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Buon compleanno Marx

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L'intervento di Claudio Bellotti a Venezia

Sesto Congresso del Prc

(10 Marzo 2005)

Compagni, abbiamo ascoltato ieri una relazione impegnativa del segretario, che ci ha proposto un livello alto di dibattito. Ed è dunque doveroso che tutti noi, a partire dal sottoscritto, facciamo del nostro meglio per misurarci con quel livello di discussione.

Intendo dire che è evidente che le proposte alternative e differenti che sono state avanzate in questo congresso non possono ridursi ad accumulare una serie di obiezioni, di dubbi o di preoccupazioni, come ieri sono state definite - io credo un po’ riduttivamente - nell’intervento del segretario, ma dobbiamo appunto misurare quella proposta sulla prospettiva e sullo scenario che abbiamo davanti.

Non prima però di aver rilevato - così pare a me, a noi - che gli avvenimenti di questi mesi, che già hanno visto uno sviluppo e un’applicazione di questa linea, confermano quella che era una nostra opinione già all’inizio di questo dibattito, e cioè che il partito inserendosi in questa alleanza si mette su un asse inclinato su cui ci può capitare di scivolare anche rapidamente e anche più in là di quanto si pensava inizialmente.

Non credo di essere stato l’unico in queste settimane a rimanere sconcertato per l’apertura fatta in particolare dal nostro partito alla collaborazione con il partito radicale sul terreno elettorale. Una proposta avanzata in nome dell’“ospitalità” che è una nobile e bellissima parola, ma che mi pare venga usata davvero a sproposito quando si tratta di offrire ospitalità a una forza che si è distinta in questi anni per essere stata testa d’ariete di tanti tentativi di sfondamento dei diritti dei lavoratori (e penso al referendum con il quale tentarono di abolire l’articolo 18, nel 2000), ai paladini di tutte le guerre, purché naturalmente democratiche e avallate dall’Onu, a chi ha promosso persino, anche qui attraverso un referendum, un tentativo di distruzione del nostro stesso partito. Cosa c’entra l’ospitalità con qualsiasi forma di collaborazione con una forza di questo genere? E a me pare questo essere un esempio estremo di quello scivolamento, appunto, che ci ha visto mettere in discussione in questi ultimi mesi da quell’11 ottobre in cui si è siglato il patto di nascita della Gad, tante posizioni che pure ci avevano visto concordemente agire nella società e nei movimenti, a partire dalla nostra posizione sul ritiro incondizionato delle truppe dall’Iraq. E ora quel “senza se e senza ma” vede troppe volte accumularsi molti “se” e moltissimi “ma”.

E lo conferma la stessa vicenda delle elezioni regionali, in cui tutti saremo coinvolti nelle prossime settimane; giustamente si è parlato molto del successo che abbiamo colto in Puglia con la vittoria di Nichi Vendola, ma il partito si trova stretto in un’alleanza e sotto candidati che difficilmente, compagni, possono essere presentati come campioni e guide dell’assalto al blocco di potere reazionario e padronale che di governa. Candidati come Agazio Loiero in Calabria, o come Sarfatti in Lombardia. Insomma, io non credo, forse novecentescamente - penso per esempio alla mia regione, alla Lombardia, - non credo che si dà l’assalto a Formigoni e a Berlusconi invitando per l’ennesima volta i lavoratori a votare per un industriale, dopo averli invitati a votare per un democristiano. E lo vediamo anche laddove sono già in atto collaborazioni di governo locale, penso per esempio al Friuli Venezia Giulia, con quel Riccardo Illy che è passato direttamente da presidente degli industriali a presidente della regione, ed è evidente che la politica è rimasta la stessa. 

Persino su terreni elementari, come quello della difesa dei diritti democratici, mi riferisco alla battaglia che tutti noi dobbiamo ingaggiare in risposta a un’offensiva martellante, che a partire dalla questione delle foibe (avrete tutti visto le recenti produzioni della televisione di Stato), vede nuovamente messo al centro l’attacco alla resistenza e alla lotta partigiana e noi siamo in collaborazione con un personaggio come Illy che di questa campagna è stato uno dei campioni e dei pionieri, uno che qualche anno fa andava appunto il 25 aprile a dire che sulla base della tragedia delle foibe, era corretto affermare che comunisti e fascisti sono la stessa cosa. Questo è l’asse su cui il partito rischia di scivolare!

L’illusione della “grande riforma”

Ma, come dicevo, non basta certo accumulare obiezioni, dubbi e critiche. Devo dire che ascoltando la relazione del segretario ieri ho trovato davvero incomprensibile e non accettabile il quadro di riferimento che è stato proposto. Sento parole, riferimenti a un’Italia degli anni ’60, sento parlare di “Grande riforma”, di “borghesia produttiva”, e mi domando come si fa a tracciare un paragone di questo genere. Non sarò forse, per ragioni anagrafiche, il più titolato a parlarne, ma mi pare di poter dire che il centrosinistra degli anni ’60 non fu esattamente un momento di grande avanzata del movimento operaio nel nostro paese. Il partito socialista vi entrò con una scissione, le speranze che poteva aver suscitato vennero rapidamente deluse e ci volle il riscatto operaio dell’Autunno caldo, del ’68-’69, per vedere veramente avanzare la condizione e le posizioni della classe lavoratrice nel nostro paese. Ma anche a prescindere da questo, come si fa a paragonare quell’Italia e quell’Europa, nel pieno del miracolo economico in cui l’economia cresceva ogni anno del sette, otto, persino dieci per cento, in cui esistevano quei margini per le politiche keynesiane, redistributive, come si fa a paragonare quel quadro con l’Italia e l’Europa di oggi, nel pieno di una stagnazione che in Italia è anche peggiore, oppressi da un debito pubblico che non permette alcuna seria politica redistributiva. A me pare che proprio da un punto di vista di analisi - perché oltre alla polemica ci deve interessare anche il ragionamento - che questo tipo di riferimento confermi quell’antica malattia che troppe volte ha fatto grandi danni nella sinistra, di voler scambiare i propri desideri con la realtà.

Ma si dice: sarà l’Europa a darci la cornice di una tale politica di riforme. Ora domando: cosa ci insegna la storia recente dell’Europa fino alla recentissima visita del presidente americano a Bruxelles? A me pare confermare (posso sbagliarmi, ma vorrei allora che mi venisse spiegato) che questa Europa, l’Europa capitalista, compresa quell’Europa di centrosinistra di cui pochi giorni fa vagheggiava Fassino, in questi anni abbia oscillato tra due diverse forme di impotenza. Insomma, o unita, ma dietro gli Stati uniti (come nella vignetta che commentava la visita di Bush, che diceva: “Bush vuole un’Europa unita, che possa obbedire con una voce sola!”); oppure quando nel perseguire propri interessi tenta di assumere posizioni distinte dagli Usa, automaticamente divisa e dunque anche qui condannata ad una diversa forma di impotenza.

Anche qui vedo scambiare i propri desideri con la realtà, piegare l’analisi oggettiva di quello che abbiamo davanti a una linea già decisa a priori. E quando accade questo, si può giungere ad affermazioni che io considero davvero impervie come quelle recenti secondo le quali vi sarebbe una differenza fra il primo e il secondo Bush. Se differenza c’è, questa è dovuta solo ed esclusivamente all’impantanamento che la potenza americana vive nella sua avventura militare in Iraq. Impantanati in una guerra che non possono vincere, neppure al prezzo di quei crimini orrendi che anche ieri il segretario ha ricordato nella sua relazione, l’assedio di Falluja, di Ramadi, e tanti altri di cui chissà quando verremo a sapere. Impantanati in un conflitto con una resistenza che ci si dice vede organizzati 200mila militanti nelle sue fila. Tutto semplice, allora, tutto facile? Basta “tifare”, la resistenza irachena come ho sentito dire un po’ rozzamente in qualche congresso? No, non è tutto semplice e facile, affatto.

L’occupazione dell’Iraq e i nostri compiti

L’aggressione all’Iraq è stata il perno della politica mondiale di Bush. Una guerra condotta non solo per assicurarsi il dominio di certe risorse, non solo per occupare posizioni strategiche, ma anche e forse soprattutto per riaffermare un dominio mondiale. Per questo motivo gli Stati Uniti, quale che sia la loro amministrazione, non possono trovare una facile via d’uscita da questo intervento. L’Iraq non è la Somalia, dove intervennero qualche anno fa e dalla quale se ne andarono sostanzialmente sconfitti ma senza che questo avesse conseguenze particolari. Continueranno fino alle estreme e peggiori conseguenze.

Questo ci conferma la lezione appresa a caro prezzo in tutto il secolo scorso: non esiste una strada facile per la liberazione di un popolo oppresso, una strada semplice.

Ci consegna però anche un altro problema: riapre quel grande problema storico irrisolto della libertà, dell’emancipazione e dell’unificazione del popolo arabo, diviso, spezzettato, massacrato e dominato per oltre un secolo, che aveva intrapreso un processo di liberazione. Che attraverso la guerra di liberazione algerina, la rivoluzione in Libia, il movimento nasseriano in Egitto, in Siria e via di seguito, sembrava avere imboccato quella strada e che poi si è drammaticamente fermato ed è regredito. Oggi quel problema si riapre su un piano storico diverso. La guerra in Iraq, così come in altro modo la lotta per il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, ci dice che su un piano storico più elevato può rinascere quel movimento di liberazione combinando la liberazione nazionale all’emancipazione sociale, e cioè alla rivoluzione.

Permettetemi allora di dire che invece di attaccare etichette e di disquisire se la resistenza abbia la “erre” maiuscola o minuscola, credo che dobbiamo preoccuparci del nostro progetto prima ancora di chiedere quale sia il loro, creando le condizioni per tendere la mano, fraternamente, a questo popolo che è stato per l’ennesima volta stuprato e massacrato dalla più forte potenza mondiale, anche attraverso la presenza di tanti lavoratori che da quesi paesi sono venuti in Europa e in Italia e che cercano (lo abbiamo visto nel movimento contro la guerra e anche in tante lotte che si conducono nel nostro paese), quasi spasmodicamente, un legame e un’interlocuzione con il movimento operaio nel nostro paese.

Grandi processi, dunque, come quello latinoamericano, come quello indiano, di cui non ho tempo di parlare, processi che in America latina per la prima volta pongono nuovamente all’ordine del giorno, in Argentina, in Bolivia, in Venezuela, in Perù, il problema della rivoluzione, sì!, e della presa del potere dopo venti o trent’anni di dittature o di pseudo democrazie dollarizzate a sovranità strettamente limitata. Avvenimenti che plasmano la coscienza delle nuove generazioni, che fanno sì che per la prima volta dopo tanti anni, anche nel nostro paese esista una disponibilità di migliaia, decine, centinaia di migliaia di persone, giovani e non solo, a mettere al centro della propria vita non solo la lotta individuale per un’esistenza più o meno misera, ma la lotta collettiva per cambiare il mondo. È solo lì compagni il futuro di Rifondazione comunista, non è nei sessanta o centomila voti in più che possiamo prendere da un’elezione all’altra.

Ma quale politica per avvicinare e organizzare questi soggetti? Si parla dell’unità per battere Berlusconi. Io vi dico di guardare indietro, agli ultimi anni, e oltre all’unità di guardare alle necessarie rotture che ci sono volute per il risveglio delle mobilitazioni di massa. E voglio dirlo con parle non mie, ma con quelle di un compagno, un delegato sindacale che alla vigilia di quella straordinaria manifestazione che tutti ricordiamo del 23 marzo del 2002, a un giornalista che domandava “non siete soli, la Cgil non è sola?” rispose “Sì, siamo soli con milioni di lavoratori nelle piazze.” E può capitare, è capitato, che chi apparentemente è solo sia invece nell’ottima compagnia delle buone ragioni di milioni di persone. Questa è una lezione importante che ci viene da questi anni e che va ricordata tanto più oggi, quando si vuole riportare all’ordine anche esperienze avanzate. Mi riferisco per esempio alla battaglia che la Fiom ha condotto per quattro anni e che oggi obiettivamente la vede arretrare, spinta indietro sul piano rivendicativo dalla pressione concentrica del padronato, delle altre sigle sindacali ma anche, io dico, dalla mancanza di una seria e coerente proposta alternativa della quale anche noi dovremmo farci carico.

La forza della classe operaia

Non ci sono state però solo le lotte oceaniche, le gigantesche manifestazioni. Ci sono stati anche quei punti di rottura di cui tanto abbiamo parlato: Melfi, Scanzano Ionico, Acerra. E voglio dire una parola su uno di questi (forse qualche compagno me l’ha già sentito raccontare in qualche dibattito). Mi riferisco a quanto accadde poco più di un anno fa, quando ci fu la lotta straordinaria degli autoferrotranvieri; quegli scioperi cosiddetti selvaggi in cui finalmente, dopo tanti anni amari questi lavoratori alzavano la testa sfidando minacce, intimidazioni, ordinanze prefettizie, leggi antisciopero e sfidando anche quell’isolamento in cui erano stati lasciati da chi li avrebbe dovuti guidare.

Ebbene in quei giorni, mentre a Milano la città era paralizzata e in qualche modo sconvolta da questo avvenimento, accanto a quel grande avvenimento ce n’è stato anche uno piccolo, e cioè che per una delle rare volte il Corriere della sera ha scritto la verità, parlando di quello sciopero, e l’ha scritta per mano di uno di quegli eminenti rappresentanti della demolizione dei diritti dei lavoratori nel nostro paese che si chiama Pietro Ichino, che disse “questi autisti stanno facendo uso del loro gigantesco potere”. Esatto! Il loro gigantesco potere! Precisamente la forza della classe operaia, di quella classe lavoratrice della quale ci si è detto per vent’anni, anche sinistra, che non esisteva più e che dimostra in quel momento di riscatto e di rivolta di essere invece la forza decisiva sulla quale fondare qualsiasi prospettiva di trasformazione rivoluzionaria.

Certo, non basta evocare lotte e scioperi; dobbiamo discutere anche di strategia, di qual’è la nostra strada. Ieri il segretario ci ha proposto una sorta di metafora parlando del timone dell’alleanza, dicendo che c’è una lotta nell’Unione, o come si chiamerà, per decidere se il timone debba essere in mano a riformisti o a noi. Se vogliamo restare in questa metafora navale, dico che a me questa alleanza sembra veramente una di quelle navi di una volta, dove c’è un capitano, un timoniere, degli ufficiali che stabiliscono la rotta, e una massa di rematori che siamo noi ma che è anche l’insieme del cosiddetto popolo della sinistra che fornisce la forza motrice ma non ha alcuna voce in capitolo. Direi allora che più che discutere chi prende il timone, il nostro compito è lavorare perché questa massa si rivolti, butti a mare il capitano, gli ufficiali e guidi la nave verso le sponde della libertà, compagni! E non semplicemente affiancare il timoniere lasciando immutata la rotta della nave, gli scopi del viaggio e soprattutto la triste sorte dell’equipaggio. Fuor di metafora credo che dobbiamo riprendere, insistere su un lavoro sistematico che metta al centro della nostra proposta politica l’emancipazione della sinistra di questo paese da quel legame micidiale che per oltre dieci anni l’ha incatenata a politiche centriste, a politiche borghesi, a politiche che hanno mortificato sistematicamente ogni richiesta di reale cambiamento e noi sappiamo, perché ce lo dice la Puglia ma ce lo ha detto anche il referendum sull’articolo 18, ce lo dicono persino i recenti risultati elettorali, che esiste questa richiesta, che quando c’è la possibilità di esprimersi in libertà, questo popolo di sinistra, la nostra gente e quella che ci è vicina chiede una diversa piattaforma e un diverso orientamento. Ma questa richiesta viene sistematicamente smentita dal meccanismo di questa alleanza.

Un ultimo minuto voglio dedicarlo al partito e al dibattito che abbiamo avuto. Abbiamo dibattuto, ci siamo divisi, ci siamo anche contati e sono emersi dei numeri, ovviamente. Io credo che nei prossimi mesi ed anni, dopo che ci siamo contati, i nostri argomenti verranno anche pesati dagli avvenimenti, che hanno io credo un giudizio inappellabile (senza con questo voler sminuire la grande importanza del dibattito che abbiamo tenuto). Dico però che in questa discussione e nei passaggi impegnativi che abbiamo davanti mi preoccupano, e credo di non essere il solo, certi richiami che ho sentito a una proposta di gestione e di sviluppo della vita del partito, che - permettetemi di dirvelo proprio come lo penso - vedo come pericolosi richiami ad una forma di conformismo di maggioranza, che a sua volta ricade, lo dico anche per esperienza personale, nel conformismo delle minoranze (ho fatto qualche battaglia contro il conformismo delle minoranze negli anni passati, il compagno Ferrando lo sa). Credo che non si possa confondere il riconoscimento della maggioranza che emerge da questo congresso, e l’applicazione della sua linea, con la costruzione di un percorso che permetta la prosecuzione del dibattito.

Mi è d’obbligo ringraziare i compagni e le compagne che ci hanno voluto sostenere con il voto, ma anche i tanti che pur non volendo darci quel sostegno hanno dimostrato la loro volontà di interloquire, di dibattere e io credo di riconoscere la dignità politica delle cose che abbiamo detto, e ci hanno detto “avremo ancora tante cose da dirci” nei prossimi anni, di fronte agli avvenimenti che si prospettano. Io spero che sia questo spirito a prevalere nel partito, nella discussione di questo congresso, nelle decisioni che prenderemo per definire le regole della nostra vita democratica e del nostro dibattito interno nei prossimi mesi ed anni. Vi ringrazio.

Venezia, 4 marzo 2005.

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