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(Il nuovo ordine mondiale è guerra)

Internazionalismo, guerre, repressione e risposta dei lavoratori

(9 Maggio 2014)

jaures

Jean Jaurès

L’internazionalismo non è un ideale da introdurre dall’esterno nella società, non è riducibile a un richiamo retorico per le campagne elettorali, o a uno slogan consolatorio per vecchi militanti nostalgici. Si sviluppa nelle lotte reali, dove trova le sue basi materiali.
Ci sono fattori che spingono al collegamento tra i lavoratori dei diversi paesi. Esaminiamone alcuni:
1) Nei paesi sviluppati c’è la compresenza di lavoratori locali e immigrati. La prima reazione può essere: gli immigrati ci portano via il posto di lavoro. Se questo atteggiamento prevale, il padrone vince sempre. Se invece si capisce la necessità dell’unità, i pregiudizi gradualmente scompaiono e i sindacati che organizzano le lotte, che incontrano problemi non solo locali, sono portati a superare una visione ristretta all’ambito nazionale. Le lotte nella logistica sono un chiaro esempio di ciò.
2) L’opposizione alla costruzione o all’ampliamento delle basi militari nasce dal pericolo ecologico e militare che rappresentano per le popolazioni locali. La spinta ad approfondire il problema porta a considerare il pericolo per i paesi contro cui sono rivolte, e nasce la necessità di contatti sia con i militanti di questi paesi sia con altre località della Nato sedi di basi. Da Vicenza al Muos, lo stivale è trasformato in uno pontile per gli interventi in Africa e nel Mediterraneo, e questa consapevolezza, unita alla percezione che una lotta chiusa nel ristretto ambito italiano è perdente, può aprire la via all’internazionalismo.
3) In Francia, dalle lotte di fabbrica, nel sindacato, o per i sans papiers, gruppi di compagni, anche se non dispongono di grosse organizzazioni, sono passati a denunciare gli interventi bellici e la politica colonialista di Sarkozy e di Hollande. Analoghe lotte in Italia, contro le cosiddette missioni di “pace” all’estero e contro le spese militari per gli F 35, vere bare volanti. La lotta è fondamentalmente la stessa, e i collegamenti tra diversi paesi possono solo potenziarla.
4) La denuncia dei preparativi di golpe che l’imperialismo trama, non solo contro i paesi che si oppongono apertamente alle sue direttive, ma persino contro quelli che introducono blande misure riformiste, può essere un’altra via per una consapevolezza politica più generale.
5) La rivendicazione dell’autodeterminazione dei popoli e l’opposizione, ad esempio, all’oppressione delle masse palestinesi da parte dell’imperialismo israeliano e, in forme più mascherate e ipocrite, da parte di molti regimi arabi, è un’altra via. Questa lotta à particolarmente efficace e meritoria se condotta da militanti ebrei.
6) La denuncia dell’opera dei regimi polizieschi, a cominciare da quello del proprio paese, rivelando i legami tra i governi e i gruppi criminali nazisti o qaedisti, svelando lo sporco affarismo che si nasconde sotto frasi patriottiche e umanitarie, è un ottimo preludio all’internazionalismo.
Sono solo alcuni esempi, e il lavoro politico internazionalista consiste nel coordinare queste lotte disperse, trasformare reazioni sane ma istintive in comprensione della necessità dei legami internazionali dei lavoratori, per combattere tante battaglie comuni, dalla lotta per i salari a quelle contro la repressione, la disinformazione, la guerra. Una prima considerazione elementare è che, data la potenza dei principali stati e delle multinazionali, i lavoratori e le masse sfruttate, per far valere il loro unico vantaggio, il numero gigantesco, devono stabilire saldi legami a livello internazionale.

Storicamente l’internazionalismo ebbe momenti altissimi e altri di depressione. Questo perché, se la borghesia non smette un solo istante di condurre la lotta di classe, ricorrendo a vessazioni, alternando attacchi aperti a lusinghe da consumata baldracca, la risposta operaia ha un carattere carsico, perché l’oppressione o un falso benessere provocano l’eclisse delle lotte. Spesso il proletariato, indebolito dalla repressione o ingannato da propaganda e disinformazione, non è in grado di reagire.
Tra i grandi momenti, in cui la lotta ebbe effetti internazionali, annoveriamo le manifestazioni dei lavoratori inglesi nel 1861, che impedirono l’intervento della Gran Bretagna a favore degli schiavisti nella guerra di secessione americana, l’impegno di Marx per introdurre nel programma dell’Internazionale la difesa dei popoli oppressi, a partire dalla Polonia, quando molti pensavano che la politica fosse un problema estraneo agli operai; la solidarietà tra militanti francesi e tedeschi nel corso della guerra prussiana, l’appassionato interesse dei rivoluzionari di tutto il mondo per la rivoluzione russa del 1905.
Il 1914 senza dubbio fu una sconfitta, ma bisogna tener conto della repressione statale contro gli oppositori, per cui solo la voce degli sciovinisti veniva diffusa. C’era eliminazione fisica o il carcere per chi apertamente si opponeva alla guerra. Alfred Rosmer racconta: ”La delegazione viene ricevuta dal sottosegretario di stato Abel Ferry. Dopo aver ascoltato Jaurès, gli chiede cosa contino di fare i socialisti di fronte alla situazione: “Continuare la nostra campagna contro la guerra” risponde Jaurès. Al che Abel Ferry replica: “non oserete farlo, perché sareste ucciso al primo angolo della via”.
Due ore dopo, quando Jaurès sta per tornare nel suo ufficio all’”Humanité” per scrivere il temuto articolo, l’assassino Raoul Villain lo uccide: due palle di revolver sparate a bruciapelo hanno provocato la morte quasi istantanea.”
Jaurès era un riformista, eppure la sua protesta contro il conflitto faceva paura.
Nella grande guerra, se i maggiori partiti socialisti aderirono alla guerra, moltissimi lavoratori cercarono di contrastarla. Non sapremo mai quanti lavoratori ribelli furono uccisi, non dal nemico, ma con le decimazioni e soprattutto con l’invio nelle compagnie della morte. Moltissimi anonimi, ma possiamo ricordate Gerardo Turi: collaboratore di Bordiga, guidò i giovani socialisti, alla riunione di Bologna del 25 ottobre 1914, nella cacciata di Lino Cajani, che aveva appoggiato Mussolini. Sotto l’impulso di Turi, l’Avanguardia divenne uno dei punti forti dell’antimilitarismo e del socialismo italiano. Lanciò la parola d’ordine di un’azione rivoluzionaria che prevenisse la dichiarazione di guerra preparata dalla monarchia, e quella della fraternizzazione dei belligeranti. Fu inviato ad un “reparto speciale” (le cosiddette “compagnie della morte”), si seppe della sua scomparsa solo alla fine della guerra.
Gli episodi di ammutinamento e di rivolta furono numerosi, e i soldati si rifiutavano di salire sui treni o di mettersi in marcia, gridavano slogan contro la guerra e contro i superiori, con tumulti, barricate e aggressioni agli ufficiali. “Le rivolte collettive iniziarono a manifestarsi nell’inverno 1915 ad Aosta, Sacile, Oulx, ma già dall’estate 1916, in seguito alle circolari che invitavano alla giustizia sommaria, la certezza della repressione trattenne i soldati dalla ribellione aperta . Tuttavia, a partire dalla primavera 1917, ripresero a manifestarsi casi di ammutinamento;” “L’episodio più grave di rivolta fu quello avvenuto a Redipuglia tra i soldati della brigata Catanzaro. Nei tumulti che scoppiarono nella notte tra il 15 e il 16 luglio 1917 due ufficiali rimasero uccisi, altri due furono feriti, altri ancora vennero allontanati dai soldati; la rivolta terminò solo dopo molte ore di scontri quando le truppe furono circondate dagli squadroni di cavalleria, automitragliatrici e autocannoni. Il mattino successivo furono passati per le armi 28 soldati, di cui 12 per decimazione. Soldati fucilati sul posto, compagnie disciolte, graduati retrocessi, ufficiali deferiti al tribunale militare, licenze sospese a interi reggimenti, furono i provvedimenti repressivi che impedirono agli episodi di ammutinamento di diffondersi”
Per costringere i soldati ad avanzare, gli ufficiali sparavano su di loro, e quelli rispondevano.
Le condanne a morte eseguite inflitte dai tribunali furono 103 nel primo anno di guerra, 251 nel secondo, 382 nel terzo .
All’epoca di Caporetto, in certi reggimenti ogni segnale di tromba veniva accolto da fischi, e venivano fischiate le conferenze di propaganda, e di notte si sentiva gridare : «Vogliamo la pace! Viva la pace! Abbasso la guerra!».
Scrive il 23 luglio 1917 un sottotenente di 20 anni: “Del grado me ne infischio perché ormai odio talmente la vita militare che tutto ciò che ha odore di disciplina e di militarismo mi fa nausea. […] Ora dopo due anni di fatiche, di rabbie, di sacrifici non ricompensati griderei: Viva la rivoluzione! Abbiamo l’Emilia e la Romagna che bollono! A Milano si lavora sott’acqua. I disertori aumentano ogni giorno. Gli ammutinamenti e le rivolte nei reggimenti sono frequenti ogni giorno più!” (1)
Secondo lo storico e diplomatico austriaco Edmund Glaise-Horsternau, “il numero dei disertori nelle regioni jugoslave della bicipite monarchia aveva raggiunto la cifra di circa duecentomila uomini nella seconda metà del 1918. Alcuni gruppi disponevano, scrive, addirittura di cannoni.
Mentre nelle retrovie cresceva il numero degli imboscati, sulle linee dei fronti, quello italiano in primis, i soldati austriaci di etnia jugoslava diedero luogo a non pochi ammutinamenti e rivolte nel corso del 1918. Il fenomeno si estese particolarmente in Slovenia nei reggimenti di fanteria e sull’Adriatico orientale nelle unità della marina da guerra stazionate nei porti di Pola, Sebenico e Bocche di Cattaro.”
.(2)
In Francia, il numero dei “fucilati per dare l’esempio” fu talmente grande che, nel novembre 1998, il primo ministro Lionel Jospin parlò dei condannati per l’ammutinamento di Chemin des Dames, e chiese “la loro reintegrazione completa nella memoria collettiva nazionale”.(3) La borghesia prima fucila, poi riabilita. Questi casi non passavano in corte marziale, non c’era neppure una finzione di processo, c’era solo la giustificazione della necessità di dare l’esempio, anche scegliendo a caso i condannati. Terrorismo allo stato puro. L’opposizione alla guerra era ben presente, e venne soffocata nel sangue. L’esaltazione patriottica e bellicista può trascinare per brevi periodi le masse, poi si trasforma nell’opposto, mentre restano sciovinisti quei politici e quei giornalisti la cui carriera è legata i buoni rapporti con la borghesia.
La breve stagione delle rivoluzioni, cominciata con l’Ottobre, fu possibile in paesi che avevano subito gravi disfatte, e anche in un paese vincitore ma sconvolto, come l’Italia. Tali scosse, vittoriose alla fine solo in Russia, non si verificarono perché di colpo la popolazione era diventata comunista, ma per l’effetto combinato dei sacrifici dovuti alla guerra, la questione agraria irrisolta, la disoccupazione di massa, la penuria alimentare…La rivoluzione non scoppia perché la vuole un partito o una classe sociale, ma quando il mantenimento del vecchio ordine sociale diventa impossibile. La fine di questo periodo glorioso non si verificò solo per la reazione della borghesia europea e il tradimento della socialdemocrazia, ma anche per immissione nell’esausta macchina produttiva europea dei capitali degli Stati Uniti, arricchitisi con le forniture militari e la conquista dei mercati altrui. Per entrare in guerra, attesero che gli altri si fossero dissanguati.
Ma le lotte non cessarono, e, persino in periodi in cui la spinta dell’Ottobre rosso si stava esaurendo e l’Internazionale passava dall’internazionalismo al socialismo in un solo paese, ci furono importanti forme di ribellione.
In Marocco, i ribelli del Rif , sotto la guida di Abd el Krim, combattevano contro gli spagnoli. Nel settembre del 1924 Semard e Doriot, a nome del PCF, inviarono un messaggio ai ribelli, in cui li incitavano a “battersi contro tutti gli imperialismi, compreso l’imperialismo francese”. Il governo di Poincaré soccorse la Spagna nella guerra, e, nell’aprile del 1925, il governo del “cartello delle Sinistre” (SFIO, radicali, repubblicani, socialisti) intensificò le operazioni militari contro gli insorti. Nel maggio 1925 il PCF diffuse un manifesto, in cui chiedeva che la Francia lasciasse il Marocco e riconoscesse la repubblica del Rif , e inviò un appello ai soldati e ai marinai: ”Non sarete i servi della Banca. Vi ricorderete dei bolscevichi russi, dei gloriosi marinai del Mar Nero, i soldati di Odessa, i soldati spagnoli del Rif hanno saputo fermare la guerra con la fraternizzazione. Fraternizzare con gli abitanti del Rif, fermare la guerra.” La gioventù comunista distribuì volantini e giornali in arabo ed in francese, chiedendo ai soldati di fraternizzare con gli insorti. L’appello ebbe effetto, molti marinai e soldati scesero in lotta e furono portati davanti al consiglio di guerra. Lo sciopero generale di 24 ore dell’ottobre 1925, con più di un milione di manifestanti, fu il primo sciopero politico in Francia contro una guerra coloniale. In prima fila di questa guerra vigliacca troviamo Primo de Rivera, José Sanjurjo, Dàmaso Berenguer, Philippe Pétain, Francisco Franco.
Inutile dire che il cambio di politica dell’Internazionale si riflesse anche nel PCF, e nulla rimase dell’antico internazionalismo. Quando, nel maggio 1945, ci furono movimenti insurrezionali in Algeria, il PCF parlò di “provocazioni hitleriane”. La repressione del governo PCF-SFIO-MRP (Movimento Repubblicano Popolare, democristiano) fu spietata.
Non fa perdere valore al manifesto il fatto che Doriot divenne in seguito collaborazionista. Uomini dal grande passato come Guesde, Vaillant e Plechanov caddero nello sciovinismo. Resistere su posizioni di classe per tutta la vita non è facile.

Anche nella seconda guerra mondiale, ci furono manifestazioni di internazionalismo cosciente, anche se limitate a piccoli gruppi. A fine guerra, ci fu anche la ribellione dell’esercito americano, che costrinse gli USA a rinunciare alla conquista e allo sfruttamento dei territori occupati dai giapponesi. E non dimentichiamo le ribellioni delle truppe in Vietnam. Sono temi troppo vasti per trattarne qui, perciò rinvio il lettore ad alcuni scritti ben documentati. (4)
La guerra, oggi, si sviluppa su molti piani: guerre civili, rivoluzioni colorate, disordini sociali sostenuti dall’estero, attentati, disinformazione, sabotaggi, attacchi informatici. Ma l’esperienza millenaria della guerriglia –il nome deriva dalla ribellione antinapoleonica in Spagna, ma il fenomeno è antichissimo – dimostra che spesso le forme di guerra non convenzionali sono seguite da interventi bellici in senso stretto. Un esempio? La già citata guerra del Rif: per domare la guerriglia fu necessario l’intervento della Francia. Gli effettivi impiegati furono 140.000 spagnoli e 325.000 francesi, più di 150 aerei, con l’uso di gas tossici.
Anche nella guerra libica del 2011, le disorganizzate schiere degli “insorti” dovettero chiedere l’aiuto di Francia e Gran Bretagna. Berlusconi tradì l’amico Gheddafi, così partecipò pure l’Italia, ma fu necessario l’intervento di 19 stati, e determinante fu quello USA.
La guerra – sostengono la saggezza popolare e fior di generali - si sa come comincia ma non come finisce. Le guerre lampo del passato si sono trasformate quasi sempre in lunghi conflitti. Le teorie di Donald Rumsfeld, che pretendeva di occupare l’Iraq con 70.000 uomini, fidando nella superiorità tecnica, si sono dimostrate infondate. L’utilizzazione di forze non convenzionali, come jihadisti e nazisti, vuol dire anche impossibilità di controllarle. Bisogna riflettere sul fatto che la guerra è arrivata in Europa da tempo, e molti non vi hanno dato importanza: quella, interna alla Nato, tra Grecia e Turchia, per il possesso di Cipro, quelle legate alla dissoluzione della Jugoslavia, quella tra Russia e Georgia. Oggi, dato il comportamento idiota dei governi europei, che fingono di non vedere il pericolo delle bande naziste in Ucraina, e anzi le finanziano, non è escluso che i focolai bellici si estendano. . Gli eventi ucraini e l’intervento del premio Nobel per la pace Obama premeranno per una corsa agli armamenti sempre più accentuata.
E’ un grave errore pensare che l’assoluta superiorità militare degli Stati Uniti sia un fattore che impedisce una guerra tra potenze. Certo, nessuno è così pazzo da attaccare gli USA, ma questi potrebbero essere tentati, visto che il tempo e lo sviluppo economico di altri paesi lavorano contro di loro, di approfittare della loro attuale superiorità, ricorrendo come al solito a un false flag. Non sono così stupidi da attendere di essere ad armi pari. E i tentativi di abbattere gli avversari usando metodi non convenzionali potrebbero portare alla guerra vera e propria.
Una guerra di grandi dimensioni è possibile ma non inevitabile, però occorre che i lavoratori comprendano il pericolo e la necessità della lotta contro il militarismo, con tutti i mezzi possibili, a cominciare dallo sciopero politico. La lotta contro la guerra colpisce governo e borghesia in modo assai più efficace rispetto ad altre forme di scontro. La guerra è sempre diretta anche contro il proletariato del proprio paese, e qui spesso si decidono le sorti del conflitto. Per questo è urgente collegare le lotte antimilitariste che già ci sono. Lasciare alla borghesia l’iniziativa porterebbe sicuramente alla rovina.

Note
1) Bruna Bianchi, “I disobbedienti nella grande guerra”.
2) “Soldati e disertori in Adriatico” , La Voce del popolo, Quotidiano italiano dell’Istria e del Quarnero (sic), 25 febbraio 2014.
3) « Les fusillés de la Grande Guerre: Pur mémoire » » © SCÉRÉN-CNDP, 2011 75
4) “La Seconda Guerra mondiale e gli internazionalisti del Terzo Fronte”Relazione svolta da Padova, 24 aprile 2002, in N+1. E Arturo Peregalli: “La Seconda Guerra mondiale
e gli internazionalisti del «Terzo Fronte» Capitolo V –
Grecia: Aghis Stinas e l'Unione Comunista Internazionalista.
Marco Sacchi, “Una storia sconosciuta: la rivolta delle truppe Usa dopo la seconda guerra mondiale” in Sottolebandieredelmarxismo.
Marco Sacchi “La resistenza nell'esercito americano alla guerra del Vietnam” in Sottolebandieredelmarxismo.
Utilizzati o consultati
Michele Fatica, “Origini del fascismo e del comunismo a Napoli”.
Bruno Fortichiari “Antologia di scritti”.
“Storia della sinistra comunista”, vol I° e I° bis.
« Une guerre coloniale oubliée : le Rif, 1921-1926 » Romain Ducoulombier , le 8 octobre 2008.

Michele Basso

Fonte

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