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Asilo politico

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(1 Luglio 2012) Enzo Apicella
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Riforme. Renzi e il ruolo poco super partes del Quirinale

(27 Luglio 2014)

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Accet­tando a malin­cuore il sacri­fi­cio del secondo man­dato che aveva sin lì sde­gno­sa­mente escluso ma che con­si­de­rava un far­dello impo­sto dall’amor di patria, Gior­gio Napo­li­tano disse: resto al Colle per le riforme, me ne andrò non appena si saranno varate. Il suo con le «riforme» è un legame indistrut­ti­bile, tanto che si potrebbe par­lare di una pre­si­denza a pro­getto. Ma que­sta endiadi sta pro­du­cendo mostri, e spin­gendo il pre­si­dente sem­pre più lon­tano dal ruolo super par­tes, di organo di garan­zia, asse­gnato dalla Costi­tu­zione al capo dello Stato.

L’esca­la­tion di que­sti giorni è impres­sio­nante e non può non destare allarme. Solo una ven­tina di giorni fa, pur sol­le­ci­tando il Senato a comin­ciare final­mente l’esame di una «riforma» defi­nita «sem­pre più urgente» e «matura» e chissà per­ché «vitale», Napo­li­tano aveva assi­cu­rato di non volere «entrare nel merito» del con­fronto sul supe­ra­mento del bica­me­ra­li­smo per­fetto. Le ultime prese di posi­zione sono di tutt’altro segno. Riscon­trata la deter­mi­na­zione a resi­stere dei cri­tici del dise­gno «rifor­ma­tore» e delle fronde interne agli stessi par­titi che dovreb­bero garan­tirne la rapida appro­va­zione, il pre­si­dente non si è più tenuto. Prima ha bol­lato come «spet­tri» quelli agi­tati da quanti scor­gono il rischio di derive auto­ri­ta­rie (non siamo alle «allu­ci­na­zioni» della cor­tese mini­stra, ma poco ci manca). Poi si è rifiu­tato di rice­vere i sena­tori che bus­sa­vano alle porte del Quirinale per denun­ciare lo scon­cio di un con­tin­gen­ta­mento impo­sto a dispetto di quella Costituzione che, pure, egli ha il com­pito di custo​dire​. Il fatto è che, pro­prio come il governo, il pre­si­dente giura sulla bontà del pro­getto ren­ziano e ber­lu­sco­niano di un Senato non elet­tivo ma con fun­zioni costi­tu­zio­nali, iper-maggioritario (i 95 sena­tori saranno scelti a mag­gio­ranza da assem­blee regio­nali a loro volta elette col mag­gio­ri­ta­rio) e nel quale il suo suc­ces­sore disporrà di un suo per­so­nale gruppo par­la­men­tare (potendo nomi­nare cin­que sena­tori per la durata del pro­prio settennato).

C’è di che tra­se­co­lare, anche solo con­si­de­rando il con­te­nuto di que­sta «riforma» costi­tu­zio­nale det­tata dal governo, e il suo più per­verso effetto indiretto.

Anche gra­zie al gene­roso pre­mio pre­vi­sto dall’Italicum, l’abbassamento della soglia richie­sta per l’elezione del capo dello Stato per­met­terà al par­tito di mag­gio­ranza rela­tiva – quindi al governo – di eleg­gersi il suo pre­si­dente, quindi di con­trol­lare Con­sulta e Csm. Con uno scopo evi­dente, che è poi lo stesso che ispira la legge elet­to­rale ideata da Renzi e Berlusconi e la nuova disci­plina del refe­ren­dum popo­lare: porre il sistema costi­tu­zio­nale alla mercé del governo, taci­tando le mino­ranze (anzi esclu­den­dole del tutto dalla rap­pre­sen­tanza) e impe­dendo alla cit­ta­di­nanza di inter­ve­nire (di inter­fe­rire) nella for­ma­zione delle deci­sioni. Ovvia­mente que­sta scelta di campo scon­certa e pre­oc­cupa. Non di «spet­tri» si tratta, ma della con­creta minac­cia di una muta­zione gene­tica della forma par­la­men­tare di governo, che viene assu­mendo mar­cati tratti auto­ri­tari e popu­li­stici. Ma il pro­blema non è sol­tanto né prin­ci­pal­mente que­sto. Le cose non sareb­bero meno gravi se le «riforme» in discus­sione fos­sero accet­ta­bili e per­sino ottime.

La que­stione cru­ciale è di ordine costi­tu­zio­nale. Può un pre­si­dente far pesare le pro­prie per­so­nali valu­ta­zioni di merito? Può egli entrare nell’ambito dell’attività e fun­zione sta­tuale che attiene all’indi­rizzo poli­tico, quindi alle pre­ro­ga­tive pro­prie di par­la­mento e governo? La domanda è reto­rica: natu­ral­mente non può. E sic­come non è la prima volta che Napo­li­tano com­pie que­sta scelta ecce­dendo i limiti della pro­pria fun­zione, è venuto il momento di riflet­tere e di chie­dersi – fuori da ogni tabù – per­ché lo fa, e anche che cosa rischia di discenderne.

Forse i pre­ce­denti ci aiu­tano a capire. Fummo in molti, in occa­sione delle dimis­sioni del governo Ber­lu­sconi nell’autunno 2011, a scor­gere una for­za­tura nell’insediamento di Monti alla guida di quello che inso­spet­ta­bili espo­nenti di parte «demo­cra­tica» vol­lero chia­mare «governo del pre­si­dente». Si poteva discu­tere. Ma di certo una for­za­tura grave ebbe luogo pochi mesi dopo (marzo 2012), quando Napo­li­tano entrò a gamba tesa nel dibat­tito sulla «riforma» dell’art. 18 dello Sta­tuto dei lavo­ra­tori per­pe­trata dalla mini­stra For­nero. Per soste­nerla ener­gi­ca­mente con­tro il fronte sin­da­cale, e in sostanza can­cel­lare la garan­zia del rein­te­gro del licen­ziato senza giu­sta causa, sim­bolo dei diritti e delle tutele della sicu­rezza e della dignità dei lavoratori.

Un altro epi­so­dio per dir così incre­scioso, che ha rischiato di inne­scare un duro scon­tro isti­tu­zio­nale, si è veri­fi­cato lo scorso marzo, quando, in qua­lità di pre­si­dente del Con­si­glio supremo di difesa, Napo­li­tano ha cer­cato di estro­met­tere il par­la­mento dalle deci­sioni rela­tive alla maxi-commessa degli F-35, nono­stante una legge del 2012 (da lui con­tro­fir­mata) affidi alle Camere il con­trollo sulla spesa mili­tare. In que­sti due casi emble­ma­tici (ma gli esempi potreb­bero mol­ti­pli­carsi) non si tratta di «riforme» costi­tu­zio­nali o elet­to­rali come quelle ora pro­pu­gnate dal governo Renzi e soste­nute a spada tratta dal pre­si­dente. Ma alla base degli inter­venti esor­bi­tanti di quest’ultimo vige una coe­renza essen­ziale, e squi­si­ta­mente politica.

È dif­fi­cile non rile­vare che Napo­li­tano inter­viene quando sente minac­ciata la tra­sfor­ma­zione del paese in chiave «euro­pea», il che oggi signi­fica ame­ri­cana o, più pre­ci­sa­mente, ame­ri­ca­ni­sta, poi­ché gli Stati Uniti sono in que­sto discorso un modello defi­nito ad hoc. Un modello che si incen­tra su pochi assi car­di­nali: il pri­mato dell’impresa e del «libero mer­cato»; la gover­na­bi­lità (cioè l’adozione di un sistema bipo­lare o bipar­ti­tico basato sulla con­nes­sione diretta elezione-governo); il «rigore» nella gestione della finanza pub­blica (che si tra­duce nella secca e cre­scente ridu­zione della spesa pub­blica e nella com­pres­sione dei diritti sociali); e, natu­ral­mente, la lealtà asso­luta, «senza se e senza ma», alla Nato e ai suoi piani mili­tari. È dif­fi­cile non vedere tutto que­sto, come è impos­si­bile non cogliere una con­ti­nuità di lungo periodo che salda le azioni del Napo­li­tano pre­si­dente alle sue bat­ta­glie di lungo periodo, com­bat­tute già nel Pci, con­tro l’anomalia ita­liana – la pre­senza di una radi­cata forza e cul­tura comu­ni­sta, di un forte movi­mento sin­da­cale di classe, di una con­so­li­data pra­tica della par­te­ci­pa­zione demo­cra­tica di massa – nel con­sesso delle potenze atlantiche.

Ma quelle bat­ta­glie, legit­time dalle file di un par­tito, il pre­si­dente non può e non dovrebbe più per­met­ter­sele. Che lo fac­cia è gra­vis­simo, non sol­tanto per le con­se­guenze imme­diate dei suoi atti, ma anche per la dege­ne­ra­zione del ruolo che rico­pre. Sul punto la Costi­tu­zione è stata for­te­mente sol­le­ci­tata negli ultimi decenni. Ha influito per­sino una figura cari­sma­tica come quella di Per­tini. A stra­vol­gere le regole provò Cos­siga, che venne tut­ta­via fer­mato. Anche il pro­ta­go­ni­smo di Scal­faro fu una novità, solo in parte giu­sti­fi­cata dai grandi muta­menti seguiti alla cesura sto­rica del 1989–91. Oggi la mag­giore respon­sa­bi­lità di Napo­li­tano sta nell’avere esa­spe­rato la ten­denza alla poli­ti­ciz­za­zione del pro­prio ruolo, oltre che nell’assecondare la cor­ru­zione della forma par­la­men­tare di governo verso la fin­zione dell’elezione diretta dell’esecutivo. Nel qua­dro di un ordi­na­mento che ciò non pre­vede e che ne risulta quindi scom­pen­sato e gra­ve­mente squilibrato.

C’è, a que­sto punto, da spe­rare che gli eccessi degli ultimi giorni aprano final­mente gli occhi a molti, un po’ come sta acca­dendo con le «riforme» ren­ziane che Napo­li­tano cal­deg­gia ma di cui viene emer­gendo sem­pre più chia­ra­mente la ratio anti­de­mo­cra­tica. Per­ché que­sto avvenga biso­gna che un sus­sulto scuota anche il corpo largo dei par­titi mag­giori, non sol­tanto le mino­ranze dis­si­denti, alle quali va comun­que il plauso per la bat­ta­glia che stanno con­du­cendo. Che ciò accada oggi è dif­fi­cile, a ragion veduta quasi impos­si­bile; ma non si sa mai. Le strade della virtù civile non sono infi­nite come quelle della prov­vi­denza, ma nem­meno si può esclu­dere che alla fine respon­sa­bi­lità e dignità prevalgano.

Alberto Burgio, Il manifesto

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