico e militare fornisce ai nostri avversari di classe?
Oramai siamo alle richieste esplicite di accettazione di tagli salariali e condizioni di lavoro più esose sotto la minaccia del trasferimento delle aziende in altri siti precedentemente democratizzati a suon di ricette del FMI e, quando non bastava, con bombardamenti ed occupazioni militari. Questo, quando va bene, perché in molti casi sono talmente vantaggiose le condizioni del mercato del lavoro in questi paesi che si passa alla chiusura dell’insediamento produttivo senza nessun preavviso per riaprilo in un contesto più favorevole.
Come si vede esistono mille ed una ragioni per fare della opposizione al militarismo un perno centrale della lotta per difendersi dal generale peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Senza tale centralità della lotta alla guerra le pur generose lotte di difesa aziendali o territoriali sono destinate a soccombere o ad accettare il meno peggio, sperando di limitare i danni, fornendo in tal modo ulteriore forza per nuove e più esose richieste da parte dei governanti e dei padroni.
Non è solo a causa della politica collaborazionista seguita dai sindacati istituzionali che la maggior parte delle lotte sui luoghi di lavoro negli ultimi anni si è trasformata in episodi di disperazione in cui ci si appellava alle istituzioni di turno per non essere sbattuti in mezzo ad una strada, ma per la consapevolezza da parte dei lavoratori che la enorme frammentazione del mercato del lavoro a scala internazionale ha messo in mano ai padroni una forza tale che una singola vertenza, per quanto combattiva, non può contrastare efficacemente.
A tutto ciò si aggiunge una ragione ancora più decisiva. Come abbiamo visto, ci si sta avvicinando a passi da gigante verso la possibilità di un nuovo conflitto mondiale che vedrebbe coinvolte tutte le regioni del globo terrestre con conseguenze terrificanti per la stessa sopravvivenza del genere umano, viste le capacità distruttive degli armamenti in mano ai vari contendenti.
Le precedenti guerre mondiali, ed ancora di più le aggressioni militari degli ultimi anni, ci hanno dimostrato che le guerre oramai non si combattono solo tra gli eserciti, ma coinvolgono direttamente la popolazione civile. Anzi, nelle strategie militari moderne, uno degli obiettivi principali è quello di colpire gli apparati
produttivi e gli insediamenti urbani dei propri avversari per fiaccarne le capacità di resistenza e terrorizzare la popolazione per spingerla a ribellarsi ai propri governanti.
Ma un nuovo conflitto mondiale non sarebbe una guerra asimmetrica come quelle di aggressione condotte negli ultimi anni dalle potenze occidentali, dove si andava a seminare morte e distruzione, con un bagaglio di armamenti assolutamente imparagonabile tra di loro e sapendo bene che i propri avversari non avevano i mezzi per colpire i propri territori.
Per quanti scudi antimissilistici possano illudersi di costruire e per quanto vi sia ancora una notevole disparità di armamenti tra USA, Europa, Russia e Cina, possiamo essere certi che tutte le popolazioni di paesi coinvolti in un nuovo conflitto mondiale pagherebbero un prezzo inimmaginabile in termini di distruzione e di vite umane, al punto che i milioni di morti del II conflitto mondiale sembrerebbero delle inezie.
In breve, un eventuale conflitto mondiale rappresenta la forma più acuta e micidiale di quella guerra di classe contro il proletariato già in atto da parte dei nostri avversari. Essa si prefigge molteplici scopi: una lotta all’ultimo sangue tra diverse potenze mondiali per accaparrarsi aree di influenza economica a discapito dei propri concorrenti politici ed economici; provocare un’immane distruzione di beni materiali e di vite umane in modo da creare le condizioni di un’effettiva ripresa economica e ridurre la sovrappopolazione in eccesso a cui il capitalismo non riesce più a garantire nemmeno la sopravvivenza; prevenire una insorgenza di carattere rivoluzionario potenzialmente innescata dalle inevitabili reazioni che il progressivo peggioramento delle condizioni di sfruttamento e di vita non mancherebbero di determinare con conseguente pericolo per la sopravvivenza stessa di questo disumano sistema di relazioni sociali.
Insomma, uno scontro tra predoni e criminali, questi sì contro l’umanità intera, nella lotta per la supremazia e la difesa dei profitti, obiettivo supremo per il quale le distruzioni e le morti provocate rappresentano solo un effetto collaterale, ma soprattutto un atto di guerra di tutte le borghesie contro il proletariato mondiale a cui si propone di scannarsi contro i propri fratelli di classe dietro le bandiere di un rinnovato patriottismo e nazionalismo che è da sempre l’insegna di tutte le canaglie per mascherare la propria inesauribile sete di profitti.
Siamo consapevoli della gravità della prospettiva da noi evidenziata, ma proprio per questo riteniamo urgente una ripresa della denuncia del crescente militarismo e della necessità della lotta alla guerra non come aspetto ideologico sentimentale, ma come compito immediato e continuativo di tutti coloro che non intendono assistere passivamente alla concretizzazione di una simile evenienza.
Solo una radicale e generale lotta contro la guerra in tutti i paesi potrà fermare questa follia che il capitalismo ha già dimostrato di essere capace di perseguire per ben due volte incurante delle conseguenze provocate, anzi trovando in essa nuova linfa per rilanciare l’accumulazione ed i profitti, come del resto fa già, in piccolo, con tutti i disastri naturali o da esso provocati quotidianamente.
Di fronte ad una simile prospettiva infatti non esistono alternative o mezzi termini se non un’opposizione radicale che miri alla crescente riunificazione del proletariato internazionale, e di tutti coloro che intendono impedirla, contro il capitale e la borghesia internazionale, per l’affermazione dei propri separati e contrapposti interessi di classe. È questo l’unico modo che abbiamo per contrastare la deriva verso un compattamento sciovinistico e nazionalistico, destinato a provocare uno scontro fratricida dalle conseguenze terrificanti.
Non è una strada semplice perché oggi i lavoratori ed il resto del proletariato sono nella maggioranza dei casi sulla difensiva ed assorbiti dai problemi della sopravvivenza quotidiana che non li vede uniti nemmeno nella difesa delle proprie condizioni di vita immediata.
Anzi, gli arretramenti subiti negli scorsi anni e ancor più quelli che si prospettano per il futuro, spingono nella direzione della ricerca di soluzioni particolaristiche, del minimo sforzo, rendendoli spesso preda della propaganda di quelle tendenze politiche che, contro le conseguenze della globalizzazione, propongono reazionarie soluzioni localistiche o ipernazionalistiche, fondate su un interclassismo ancora più spinto di quello attuale e sulla ancora più radicale separazione e contrapposizione tra proletari.
Ma questo in parte dipende anche dal fatto che quanto residua delle forze politiche della sinistra praticano un liberismo sfrenato che fa a gara con la destra storica nel rivendicare il pieno trionfo delle leggi di mercato e la piena sottomissione ad esse come panacea per futuri, quanto impossibili, miglioramenti e allo stesso tempo dalla mancanza di ogni credibile prospettiva di tornare a battersi come classe internazionale che, proprio a causa delle conseguenze della globalizzazione, può sperare di difendersi solo a condizione di lottare unitariamente contro i comuni nemici che la sfruttano e la opprimono.
Perciò è decisivo da subito delineare una tendenza contro il militarismo e contro la guerra in grado di denunziare e contrastare già oggi ogni singolo passaggio di preparazione ad un clima bellicista e di union sacrée, di ogni atto che mira ad intruppare i proletari di ogni singolo paese dietro le proprie classi dominanti.
Nessuna solidarietà con i nostri oppressori e sfruttatori che per i loro interessi si apprestano a portarci verso un nuovo macello mondiale, nessuna accettazione di compatibilità e sacrifici in nome dell’unità nazionale. A fronte della richiesta di schierarci contro il nemico esterno il nostro grido di battaglia non può che essere tale:
IL NEMICO È IN CASA NOSTRA E PRETENDE DI MARCIARE ALLA NOSTRA TESTA

SECONDA PARTE

Da dove viene la crisi ucraina
La crisi ucraina non può essere compresa solo alla luce delle sue dinamiche interne come se fosse qualcosa di avulso dallo scenario di crisi economica internazionale e dal confronto sempre più stringente tra grandi potenze per la lotta alla conquista di aree di influenza da sottrarre ai propri concorrenti. In tale maniera si rischia di guardare agli effetti senza riuscire ad individuare le cause che stanno a monte di tale crisi.
Dovrebbe essere evidente infatti che la reazione della Russia con l’occupazione di fatto della Crimea è dettata dall'ultra-ventennale intromissione di USA ed Unione Europea negli affari interni dell’Ucraina nel tentativo di sottrarla alla storica ed altrettanto interessata tutela della Russia.
Dalla disintegrazione della ex URSS del 1991 e poi successivamente con la sponsorizzazione e promozione della cosiddetta Rivoluzione Arancione del 2004, per finire ai tentativi di associare l’Ucraina alla UE che hanno dato avvio al recente ciclo di proteste, culminato nel colpo di stato, il lavorio di manomissione delle potenze occidentali non ha mai smesso di operare.
Come abbiamo affermato nella prima parte, oggi sono proprio le economie dei paesi occidentali ad essere maggiormente in difficoltà, con un bisogno disperato di scaricare i costi della crisi su altre aree del pianeta, ma anche di stoppare sul nascere le ambizioni delle potenze emergenti di rafforzare ed allargare una propria area di influenza tale da consentire loro di competere con i principali concorrenti.
Rispetto ad altri paesi dell’ex blocco sovietico, l’Ucraina, proprio per la posizione geopolitica occupata, per la sua rilevanza strategica per la Russia e la relativa integrazione con il suo sistema economico, ha potuto consentirsi negli anni precedenti di non essere investita dalla stessa ondata liberista. Non che non si fosse proceduto allo smantellamento di quell’economia statalizzata che aveva ereditato dall’esperienza sovietica, ma tutto ciò si era trasformato prevalentemente in un passaggio di mano della proprietà senza che fosse sostanzialmente sconvolto il proprio apparato produttivo.
Questo ha consentito la creazione di un’oligarchia politica ed economica in gran parte emanazione della vecchia classe dirigente riciclata, ma ha anche determinato una situazione in cui i lavoratori, pur avendo subito netti arretramenti rispetto alla situazione precedente alla deflagrazione del blocco sovietico, non sono stati sottoposti agli identici sconvolgimenti subiti dai proletari dei paesi vicini.
Ciò è stato vero soprattutto per l’area più industrializzata del paese che corrisponde al sud e all’est; non a caso quella meno coinvolta dalle proteste recenti anche perché vede una maggiore presenza di popolazione russofona, meno sensibile, al momento, alle sirene filo-occidentali.
I vari governi che si sono succeduti in questi anni hanno utilizzato tale posizione strategica per barcamenarsi tra le condizioni di favore garantite dalla Russia in termini di fornitura di materie prime (soprattutto energetiche) e di mercato di sbocco per le proprie merci assolutamente non competitive sui mercati occidentali, e le profferte di adesione all’area dell’Euro.
Una posizione di galleggiamento non in grado comunque di frenare quel progressivo fenomeno di erosione dei margini di manovra che sono precipitati nel corso degli ultimi anni, quando la crisi economica internazionale ha ulteriormente aggravato la situazione in Ucraina, le cui esportazioni sono calate del 40% nel primo semestre 2013 (-50% solo per l’acciaio), le importazioni del 51%, il commercio al dettaglio del 15%. Unico dato positivo l’agricoltura (+3%), sempre di più gestita, comunque, da proprietari cinesi che utilizzano nei campi la loro manodopera a scapito di quella locale.
È in tale contesto che le pressioni occidentali per un legame più stretto con l’area Euro e, in prospettiva, per un inserimento nel dispositivo NATO, si sono incrociate col malessere crescente di una parte di popolazione su cui maggiormente si facevano sentire gli effetti della crisi economica e delle sue conseguenze sul paese e per la quale i fenomeni di diffusa corruzione diventavano intollerabili.
Anche se la scintilla delle proteste è stata la mancata sottoscrizione dell’accordo di associazione all’Unione Europea, vista come possibile alternativa alla stagnazione derivante dalla dipendenza dall’economia russa, la causa della significativa adesione alle proteste nell’area occidentale dell’Ucraina stava nelle ragioni su riportate.
A ciò si è aggiunta la consistente mobilitazione delle forze di estrema destra, debitamente finanziate e armate dalle potenze occidentali, che maggiormente hanno dato una caratteristica russofoba alle proteste,
connotandone il profilo in senso radicalmente nazionalista, anticomunista e antisemita, e soprattutto hanno costituito la testa d’ariete militare contro un regime oramai allo sbando.
Il comportamento di decisivi apparati dello stato, il pronto salto della quaglia di importanti oligarchi, consapevoli dell’aria che tirava, dimostrano chiaramente che la diplomazia e le pressioni dei paesi occidentali erano già riuscite a corrompere e destabilizzare alcuni importanti settori delle istituzioni in maniera molto maggiore di quanto potesse fare la piazza di Maidan.
Come spiegare altrimenti la gestione dilettantesca e quasi suicida delle forze di polizia durante i momenti decisivi dello scontro; come spiegare il vero e proprio colpo di stato, determinatosi dal voto in parlamento degli stessi rappresentanti del partito di governo per la destituzione del presidente in carica, Yanukovich, quando si trattava di ratificare l’accordo raggiunto con le opposizioni?
A mobilitarsi non è stata la parte maggioritaria della popolazione, ed il movimento ha coinvolto soprattutto la parte ovest del paese, quella che ha maggiori ragioni storiche di risentimento contro la tutela russa, per le trascorse vicende della collettivizzazione forzata delle campagne in epoca staliniana e che risente in misura maggiore delle conseguenze della crisi.
Gli operai ed il resto dei lavoratori dipendenti sono stati totalmente assenti dalle mobilitazioni in quanto classe con interessi specifici da far valere, e ciò è stato vero anche nell’area ovest del paese. Non è da escludere che la composizione di piazza vedesse la presenza anche di figure proletarie ma tale eventuale partecipazione è avvenuta a titolo individuale, in quanto cittadini e non come lavoratori organizzati. Tanto è vero che i diversi tentativi di promuovere scioperi da parte dei ribelli non hanno avuto nessun seguito.
Certo è che gli esiti di quella rivolta hanno aumentato ancora di più la diffidenza da parte dei lavoratori, i quali giustamente individuano negli impegni che ci si appresta a prendere con il FMI una minaccia ulteriore per quel residuo di compromesso sociale ancora esistente e spiega altresì perché le tendenze russofile si vanno affermando non solo in Crimea ma anche nelle altre aree del paese con forte presenza russofona.
Quindi, anche se guardare agli eventi ucraini solo in ottica “complottistica” sarebbe riduttivo e fuorviante, è altrettanto evidente che senza l’intervento delle potenze occidentali e delle proprie appendici interne la rivolta in corso non avrebbe mai avuto la possibilità di affermarsi e di abbattere il governo esistente.
Un sostegno alquanto interessato, visto che, a fronte delle resistenze del legittimo governo ad aderire al trattato con la UE e a sottostare supinamente alle sue ricette, si aprivano la possibilità di fare un unico boccone di un paese di circa 50 milione di persone da sottoporre al regime dittatoriale della grande finanza.
Le condizioni imposte dai prestiti accordati dal FMI e dall’Unione Europea non mirano solo a scompaginare definitivamente il mercato del lavoro del paese cui accedere a costi e condizioni ultra-favorevoli, ma anche alla penetrazione del capitale finanziario occidentale che potrà dissanguare impunemente le risorse del paese, imponendo un liberismo ed una privatizzazione sfrenata, al cui confronto i privilegi ed i profitti degli attuali oligarchi sembreranno bazzecole.

Un tassello decisivo dello scontro internazionale tra le grandi potenze
Gli Stati Uniti, dopo aver subito lo smacco di non poter effettuare un intervento militare diretto in Siria proprio a causa dell’opposizione russa, hanno messo a segno un punto importante nella manovra di accerchiamento nei confronti di Mosca, per ridimensionare le sue aspirazioni di potenza mondiale.
Sganciata dalle condizioni di favore garantite dalla Russia e considerando le difficoltà economiche in cui si muove, l’Ucraina non ha altra scelta che quella di piegarsi alle ricette lacrime e sangue di FMI e BCE, ma anche di accettare la protezione militare NATO di cui diventerà un nuovo avamposto, portando la sfida militare a Putin fin sotto l’uscio di casa.
C’è da meravigliarsi se il governo russo ha reagito, intanto, riprendendosi la Crimea, tra l’altro storicamente a stragrande maggioranza russofona? In termini geopolitici si tratta di una mossa difensiva che è indicativa soprattutto della relativa debolezza russa nella sfida che gli è stata lanciata, come nei fatti riconosce lo stesso Obama, nonostante utilizzi tale mossa per isolare ancora di più la Russia e per colpirla con sanzioni che vanno via via rafforzandosi anche se con le perplessità di alcuni paesi europei.
Questi infatti, ed in particolare la Germania, dopo avere soffiato sul fuoco del cambio di regime a Kiev ed insistito per la sua adesione all’area dell’Euro, si sono visti sfilare dagli USA, sotto gli occhi, la possibilità di piazzare un proprio uomo alla testa del governo ucraino, mentre il rapido peggioramento delle relazioni con Mosca crea non pochi problemi nell’immediato.
Innanzitutto, dal punto di vista dell’approvvigionamento energetico, che Obama si è offerto subito di sostituire ma che sarà impossibile realizzare nel giro di pochi mesi; in secondo luogo per le conseguenze delle sanzioni ed in generale il peggioramento dell’inter-scambio commerciale con la Russia che rappresenta una fetta non secondaria sul totale. In ultimo, ma primo per importanza, il drastico peggioramento della relazioni
politiche con la Russia sta consentendo ad Obama di accorpare intorno alla sua strategia di scontro frontale immediato anche i paesi europei più recalcitranti.
La politica di buon vicinato infatti ha consentito a molti di questi paesi, ancora una volta Germania in primis, ma non ultima l’Italia (il legame tra Berlusconi e Putin non è dettato solo dalla simpatia reciproca per la condivisione di alcuni “valori” e comportamenti, ma dipende molto dagli affari tra i due paesi), di avere un significativo sbocco per i propri capitali e le proprie merci.
L’aggressività statunitense verso la Russia rappresenta di fatto anche un tentativo, al momento riuscito, di disciplinare gli alleati-concorrenti europei e di ridimensionare qualsiasi velleità di praticare rapporti privilegiati o proprie strategie verso altri paesi che possano pregiudicare i disegni statunitensi di restare il dominus del blocco imperialista occidentale.
Resta il fatto che la Russia non può assistere passivamente al suo progressivo accerchiamento economico, politico e militare, pena doversi contentare al massimo del ruolo di potenza regionale, come Obama spregiativamente non manca di sottolineare, peraltro in una posizione subordinata e dipendente dalla altre potenze mondiali.
L’obiettivo statunitense infatti è quello di determinare un pesante isolamento della Russia. Attraverso un incrudimento della politica delle sanzioni, attualmente ancora abbastanza blande, si punta a privarla delle sue maggiori entrate dovute alla vendita di prodotti energetici di cui è ricca, frustrando le sue aspirazioni ad utilizzare tali introiti per la ristrutturazione e l'adeguamento del proprio apparato produttivo e del mantenimento di una propria area economica relativamente protetta dalla concorrenza occidentale.
Tale politica, insieme all’impulso che l’attuale crisi fornisce alla corsa al riarmo, nelle intenzioni USA punta a rieditare i meccanismi di implosione che determinarono il crollo dell’URSS, in cui le crescenti spese militari diedero una spinta decisiva al definitivo dissanguamento di un’economia già in affanno e in ritardo rispetto al “turbo-capitalismo” occidentale.
Ma il metodo di continuare ad alzare la posta di tale micidiale partita a poker, sperando che l’avversario abbandoni il tavolo, può rivelarsi un azzardo poiché c’è sempre l’eventualità che l’altro giocatore decida di giocarsi il tutto per tutto, non vedendo altre possibilità per non soccombere miseramente.
Una ipotesi non esclusa nemmeno dagli strateghi statunitensi poiché avvicinerebbe quella resa dei conti definitiva considerata inevitabile, che si ritiene di poter affrontare attualmente nelle condizioni a sé più favorevoli. Tra l’altro una eventuale precipitazione di tipo militare dello scontro in atto avrebbe il vantaggio di costringere gli europei ad accodarsi piattamente alle scelte statunitensi, sancendo definitivamente il loro ruolo di alleati subordinati ed avverrebbe prima che si possa consolidare quell’asse Mosca - Pechino, che, sia pure per ragioni difensive, si va sempre più delineando all’orizzonte come scelta obbligata per resistere all’offensiva del blocco a guida statunitense.
In tale contesto, la stessa eventualità di un’estensione delle aree dell’Ucraina con forte presenza russofona da riannettere alla Russia, per limitare i danni subiti dal cambio di regime a Kiev, non farebbe altro che rafforzare la strategia USA di compattamento del fronte occidentale e radicalizzare i toni dello scontro con la stessa Russia.

Da che parte stare: contro il “nostro” imperialismo
Come si vede la mancata discesa in campo del proletariato su proprie autonome posizioni di classe rende i movimenti di protesta, anche quando motivati da sacrosante ragioni di malessere sociale, preda dei maneggi delle classi dominanti interne al proprio paese e soprattutto di quelli delle grandi potenze, nella feroce lotta per ridisegnare le proprie aree di competenza.
Non meno pesante è l’assenza di un movimento proletario unitario ed indipendente dai vari schieramenti borghesi a scala internazionale, in grado di contrastare le manovre delle potenze mondiali ed offrire una prospettiva che non obblighi a scegliere tra la padella e la brace dei diversi fronti contendenti.
Per tale motivo, non abbiamo uno schieramento da scegliere nella contesa in atto, poiché ci troveremmo nella posizione di favorire i disegni dei nostri governanti se ci si associasse alla campagna mediatica tesa a criminalizzare il regime di turno oggetto delle manovre imperialiste.
Ma non è praticabile nemmeno la strada del sostegno al fronte avverso secondo la logica per cui “il nemico del mio nemico è mio amico” poiché, per quanto ci si trovi spesso di fronte a regimi più deboli, questi sono comunque espressione delle classi dominanti di quel paese e delle esigenze del capitalismo locale, ma soprattutto perché essi sono associati ad altre grandi potenze ai cui interessi, non diversamente capitalistici, ci si troverebbe accodati.
Il nostro compito non può essere altro che quello di denunciare le responsabilità dei “nostri” governanti e contrastare implacabilmente le politiche militariste di cui si rendono protagonisti, a cominciare dalle
campagne di opinione che mirano a creare consenso verso quel clima di unità nazionale e di criminalizzazione del nemico, condizione imprescindibile per qualsiasi avventura militarista.
La gestione della vicenda dei “due marò” in India è solo l’esempio più clamoroso e farsesco, al tempo stesso, di tale attitudine, che solo un clima da vero e proprio regime ha potuto consentire di presentare come “due eroi” che difendevano la democrazia in giro per il mondo.
Ma potremmo citare la vicenda libica e quella siriana per restare agli episodi più recenti di mistificazioni, di mire imperialiste e di aggressione verso altri paesi, mascherati dietro le insegne degli interventi umanitari e della difesa della democrazia.
In nessuno di questi casi abbiamo sentito forte la voce del pacifismo né quella degli attivisti della sinistra radicale denunciare i veri obiettivi di questa politica, ma in compenso abbiamo dovuto assistere, anche presso settori di queste compagini, al suo sostegno esplicito o implicito in nome della difesa dei rivoltosi in campo, in nome della democrazia e dei diritti civili violati.
Come se l’obiettivo dei nostri governanti fosse veramente abbattere il dittatore di turno per portare in questi paesi la democrazia e non piuttosto sostituire il regime esistente con una dittatura mille volte più carognesca imposta con micidiali armi di distruzione di massa per fare largo ai propri capitali.
Nel caso specifico della vicenda ucraina, abbiamo assistito alle grida contro la democrazia ivi calpestata dal governo, come se nella ultra-democratica Italia e negli altri paesi occidentali fosse consentito scendere in piazza, per altro armati di tutto punto, per imporre la caduta di un governo regolarmente eletto.
E questo negli stessi giorni in cui i NO TAV per aver, forse, danneggiato qualche macchinario, sono accusati di terrorismo, mentre i disoccupati a Napoli o i senza casa a Roma venivano imputati per associazione a delinquere al fine di “estorcere” con la lotta un miglioramento delle loro condizioni di vita.
Se tutto questo non bastasse, vorremmo ricordare che in Italia siamo di fronte al terzo governo di fila che viene formalizzato senza essere investito da un responso elettorale e che, per evitare futuri impacci, si sta provvedendo a preparare una riforma elettorale tale da far impallidire i sistemi di voto presenti nei cosiddetti paesi a regime dittatoriale. Ma per questo nessuno grida alla democrazia violata o alla necessità di un intervento militare che ci venga a liberare da questo odioso regime.
Ad ulteriore conferma di quanto sia strabica la visione della nostra stampa nel denunciare crimini veri o presunti e quella di certi pacifisti di indignarsi a comando, stanno la vicenda egiziana e quella palestinese. Nel primo caso, abbiamo avuto una condanna collettiva a morte di 600 persone, colpevoli di sostenere un governo anch’esso regolarmente eletto e deposto da un colpo di stato, mentre se ne annuncia un’altra di proporzioni ancora più consistenti.
Intanto a Gaza, nel silenzio assordante della stampa, procede la politica di vero e proprio strangolamento di un’intera popolazione da parte del governo israeliano con la fattiva collaborazione del laico ed arabo governo egiziano. Ma forse i nostri capitali investiti in Egitto e le buone relazioni politiche ed economiche con Israele contano molto di più delle esecuzioni di massa e del genocidio che si va perpetrando nei confronti della popolazione di Gaza.
Mettere in evidenza le ragioni economiche dell’avvicinarsi del clima di guerra è necessario per denunciare che i conflitti militari in cui sono impegnate le nostre truppe non sono altra cosa dalla guerra ultra-decennale, ed in via di accentuazione, dichiarata dai governi e dai padroni alle nostre condizioni di vita e di lavoro, ma ne rappresenta semplicemente l’altra faccia della medaglia.
Un esito obbligato, se non viene efficacemente contrastato, di un’economia fondata sulla continua ricerca di maggiori profitti e che, nonostante l’enorme incremento dello sfruttamento di questi anni, tanto nel centro quanto nelle periferie, non riesce a risollevarsi dalle insanabili contraddizioni da essa stessa determinate.
Per quanto ci riguarda si tratta di prenderne atto e trarne le conseguenze per avviare un impegno, il più ampio e condiviso possibile, di documentazione e contrasto al crescente militarismo, strettamente intrecciato alle mobilitazioni per la difesa delle nostre condizioni di vita, contro la causa di tutte le nostre sofferenze e lo sfruttamento che dobbiamo subire: il dominio del capitale e della sua insaziabile sete di profitti.

RETE NAPOLI NOWAR

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