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Che Guevara

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(10 Ottobre 2008) Enzo Apicella
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    A TRENT’ANNI DALLA MORTE DI BERLINGUER: LA FORZA EVOCATIVA DI UN RICORDO, LA SENSAZIONE DI UNA STORIA INCOMPIUTA.

    (4 Giugno 2014)

    berlingtrent

    Una prima considerazione di fondo al riguardo di ciò che si deve scrivere nel momento in cui si ricordano i trent’anni dalla scomparsa di Enrico Berlinguer: la storia del PCI è finita proprio male, da un lato nell’indeterminismo della ricerca del potere che ha caratterizzato tutta la storia del PDS-DS-PD fino a sfociare nella mediatizzazione personalistica dai tratti fascisteggianti di Renzi (e sarà una tragedia per tutti) e dall’altra nella regressione da rivoluzionario a ribelle (del passaggio da ribelle a rivoluzionario parlò proprio Berlinguer ricordando Gramsci) che ha costituito la cifra portante dell’impasto massimalistico – presidenzialistico di Rifondazione Comunista, attraverso cui si è riusciti a distruggere tutto ciò che rimaneva della sinistra italiana.
    Nella ridda di rievocazioni anche del tutto inopportune (come quella evocata da Casaleggio a Piazza San Giovanni e tradotta in cori da stadio) sviluppate in questi giorni, L’Unità ha pubblicato un inserto dedicato alla figura dell’antico segretario del PCI: un inserto nel quale non compaiono interventi di dirigenti della “nouvelle vague” renziana, ma ci sono tutti i protagonisti di quella parte di storia.
    A parte la prolissa intervista di Veltroni a Napolitano, alcuni interventi dimostrano una forte vitalità, pongono quesiti, fanno riflettere.
    Eppure non si sfugge, anche nel lettore che ha vissuto in prima persona quei tempi attraverso un’intensa militanza politica, all’impressione di una sorta di “lettere dal passato”, di testi scritti da chi proviene ormai da un altro mondo e non ha più, in questo, nessuna funzione o scopo.
    Un inserto composto, verrebbe da dire, da una sorta di “lettere dall’al di là”: e non è banale scriverlo.
    Pur nella consapevolezza di ciò rimane comunque il senso dell’incompiuto e non certo per l’esito del tutto disastroso come si è già ricordato, che ebbe l’improvvisato scioglimento del PCI.
    Le ragioni sono altre, più profonde e significative, legate all’idea della rinuncia all’identità del comunismo italiano e alla prospettiva di quella che, ancora negli anni’70, si definiva “rivoluzione in Occidente”: era del tutto insufficiente far uscire dal portato politico del PCI un semplice processo di socialdemocratizzazione (Craxi o non Craxi) o il limitarsi al proporre nuovamente l’idea del Fronte Popolare (nella sua versione originaria, quella togliattiana, dell’incontro tra le tre grandi correnti di fondo della società politica: quella cattolica, quella comunista, quella socialista).
    Lo sviluppo della storia del movimento comunista italiano avrebbe richiesto ben altro, sul piano teorico e politico, a partire dalla riduttività del dichiarare “esaurita la spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre”: era possibile proporre, in quel punto, una prospettiva comunista radicalmente alternativa all’Ottobre. Forse Praga sarebbe stata l’occasione giusta, ma non intendo proseguire, nel corso di questo intervento, con i “se” e i “ma”, forse ne ho seminati fin troppi.
    Riprendo allora da un punto che ritengo propositivo, rispetto al senso dell’incompiuta, notando anche che, sempre riferendoci all’inserto dell’Unità, quelli che avrebbero potuto essere i due più acuti dirigenti di quella mancata sinistra italiana degli anni’90 si limitano anch’essi (pur tra osservazioni condivisibili) fermandosi sulla soglia della questione: Massimo D’Alema scrive “Il PCI chiuse i battenti il giorno dei funerali di Berlinguer (e aggiunge “noi eravamo stati giovani troppo a lungo ed eravamo ancora immaturi: mica poco come autocritica per il nostro “Leader Massimo”), Claudio Martelli ripropone il tema dell’unità della sinistra nei termini degli anni’80, pari, pari (ci risparmia, però, e di questo gli va dato atto la favoletta della “socialdemocratizzazione”).
    In realtà il punto di rottura, già assente Berlinguer non si sviluppò tanto sulla timidezza e le incertezze nel portare avanti la politica dell’alternativa (che nell’inserto dell’Unità è descritta da Aldo Tortorella),ma nell’inefficacia sostanziale dell’opposizione portata avanti, tra il 1990 e il 1991, alla proposta di Occhetto di liquidazione del partito.
    Un’opposizione inefficace perché portata avanti da entrambi i lati, da Ingrao come da Cossutta, portandosi appresso il vecchio fardello del “politicismo”.
    L’identità del PCI e la sua capacità di egemonia avrebbero dovuto essere riproposti in altri termini, come pure si tentò concretamente di realizzare attraverso la relazione ”Il nome delle cose” svolta da Lucio Magri al seminario di Arco (Ottobre 1990).
    Ne riassumo due passaggi conclusivi e fondamentali:
    1) Quello relativo all’originalità teorica e pratica del PCI rispetto all’Internazionale Comunista come tratto costitutivo dell’intera sua storia e non solo come adeguamento degli ultimi decenni. Il ruolo, le battaglie democratiche che hanno segnato la sua presenza nell’Italia repubblicana non erano state l’altra faccia, contraddittoria, di un’elaborazione e di una strategia di fondo. Avevano radici solide in un’analisi della società occidentale, della storia d’Italia, del fascismo come regime reazionario di massa che univa, malgrado le notevoli differenze tra loro, il pensiero di Gramsci e Togliatti. Non vi è dubbio che il PCI fosse nato, e fosse cresciuto in un rapporto diretto con il processo storico mondiale uscito dall’Ottobre: ma, nello stesso tempo, non può esservi alcun dubbio (ancor oggi, a distanza di tanti anni) come il PCI avesse vissuto il rapporto con l’Ottobre e la difesa dell’URSS come la condizione necessario per non ripetere un modello ma per poter sviluppare il tentativo di una nuova e superiore esperienza socialista. Come aveva dimostrato del resto fin dalla pubblicazione (certo parziale) dei gramsciani Quaderni del Carcere, voluta fin dal 1948 proprio da Togliatti. Questo vale ancor oggi pur nel mutamento oggettivo delle condizioni di confronto a livello internazionale, nella crisi verticale prodotta dai processi di globalizzazione e di cessione di sovranità dello “Stato – Nazione”. Vale perché rappresentava e può rappresentare ancora adesso il punto più alto di un’elaborazione internazionalista che rimane quella su cui poggiare qualsiasi analisi che punti a uscire dal cortile di casa (compreso quello tanto deprecato dell’Europa) misurandosi con il mondo e le sue contraddizioni materialiste e post – materialiste dello sfruttamento dell’uomo e dell’ambiente assieme;
    2) La “diversità” del PCI rispetto al marxismo – leninismo e al modello sovietico non può però essere ridotta alla sola presenza, nella sua storia di una tradizione socialriformista. Berlinguer, sotto quest’aspetto, fu interprete coerente. Un interprete coerente anche nella debolezza della sua proposta politica più importante quella del “compromesso storico”. Tra l’altro, proprio nel già citato inserto dell’Unità, Guido Bodrato puntualizza come, se la visione di Berlinguer fosse quella del “compromesso storico” quella di Moro fosse quella, molto più “corta”, della “solidarietà. Nazionale”. Nel pensiero di Gramsci e poi nella pratica politica di Togliatti, di Longo e di Berlinguer quella “diversità” si era connotata anche di altri e non meno fecondi tratti. Gramsci andò molto più in là di Lenin nella critica dell’economicismo, dello statalismo, della separazione tra governanti e governati, nella critica della fase economico – corporativa della lotta di classe, nella valorizzazione degli elementi sovrastrutturali del blocco storico e della rivoluzione intellettuale e morale. La tradizione teorica del PCI, nel suo insieme da Gramsci a Natta, non si collocava quindi originariamente tra la II e la III internazionale: fu meno giacobina ma anche più radicale, e non a caso in certi momenti anticipò l’analisi e la critica del neocapitalismo: dal Gramsci di americanismo e fordismo, a Trentin e Magri nell’analisi del capitalismo italiano nel periodo del boom economico; da Ingrao dei “nuovi beni” a Berlinguer dell’”austerità” e della relazione tenuta all’Eliseo sul rapporto con gli intellettuali. Tutto ciò rimase, naturalmente, in buona parte solo potenziale e marginale, oscurato da un eccesso di tatticismo e dalle difficoltà di leggere tempestivamente il mutarsi del quadro internazionale. Fu su questi punti che si realizzò la critica del “Manifesto”, quale punto di riferimento e di riflessione a sinistra che, sotto questo punto di vista, può non ancora considerarsi sanato proprio per come andò, alla fine, la battaglia politica avverso la decisione di Occhetto.
    Questi sono due punti dell’autonomia e della diversità sono stati sul piano della definizione di identità interrotti, non ripresi.
    Si spezzò così il “filo rosso” della continuità della presenza dei comunisti italiani: beninteso ciò avvenne non alla morte di Berlinguer, ma al momento della sconfitta dell’opposizione al processo di liquidazione del partito.
    Un processo, quello di liquidazione del PCI, che ebbe effetti devastanti, è il caso di ricordarlo, sull’intero sistema politico.
    Il ricordo di Berlinguer così come lo si legge nell’inserto dell’Unità appare, appunto, provvisto esclusivamente di un fascino evocativo definibile proprio come “d’altri tempi” senza alcuna possibilità di ritorno.
    Invece l’analisi di quei fatti, la ripresa di un’idea di modello teorico, la verifica del permanere delle condizioni di stratificazione sociale in allora e per l’oggi conducano a una scelta diversa: esistono nella realtà teorica e storico – politica della sinistra comunista in Italia, nel corso del ‘900, elementi portanti per la ripresa di un discorso di identità, di diversità e di egemonia.
    Serve, lo si può affermare senza esitazioni, nel crollo del sistema e all’interno dei rischi seri ce sta correndo la nostra democrazia, un progetto di costruzione di un’adeguata soggettività politica che si muova tenendo ben conto del vuoto nel quale ci stiamo trovando.

    Franco Astengo

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