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Si apre una finestra sui metodi della polizia italiana

(14 Maggio 2010) Enzo Apicella
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La verità nel pozzo, ovvero come si costruisce il senso comune fascista

(11 Febbraio 2005)

“a Pola xe l’Arena/ la Foiba xe a Pisin
che i buta zo in quel fondo/ chi ga certi morbin”
(Canzoncina fascista antislava)


Una volta la formazione della “coscienza nazionale” era affidata ai grandi romanzi storici, Ettore Fieramosca o Marco Visconti, senza voler scomodare I promessi sposi, o a poeti come Foscolo e Alfieri, le cui ossa fremevano amor di patria. Quando a chiamare l’Italia “patria” erano in maggioranza. Ora bisogna accontentarci di Alberto Negrin e Leo Gullotta, artisti (ci dicono) di sinistra, prestati (speriamo temporaneamente) alla destra, e del loro Cuore nel pozzo, una “fiction” storica, che però non è un romanzone storico, che parla di foibe ed esodi e vanta la consulenza di Giovanni Sabbatucci, ma è un “racconto di sentimenti” senza pretese storiche, come dice il suo regista. Questa sfilza di affermazioni che si contraddicono dovrebbero evitare allo sceneggiato una critica storica e una critica estetica. Non si può criticare sul piano scrupolosità storica una storia di sentimenti, e come si può dare un giudizio estetico a una tragedia così struggente, senza cadere nella prosaicità e nell’insensibilità?

In realtà il senso del Cuore nel pozzo è un’operazione politica tesa alla costruzione di un senso comune nazionalista anticomunista, utilizzando il capro espiatorio della “violenza slava” contro i poveri italiani, progettata a tavolino dal ministro neofascista della Cultura popolare Gasparri, già dal 2002. In un’intervista alla Stampa, il 18 aprile 2002, Gasparri dichiarava: “Penso che sarebbe più efficace una fiction che raccontasse la storia di una di quelle povere famiglie. Sono grandi tragedie. Come quella dell'Olocausto o di Anna Frank.” E la Rai ha servilmente ubbidito alle direttive del Goebbelsino di casa nostra. Una Rai che non ha mai mandato in onda Fascist Legacy, documentario della Bbc sui crimini italiani in Jugoslavia, Libia e Etiopia, acquistato già dal nel 1989. In un paese nel quale in pratica si vieta la proiezione del Leone del deserto, film sulla resistenza araba all’occupazione italiana della Libia.

Che si tratti di un’operazione politica è dimostrato anche dalla proiezione dell’anteprima alla vigilia e nella stessa sede, il Palazzo dei Congressi all’Eur di Roma, della conferenza di celebrazione dei 10 anni di Alleanza Nazionale, ovvero dalla vestizione in doppiopetto del partito neofascista che, è bene ricordarlo, mantiene ancora nello stemma il catafalco di Mussolini. E dal sito di An si accede direttamente, tramite un link, a quello dello sceneggiato. “Fiction” servita, dunque. Che si tratti di una strumentalizzazione orchestrata a tavolino se ne deve essere accorto lo stesso Leo Gullotta, che a un certo punto ha abbandonato la sala dell’anteprima.

Una fiction che fa scempio della verità storica, anch’essa finita nel pozzo, infoibata con i corpi di tanti innocenti, slavi e italiani, la cui fine è da addebitare a una guerra, voluta dai nazifascisti, di aggressione alle popolazioni Jugoslave. E non al sadismo di qualche capo partigiano jugoslavo come Novak.

Già a partire dai titoli di testa lo sceneggiato prende per buone le cifre delle “migliaia e migliaia” di infoibati. Cifra diffusa dall’estrema destra, già a partire dalla riconquista italotedesca del 1943, poi rafforzata nel dopoguerra da “storici” come Luigi Papo e altri. Dopo la breve parentesi del potere popolare nel 1943, il ritorno dei nazifascisti è stata accompagnata da esecuzioni di massa di partigiani e civili, antifascisti jugoslavi e soldati italiani che non volevano combattere nelle file della Rsi. A giustificare queste rappresaglie venne costruita la menzogna delle migliaia di infoibati italiani. Le denunce di scomparsi, dopo il 1943 e dopo il 1945, in totale sono di circa 10.500, tra vittime degli scontri e della guerra di liberazione, morti in combattimento o nei campi di concentramento, tra italiani e jugoslavi. Gran parte di questi erano collaborazionisti e fascisti, tantissimi gli slavi e gli antifascisti infoibati durante il ventennio o tra il ’43 e il ‘45. Giacomo Scotti, nel suo “Le foibe fasciste che nessuno ricorda”, riporta che su 400 vittime nelle foibe istriane del 1943 oltre la metà avevano cognomi slavi italianizzati. Lo stesso Scotti, citando fonti triestine, tra cui lo storico Galliano Fogar o l’ex sindaco di Trieste, riporta le vittime degli infoibamenti ad alcune centinaia.

Eppure la sola federazione fascista di Trieste, già nel 1921, conta circa 14.000 iscritti. E’ la più importante d’Italia. Mentre decine di migliaia di italiani, fascisti o semplicemente opportunisti, avevano partecipato alla cacciata degli slavi dalle loro terre, alla spoliazione delle loro proprietà. La politica di snazionalizzazione di Mussolini venne perseguita tramite l’espulsione di croati e sloveni e l’incoraggiamento agli italiani perché occupassero le terre abbandonate. La canzoncina riportata in testa (riferita da un intervento di Giacomo Scotti) minaccia di infoibamento chiunque si opponga all’italianizzazione delle terre slave di confine. Nonostante questo, non si sviluppò tra le popolazioni slave un odio antitaliano, in quanto tale. E contrariamente a quello che racconta l’alpino Fiorello nello sceneggiato, i titini salvarono migliaia e migliaia di soldati italiani. Alcuni si unirono all’Esercito di liberazione jugoslavo, come la divisione “Garibaldi” in Montenegro, diretta da ufficiali badogliani, che combatterono fianco a fianco degli jugoslavi contro i nazifascisti; altri vennero rifocillati e fatti tornare a casa; altri ancora ospitati dalla popolazione serba, croata o slovena fino al termine della guerra. Scotti ricorda ancora l’episodio dei 3000 marinai di leva che vennero imbarcati su un treno diretto in Germania per essere deportati, scortati da qualche centinaio di tedeschi, che li avevano ricevuti in consegna dai “patrioti” della Repubblica di Salò. Bene, i partigiani jugoslavi fermarono il treno e liberarono i marinai italiani, che così, aiutati dalle popolazioni locali, riuscirono a raggiungere l’Italia. Alcune decine si unirono ai partigiani nella loro lotta di liberazione. Come racconta Tomislav Ravnic,[segretario delll’Unione soldati antifascisti della Croazia], gli antifascisti croati sono sconvolti dal fatto che i media italiani scrivano che i partigiani uccidevano gli Italiani solo in quanto Italiani. "Questa è una menzogna – dichiara Ravnic – quando nel 1943 abbiamo catturato 15.800 soldati italiani, non gli è successo nulla. Avevamo un rapporto umano nei confronti dei prigionieri italiani. E' per questo che io dico a Berlusconi, a Fini e alla compagnia che dovrebbero inchinarsi di fronte ai nostri soldati che hanno salvato migliaia di persone. I partigiani non hanno ucciso gli Italiani, ma i fascisti che sono stati condannati dai Tribunali nazionali." (riportato dal sito Osservatorio sui Balcani, 7 febbraio 2005)

Quindi la “confessione” di Ettore-Fiorello al Don Bruno-Gullotta è priva di ogni fondamento.

In realtà la fiction confonde volutamente due periodi storici, riportando episodi del 1943 al 1945. Ma forse al momento Sabbatucci era distratto. Lo scopo è una mistificazione ideologica ben precisa. Si vuol dare infatti l’idea del soldato italiano sbandato, che appartiene a dopo l’armistizio del 1943. Ma la vicenda si svolge nel 1945, dopo il ritiro tedesco. Anche allora c’erano “soldati” italiani, ma erano quelli che avevano scelto, volontariamente, di combattere nelle file della Rsi. Altro che soldati pacifisti. Sul piano della ricostruzione regge poco l’escamotage che Ettore-Fiorello è un reduce dell’Armir, soprattutto quando si rimprovera d’aver abbandonato il fucile. Oggi sappiamo che oltre 600.000 militari italiani rifiutarono di combattere per il Duce dopo l’8 settembre e per questo furono deportati in campi di concentramento in Germania. Coloro che continuarono la guerra erano volontari della morte, torturatori, aguzzini. Ebbene, un gruppo di questi volontari di Salò, guidati da Ettore-Fiorello, a un certo punto si trovano di fronte il sadico partigiano Novak e la sua banda, li disarmano e… li lasciano andare incolumi, senza un graffio. Qual è il messaggio? Gli italiani tutti buoni, anche i torturatori fascisti; gli slavi tutti sadici, assassini, “slavocomunisti”. Lo stesso Novak, come ci informa il sito dello sceneggiato, vuole rapire il figlio “per eliminarlo” (http://www.ilcuorenelpozzo.rai.it – sintesi). Dunque, un partigiano slavocomunista che ammazza la madre di suo figlio oltre a qualche decina di altri poveri disgraziati, che insegue per mezza Istria un gruppo di bambini condotti da un sacerdote e un repubblichino pacifista, solo per rapire il figlio allo scopo di eliminarlo. Nel frattempo distrugge qualche villaggio e incendia qualche asilo, giusto per non stare con le mani in mano. E’ la moderna favola dei comunisti che mangiano i bambini, solo che gli slavocomunisti sono più raffinati: prima li arrostiscono. Il tutto condito dai consigli per gli acquisti di sottilette, shampoo antiforfora o cioccolatini vari.

Leo Gullotta spiega che “è un'occasione innanzitutto per accendere una fiammella sul totale silenzio dopo 60 anni”. E’ il solito ritornello. Ogni volta si “scopre” la storia dall’inizio. Nessuno che dica “non sapevo nulla nonostante la copiosa pubblicistica”. Eppure sono almeno quaranta anni che si parla delle vicende belliche al confine orientale, incluse le foibe, come il libro di Mario Pacor Confine orientale, ed. Feltrinelli, 1964. Da allora si sono succedute centinaia di pubblicazioni più o meno scientifiche sull’argomento. Mentre però la ricerca storiografica ha segnato dei progressi importanti, anche se di valore disomogeneo, con studi più recenti, da Raoul Pupo a Tone Ferenc, a Giacomo Scotti a Claudia Cernigoi, a numerosi altri, l’estrema destra oggi al governo ripropone tesi e personaggi legati alla Repubblica sociale italiana e al fascismo, come Luigi Papo di Montona (Paolo de Franceschi), ex ufficiale della Guardia nazionale repubblicana fascista, responsabile della “Zona di operazioni litorale adriatico”, tra i più prolifici difensori della tesi del “genocidio nazionale” e della minaccia “slavocomunista”, i cui testi sono copiosamente acquistati con denaro pubblico e regalati con non richiesta generosità dalle Amministrazioni locali di destra a scuole e biblioteche.

Di parlare se ne è parlato e si continua a parlare; che non se ne parli come vorrebbero i neofascisti al governo è un’altra faccenda.

Ed è il senso dell’operazione Il cuore nel pozzo. Fabbricare un immaginario collettivo nazionalista attorno al programma politico di Alleanza Nazionale. Ma non si tratta solo di un’operazione di basso profilo elettorale. Costituisce il tentativo di rileggere la storia d’Italia come storia della continuità della legittimità delle classi dominanti, da quella liberale alla fascista a quella attuale. In questo contesto tutti i crimini dell’imperialismo vengono sottaciuti, perché commessi nell’interesse nazionale, dal massacro delle popolazioni etiopi e jugoslave, ai bombardamenti sulla Serbia, all’intervento in Irak. Questo consenso nazionalista è veramente “bipartisan”, unendo nello stesso abbraccio Violante e Fini, D’Alema e donna Almirante.

Da qui la mitologia della “morte dello Stato” dopo l’8 settembre, rappresentata dalla sconfitta di Ettore-Fiorello, la costruzione dell’eterno nemico slavo che preme alle porte orientali (come dice Papo) rappresentato dal sadico Novak, la celebrazione dell’identificazione nazionale col clericofascismo, rappresentato dai buoni soldati italiani e da Don Bruno-Gullotta. E’, detto in termini gramsciani, un’operazione di egemonia culturale finalizzata al dominio politico. Quando An parla di “memoria condivisa” a proposito delle foibe, in realtà intende questo consenso nazionalista antislavo e, più in generale, sulla condivisione degli interessi del capitalismo nazionale italiano. Il cuore nel pozzo è stato accolto con entusiasmo nei circoli più estremi del fascismo triestino; la platea dell’anteprima a Roma era composta solo da esponenti di Alleanza Nazionale. D’altro canto in Slovenia e Croazia lo sceneggiato è stato accolto con comprensibile timore e preoccupazione. Invece di chiedere scusa per gli oltre 300.000 jugoslavi uccisi dai nazifascisti, li si tratta da assassini e sadici torturatori. Un revanscismo antislavo che sembrerebbe anacronistico oggi che la Slovenia e la Croazia stanno per essere ammessa nell’Ue. Eppure ha un suo motivo profondo. L’imperialismo italiano ha contribuito in maniera decisiva alla dissoluzione dell’ex Jugoslavia, sostenendo economicamente, politicamente e militarmente i nazionalisti che precipitavano la Federazione nella carneficina. E oggi cerca di rinfocolare gli odi etnici per sgretolare gli staterelli sloveno e croato, inglobando nell’Italia le regioni di confine, in particolare l’Istria e la Dalmazia, che non ha mai cessato di considerare parte del “mare nostro”. E’ la vecchia aspirazione di Mussolini espressa in un discorso del 20 settembre 1920 a Pola: “per realizzare il sogno mediterraneo bisogna che l’Adriatico, che è un nostro golfo ,,, sia in mani nostre; di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara”. Da qui il giorno del ricordo, il 10 febbraio, votato alla quasi unanimità dal Parlamento. Il 10 febbraio, giorno dei trattati di pace del 1947, o, come si dice dalla parte dei fascisti, del Diktat imposto all’Italia. Ma questa è un’altra storia, sulla quale cercheremo di tornare.

10 febbraio 2005

Gino Candreva
Istituto Pedagogico della Resistenza di Milano

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