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(2 Novembre 2011) Enzo Apicella
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Gaza. Il silenzio del movimento pacifista e l’ipocrisia dei media embedded

(30 Luglio 2014)

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Non voglio par­lare nel merito di quanto sta acca­dendo a Gaza. Non ne voglio scri­vere per­ché provo troppo dolore a dover per l’ennesima volta emet­tere grida di indi­gna­zione, né ho voglia di ridurmi ad auspi­care da anima buona il dia­logo fra le due parti, eser­ci­zio cui si dedi­cano le belle penne del nostro paese. Come si trat­tasse di due monelli liti­giosi cui noi civi­liz­zati dob­biamo inse­gnare le buone maniere. Per non dire di chi addi­rit­tura invoca le ragioni di Israele, così vil­mente attac­cata — pove­retta — dai ter­ro­ri­sti. ( I pale­sti­nesi non sono mai «mili­tari» come gli israe­liani, loro sono sem­pre e comun­que ter­ro­ri­sti, gli altri mai).
Ieri ho sen­tito a radio Tre, che ricor­davo meglio delle altre emit­tenti, una tra­smis­sione cui par­te­ci­pa­vano com­men­ta­tori dav­vero inde­centi, un gior­na­li­sta (Meucci o Meotti, non ricordo) che con­teg­giava le vit­time pale­sti­nesi: che mascal­zo­nata le men­zo­gne degli anti­strae­liani, tutti dimen­ti­chi dell’Olocausto – pro­te­stava. Per­chè non è vero che i civili morti ammaz­zati siano due terzi, tutt’al più un terzo.
E poi il «Foglio» che pro­muove una mani­fe­sta­zione di soli­da­rietà con le vere vit­time: gli israe­liani, per l’appunto.
Si può non essere d’accordo con la linea poli­tica di Hamas – e io lo sono — ma chi la cri­tica dovrebbe poi spie­gare per­ché allora né Neta­nyahu, né alcuno dei suoi pre­de­ces­sori, si sia accor­dato con l’Olp ( e anzi abbia sem­pre insi­diato ogni ten­ta­tivo di intesa fra Hamas e Abu Mazen, per man­darla per aria). E però io mi domando: se fossi nata in un campo pro­fu­ghi della Pale­stina, dopo quasi settant’anni di soprusi, di mor­ti­fi­ca­zioni, di vio­la­zione di diritti umani e delle deci­sioni dell’Onu, dopo decine di accordi rego­lar­mente infranti dall’avanzare dei coloni, a fronte della pre­tesa di ren­dere la Pale­stina tutt’al più un ban­tu­stan a mac­chia di leo­pardo dove milioni di coloro che vi sono nati non pos­sono tor­nare, i tanti cui sono state rubate le case dove ave­vano per secoli vis­suto le loro fami­glie, dopo tutto que­sto: che cosa pen­se­rei e farei? Io temo che avrei finito per diven­tare terrorista.

Non per­ché que­sta sia una strada giu­sta e vin­cente ma per­ché è così insop­por­ta­bile ormai la con­di­zione dei pale­sti­nesi; così macro­sco­pi­ca­mente inac­cet­ta­bile l’ingiustizia sto­rica di cui sono vit­time; così fili­stea la giu­sti­fi­ca­zione di Israele che si lamenta di essere col­pita quando ha fatto di tutto per susci­tare odio; così pale­se­mente ipo­crita un Occi­dente (ma ormai anche l’oriente) pronto a man­dare ovun­que bom­bar­dieri e droni e reg­gi­menti con la pre­tesa di soste­nere le deci­sioni delle Nazioni Unite, e che però mai, dico mai, dal 1948 ad oggi, ha pen­sato di inviare sia pure una bici­cletta per imporre ad Israele di ubbi­dire alle tante riso­lu­zioni votate nel Palazzo di Vetro che i suoi governi, di destra o di sini­stra, hanno rego­lar­mente irriso.

Ma non è di que­sto che voglio scri­vere, so che i let­tori di que­sto gior­nale non devono essere con­vinti. Ho preso la penna solo per il biso­gno di una rifles­sione col­let­tiva sul per­ché, in pro­te­sta con quanto accade a Gaza, sono scesi in piazza a Parigi e a Lon­dra, cosa fra l’altro rela­ti­va­mente nuova nelle dimen­sioni in cui è acca­duto, e nel nostro paese non si è andati oltre qual­che pre­si­dio e volen­te­rose pic­cole mani­fe­sta­zioni locali, per for­tuna Milano, un impe­gno più rile­vante degli altri.

Cosa è acca­duto in Ita­lia che su que­sto pro­blema è stata sem­pre in prima linea, riu­scendo a mobi­li­tare cen­ti­naia di migliaia di per­sone? È forse pro­prio per que­sto, per­ché siamo costretti veri­fi­care che quei cor­tei, arri­vati per­sino attorno alle mura di Geru­sa­lemme (ricor­date le «donne in nero»?) non sono ser­viti a far avan­zare un pro­cesso di pace, a ren­dere giu­sti­zia? Per sfi­du­cia, rinun­cia? Per­ché noi — il più forte movi­mento paci­fi­sta d’Europa – non siamo riu­sciti ad evi­tare le guerre ormai diven­tate perenni, a far pre­va­lere l’idea che i patti si fanno con l’avversario e non con l’alleato per­ché l’obiettivo non è pre­va­lere ma inten­dersi? O per­ché – piut­to­sto — non c’è più nel nostro paese uno schie­ra­mento poli­tico suf­fi­cien­te­mente ampio dotato dell’autorevolezza neces­sa­ria ad una mobi­li­ta­zione ade­guata? O per­ché c’è un governo che è stato votato da tanti che nelle mani­fe­sta­zioni del pas­sato erano al nostro fianco e che però non è stato capace di dire una parola, una sola parola di denun­cia in que­sta tra­gica cir­co­stanza? Un silen­zio agghiac­ciante da parte del ragazzo Renzi che pure ci tiene a far vedere che lui, a dif­fe­renza dei vec­chi poli­tici, è umano e natu­rale? Privo di emo­zioni, di capa­cità di indi­gna­zione, almeno quel tanto per farsi sfug­gire una frase, un moto di com­mo­zione per quei bam­bini di Gaza mas­sa­crati, nei suoi tanti accat­ti­vanti vir­tuali col­lo­qui con il pub­blico? È per­ché non prova niente, o per­ché pensa che le sorti dell’Italia e del mondo dipen­dano dal fatto che la muta Moghe­rini assurga al posto di mini­stro degli esteri dell’Unione Euro­pea? E se sì, per far che?

Di que­sto vor­rei par­las­simo. Io non ho rispo­ste. E non per­ché pensi che in Ita­lia non c’è più niente da fare. Io non sono, come invece molti altri, così pes­si­mi­sta sul nostro paese. E anzi mi arrab­bio quando, dall’estero, sento dire: «O dio­mio l’Italia come è finita», e poi si parla solo di quello che fa il governo e non ci si accorge che c’è ancora nel nostro paese una poli­ti­ciz­za­zione dif­fusa, un grande dina­mi­smo nell’iniziativa locale, nell’associazionismo, nel volontariato.

Negli ultimi giorni sono stata a Otranto, al cam­peg­gio della «Rete della cono­scenza» (gli stu­denti medi e uni­ver­si­tari di sini­stra). Tanti bravi ragazzi, nem­meno abbron­zati seb­bene ai bordi di una spiag­gia, per­ché impe­gnati tutto il giorno in gruppi di lavoro, alle prese con i pro­blemi della scuola, ma per nulla cor­po­ra­tivi, aperti alle cose dell’umanità, ma certo privi di punti di rife­ri­mento poli­tici gene­rali, senza avere alle spalle ana­lisi e pro­getti sul e per il mondo, come era per la mia gene­ra­zione, e per­ciò vit­time ine­vi­ta­bili della fram­men­ta­zione. Poi ho par­te­ci­pato a Villa Literno alla bel­lis­sima cele­bra­zione del ven­ti­cin­que­simo anni­ver­sa­rio della morte di Jerry Maslo, orga­niz­zata dall’Arci, che da quando, nel 1989, il gio­vane suda­fri­cano, anche lui schiavo nei campi del pomo­doro, fu assas­si­nato ha via via svi­lup­pato un’iniziativa costante, di sup­plenza si potrebbe dire, rispetto a quanto avreb­bero dovuto fare le isti­tu­zioni: vil­laggi di soli­da­rietà nei luo­ghi di mag­gior sfrut­ta­mento, volon­ta­riato fati­coso per dare ai gio­vani neri magre­bini e sub­sa­ha­riani, poi pro­ve­nienti dall’est, l’appoggio umano sociale e poli­tico necessario.

Parlo di que­ste due cose per­chè sono quelle che ho visto negli ultimi giorni coi miei occhi, ma potrei aggiun­gere tante altre espe­rienze, fra que­ste cer­ta­mente quanto ha costruito la lista Tsi­pras, che ha reso sta­bile, attra­verso i comi­tati elet­to­rali che non si sono sciolti dopo il voto, una ine­dita mili­tanza poli­tica dif­fusa sul territorio.

E allora per­ché non riu­sciamo a dare a tutto quello che pure c’è capa­cità di inci­dere, di contare?

Certo, molte delle rispo­ste le cono­sciamo: la cre­scente irri­le­vanza della poli­tica, il declino dei par­titi, ecce­tera ecce­tera. Non ho scritto per­ché ho ricette, e nem­meno per­ché non cono­sca già tante delle rispo­ste. Ho scritto solo per con­di­vi­dere la fru­stra­zione dell’impotenza, per non abi­tuarsi alla ras­se­gna­zione, per aiu­tarci l’un l’altro «a cer­care ancora».

Luciana Castellina, il manifesto

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