">
il pane e le rose

Font:

Posizione: Home > Archivio notizie > Comunisti e organizzazione    (Visualizza la Mappa del sito )

Ricordando Stefano Chiarini

Ricordando Stefano Chiarini

(6 Febbraio 2007) Enzo Apicella
E' morto Stefano Chiarini, un giornalista, un compagno,un amico dei popoli in lotta

Tutte le vignette di Enzo Apicella

costruiamo un arete redazionale per il pane e le rose Libera TV

SITI WEB
(Memoria e progetto)

A CINQUANT’ANNI DALLA MORTE DI TOGLIATTI: ANALISI SOMMARIA, MA RICORDO NECESSARIO.

(24 Agosto 2014)

togliattianalisi

Il 21 Agosto 1964, a Jalta in Unione Sovietica, moriva Palmiro Togliatti, segretario generale del PCI.
Sono passati cinquant’anni e il dibattito sulla sua figura è apparso, in questi giorni, assumere un’importanza significativa: gli hanno dedicato pagine i più importanti quotidiani e il “Manifesto” ha ospitato due importanti articoli di Paolo Santomassimo e Guido Liguori
Tanto più che, proprio in questi giorni, analoga ricorrenza (pur spostata di dieci anni in avanti, correva il 1954) interessa la figura di Alcide De Gasperi ed esponenti dell’ala ex-democristiana all’interno del PD hanno addirittura proposto di intestare la Festa dell’Unità alla memoria dello statista trentino: alcuni hanno anche tentato anche un parallelo tra i due uomini politici, in nome della comune costruzione costituzionale all’interno dell’Assemblea Costituente e del rapporto tra i grandi partiti di massa dell’epoca.
Sulle colonne della “Stampa” ci si è posti l’interrogativo del rapporto che avrebbero avuto Togliatti e De Gasperi nei confronti del PD, concludendo che se in quel partito molti fanno riferimento alla figura dell’ex-segretario DC, quello PCI non avrebbe sicuramente mai aderito al Partito Democratico.
E’ ancora il caso dunque di affrontare il tema di una collocazione “storica” della figura di Palmiro Togliatti costruendo, prima di tutto, un primo lavoro di comparazione, che ci indica come esistano analogie “forti” tra la situazione in cui si venne a trovare Togliatti nella fase delle sua scelte più complesse, e la situazione attuale: esistono infatti elementi di continuità nei fattori oggettivi, legati alla struttura e alla storia della società capitalistica italiana rappresentati da un’atavica debolezza della borghesia e del suo apparato produttivo e dal peso enorme e crescente di quelle rendite parassitarie di cui è sempre stato specialista il capitalismo italiano.
In questo quadro permangono, allora, elementi della lezione togliattiana che ci indicano come essa avrebbe bisogno di essere rivisitata a fondo, nei suoi elementi teorici portanti.
Il riferimento è rivolto all'idea che il soggetto politico proponente, un’alternativa allo “stato di cose presenti” debba muoversi garantendo un forte grado di autonomia, di attività, di coscienza antagonistica di massa, favorendo una crescita, per così dire “molecolare” (quindi pervasiva nei confronti della società civile) di un’egemonia “alternativa”.
Una lezione che vale per l'oggi, perché erano questi i punti su cui si basava la famosa “doppiezza”. Naturalmente Togliatti si trovava a muoversi su di un orizzonte affatto diverso, da quello odierno: la fase storica in cui Togliatti agiva era stata caratterizzata da grandi rotture rivoluzionarie nel mondo, verificatesi però alla periferia del sistema, mentre in Occidente, nei cosiddetti “punti alti”, si poteva solo condizionare lo sviluppo capitalistico, e accumulare le forze necessarie per un salto non ancora storicamente maturo.
In questo suo collegamento preciso con una fase storica ben determinata, in questo sua partecipazione attiva e originale a una iniziativa rivoluzionaria, sta il valore profondo del togliattismo ,che è necessario studiare anche oggi, ma risiede anche il suo limite profondo, sia sul piano teorico, sia sul piano pratico.
Togliatti e Gramsci ebbero in comune gli elementi fondamentali su cui si basò la “svolta” del Congresso di Lione del 1926, basati sulla necessità di formare, attraverso un lento e articolato lavoro di lotta sociale e politica un “blocco storico”, sull'utilizzo della mediazione di forze politiche profondamente ramificate all'interno del senso comune di massa, sull'esistenza di un partito che non operasse soltanto come avanguardia, ma come intellettuale collettivo, promotore di una lunga rivoluzione intellettuale e morale, sulla prospettiva di una lunga lotta all'interno della società capitalistica, sviluppando parole d'ordine intermedie e positive e con una forte attivizzazione e partecipazione di massa.
La vera distinzione tra Gramsci e Togliatti si può cominciare a vedere qualche anno dopo: quando Gramsci continua a pensare al modo per reagire alla sconfitta degli anni'20, riflettendo sulla necessità di andare a fondo nella critica dell'evoluzionismo della II Internazionale, mentre Togliatti comincia a pensare che il “consolidamento dell'Ottobre” permetterà un incontro, un recupero del gradualismo riformista.
A questo punto il pensiero togliattiano si sviluppa nella sua impostazione fondamentale.
La sua relazione al 7° Congresso dell'Internazionale contiene già i punti salienti della sua impostazione successiva. Una relazione caratterizzata da una svolta profonda verso la politica unitaria, comprendendo appieno come in Occidente la sovrastruttura politica avesse profonde radici di massa, non liquidabili di colpo durante una crisi com’era avvenuto in Russia nel 1917 e dalla riscoperta della politica di massa.
Nascevano da lì, da quella relazione, i Fronti Popolari: nascevano, però, con il limite profondo rappresentato da contenuti molto ristretti, sostanzialmente democratico – borghese, degli orizzonti di lotta e dal limite degli equilibri parlamentari.
Dall'esperienza frontista nacque, comunque, una interpretazione della prospettiva rivoluzionaria che, poi, segnò per decenni i partiti comunisti occidentali: l'idea delle “bandiere lasciate cadere nel fango dalla borghesia”, che , per il fatto di essere impugnate dal proletariato, cambiano di segno (libertà parlamentari, sviluppo industriale, ecc.).
Le opzioni di fondo del frontismo fecero da sfondo alle scelte compiute con la “svolta di Salerno” del 1944 (Unità antifascista come “bene in sé” e partito nuovo), e caratterizzarono anche la politica portata avanti, almeno sino all'esplosione della “guerra fredda”.
Com’è possibile giudicare, oggi, quel periodo, partendo dalla domanda su cosa, realmente, si è prodotto, in Italia e in Europa, tra il 1944 e il 1947? Si ebbe una sostanziale restaurazione dello stato e del potere economico preesistente, oppure, soprattutto per via dell'iniziativa del PCI guidato da Togliatti, si realizzò un prolungato dualismo di potere, che continuò poi anche nei decenni successivi nonostante l'anomalia della situazione italiana, cioè di una fase di transizione, genericamente definibile come “rivoluzione antifascista”, nel corso della quale si modificò la forma statale (caratterizzata dall'adozione della Costituzione Repubblicana) e dell'economia (laddove lo sviluppo neocapitalistico risultò condizionato dalla presenza di un forte e autonomo movimento operaio, estendendo, di conseguenza le proprie funzioni pubbliche)?
Le risposte a questo interrogativo possono essere molteplici, compresa quella che , dal condizionamento del movimento operaio e dalla fragilità organica del capitalismo italiano, o meglio dalla mediazione avvenuta sul terreno pubblico nei campi dell'istruzione, della previdenza sociale, delle infrastrutture, nacque l'enorme sviluppo del parassitismo, impedendo il ricostituirsi organico di una nuova ideologia borghese, al punto di portare gran parte della società italiana ad adagiarsi, nei decenni successivi, sullo schema del consumismo individualistico.
Nella sostanza non possiamo ignorare come rimase sempre in Togliatti, come in tutto il frontismo, non solo il rifiuto contingente e motivato della rottura rivoluzionaria in un certo momento e in un certo luogo, ma anche la sottovalutazione dei meccanismi di integrazione che il capitalismo poteva mettere nel frattempo in opera; del pericolo ,cioè, del porsi in opera di un meccanismo di “rivoluzione passiva” (un appunto questo che potrebbe essere rivolto anche oggi, a certi esegeti, più o meno coscienti, del togliattismo).
I tratti salienti dell'opera concreta di Togliatti portano, dunque, il segno concreto di questa ambiguità, generata a mio avviso dallo svilupparsi della linea dei Fronti Popolari, che rimane la “stimmate” decisiva di quel periodo (ed anche di quelli successivi, se pensiamo alla fase del “compromesso storico” e della “solidarietà nazionale”, discendenti, in una qualche misura, di quell'impostazione).
L'ambiguità, però, è sempre feconda, perché è proprio dall'ambiguità togliattiana che nasce una fase di sviluppo importante, nella storia del PCI.
Quando il “miracolo economico” da un lato, e la battuta d'arresto che seguì il XX congresso del PCUS dall'altro, l'obbligarono a fare i conti irrisolti con la sua strategia, Togliatti dimostrò il coraggio di chi non si irrigidisce a difesa, ma ricomincia a pensare e stimola a pensare.
Ecco, allora, la coraggiosa riproposizione di documenti e riflessioni su Gramsci (il convegno del'58), sulla storia del Partito e del suo gruppo dirigente.
Ecco lo spazio e la garanzia offerta al dibattito interno; gli atteggiamento assunti sul luglio 1960 e sul problema dei giovani; ed ecco l'avvio di una polemica ideale cura rivolta contro la scelta del PSI nel nascente centrosinistra, e, sul piano internazionale, le distanze prese dalla politica sovietica, fino al Memoriale di Jalta.
Certo, non si trattò affatto di una nuova linea, ma di una capacità di star dentro alla piena produttività intellettuale della propria ambiguità d'espressione, rappresentando, allo stesso tempo, lo stimolo e l'arbitro di un dibattito che attraversava un partito grande e complesso quale era il PCI di allora: l'assenza di quello stimolo e di quella capacità d'arbitrato porteranno , del resto, quei dilemmi a sfociare nel confronto Amendola – Ingrao, sviluppatosi nel corso dell'XI congresso, il primo celebratosi dopo la morte di Togliatti (1966).
Il periodo tra il 1960 ed il 1964 fu improntato, sul piano delle idee e su quello della pratica, da non poche delle tematiche su cui sarebbe, successivamente, cresciuta la grande stagione delle lotte degli anni '60.
E' quello il periodo del dibattito, e poi delle esperienze reali, intorno al tema del sindacato, della sua unità, della sua autonomia e, più in generale intorno ai temi delle lotte operaie. Si riscopre la dimensione della lotta aziendale, dell'iniziativa dal basso; si aggrediscono gli aspetti nuovi, di potere, del conflitto di classe (qualifiche, cottimi, premi); si rilancia il ruolo del partito in fabbrica, legato al conflitto reale e non solo come propagandista.
E' quello, anche, il periodo di un nuovo lavoro teorico che introduce, forse per la prima volta, Marx (ed il Capitale) direttamente nella cultura italiana, con questo riportando in primo piano la questione dei rapporti di produzione e muove i primi, contraddittori passi di una critica qualitativa dello sviluppo capitalistico (Luckas, Adorno).
Tutte cose importanti, per contrastare, nel momento del suo massimo sforzo, il tentativo della borghesia di stabilire l'egemonia della cultura americanizzante, tentando, insomma, di non consentire al partito di sciogliere la propria doppiezza, all'interno degli insidiosi meccanismi della “rivoluzione passiva”.
Quello fu, ancora, il periodo in cui affiorò una critica reale alla linea della coesistenza come “status quo” e assunsero valore caratterizzante le scelte a favore dell'Algeria e di Cuba.
E' quello, infine, il periodo del recupero dell'antifascismo militante, a partire dallo scontro con Tambroni del Luglio 1960.
Non furono solo battaglie di idee, anche se un certo limite di “illuminismo” lo si può riscontrare, ma andarono avanti anche esperienze corpose: le lotte operaie del '59 e poi del '62; le lotte di piazza internazionaliste; il luglio del'60; la formazione, nella Fgci, di una nuova generazione di intellettuali.
Insomma, il '68 fu preparato da processi profondi che, anticiparono non pochi dei suoi temi.
La critica al neocapitalismo era, in Italia, non a caso già avviata prima della grande esplosione: tutto ciò, ovviamente, non maturò soltanto all'interno del togliattismo e del PCI. Importantissimi furono i contributi di correnti culturali quale quella rappresentata da Galvano Della Volpe, la ricerca di Panzieri e della sinistra socialista, l'autonoma evoluzione di molte realtà interne al mondo cattolico, dalla CISL alle ACLI.
All’interno del PCI si sviluppò un confronto molto importante sulla natura del capitalismo italiano al momento del boom e del ruolo del nascente centro-sinistra: in particolare l’occasione fu sviluppata nel corso di un convegno organizzato dall’Istituto Gramsci nel 1962 proprio sulle “tendenze del capitalismo italiano”. In quel convegno si ebbe un duro attacco sferrato da Giorgio Amendola ( che puntava sulla tesi del “capitalismo straccione” e sull’appoggio al centrosinistra, al punto da proporre la riunificazione con il PSI in un Partito del Lavoro) alle due relazioni di Bruno Trentin e Lucio Magri che invece miravano alla natura trasformatrice di un neo-capitalismo aggressivo e rampante al quale andava contrapposta una alternativa di sistema, anche attraverso una proposta di rottura del quadro politico consolidato.
Il punto più importante e significativo di quella discussione nel PCI fu però rappresentato dalla vicenda riguardante la radiazione del Manifesto, che qui può ancora essere ricordata per sommi capi perché il confronto si svolse, dopo la celebrazione dell’XI congresso (quello del celebre “compagni non sono persuaso” di Ingrao), ancora all’interno del quadro di riferimento rappresentato dalla non sciolta “doppiezza”.
Una vicenda quella riguardante le compagne e i compagni del “Manifesto” nel corso della quale però il dato di fondo del PCI quale sede di una militanza complessiva non fu mai (nonostante successivi diversi tentativi) messo sostanzialmente in discussione.
Nella storia del “Manifesto” stanno dubbi, inquietudini, bisogno di fare i conti con un passato difficile, richiamando il senso complessivo di una militanza comunista su cui è ancora necessario ritornare.
Il punto di genesi può essere individuato nel dibattito che ebbe luogo, come è stato appena ricordato , nel partito comunista degli anni’60, e che può essere riassunto in tre fasi :
1) La prima, dall’estate del 1960 alla morte di Togliatti, riguardò la rimessa in discussione del tema della trasformazione della società italiana. I fatti del luglio’60, con la cacciata in piazza del governo Tambroni e la discesa in campo die ragazzi con “le magliette a strisce” (ultimo anelito della resistenza o primo vagito del ’68 ?), rappresentarono un momento di grande impatto sull’intera vicenda storica del nostro paese : vi si espressero articolazioni molto vaste della società civile, risollevando la tematica di un nuovo blocco sociale di cambiamento ;
2) la seconda, e bruciante, fase si misurò tra il ’64 e il ’67, quando la morte di Togliatti aprì il problema della successione nel partito comunista, ed il problema di linea si collegò immediatamente al problema della formazione del gruppo dirigente ;
3) la terza fase percorse il periodo tra il ’68 ed il ’70 ; fino al punto di rottura organizzativa con il PCI. Il PCI , a differenza del PCF, si lasciò invadere dalle assemblee degli studenti, e lo stesso Longo, prima delle elezioni del 19 Maggio 1968, andò addirittura ad un incontro con gli studenti del movimento romano, che venne pubblicato su “Rinascita”.
Il partito comunista sembrava essere tornato di nuovo un veicolo possibile, un punto di riferimento, in una fase nella quale si riteneva potesse riaprirsi un’accelerata guerra di posizione.
L’illusione durò fino al mese di Agosto del '68, quando le scelte del gruppo dirigente del PCI mutarono di segno, in relazione ad una bomba che stava esplodendo, e che ridusse drasticamente i margini di gestione del movimento italiano : la crisi cecoslovacca.
Il PCI visse l’invasione come una tragedia, e non riuscì ad organizzare altro che una tenuta.
Si aprì la fase preparatoria del XII congresso e proprio la scelta di attestare il documento di tesi su di una linea difensiva, sia al riguardo delle tematiche internazionali che rispetto al piano delle dinamiche politiche interne, fece scattare in alcuni membri del Comitato Centrale (Natoli, Pintor, Rossanda) una decisione davvero nuova : non votare il documento della Direzione.
Sarebbe troppo lungo descrivere i diversi aspetti di quella fase congressuale, sia alla periferia sia al centro del partito, e risulta preferibile puntare l’attenzione sull’aspetto più specificatamente politico della vicenda.
Che cosa venne portato, dunque, all’interno di quel congresso dal gruppo del “Manifesto” ?
Essenzialmente tre cose :
a) un’opposizione netta alla fedeltà all’URSS che il PCI comunque riproponeva, sia pure con qualche riserva ;
b) l’ipotesi , al riguardo della scala interna di una crescita del conflitto sociale. A quel momento stava a aprendosi quello che poi verrà denominato “autunno caldo” : una fase di forti lotte operaie, che si scontrarono fortemente con la provocazione di destra (inutile ricordare che il 12 Dicembre 1969 si svolse l’attentato di Piazza Fontana, a Milano) e l’atteggiamento di lotta aperta, mantenuta dalla maggioranza del movimento degli studenti, nei riguardi del sindacato. Il gruppo del “manifesto” avvertì allora, con acutezza e sensibilità del tutto originali, il senso drammatico della necessità di una saldatura da effettuare presto, fra modi d’essere, cultura e contenuti della parte storica del movimento operaio e gli elementi di novità , di contestazione, di dialettica politica usciti dal ’68 ;
c) la certezza che occorresse rinnovare il partito non solo come linea ma come modo d’essere, e questo attraverso l’estendersi di una democrazia interna, mettendo in discussione radicalmente il “centralismo democratico”.
Su questi punti si verificò lo scontro tra il Partito Comunista, ed il gruppo del “manifesto” che venne radiato nel Novembre ’69 : per i promotori di quel gruppo si trattò di una sconfitta, perché la divisione non era stata scelta,.
Non c’è qui lo spazio per descrivere e argomentare i passaggi successivi che portarono a fasi molto complesse nel PCI e all’interno di quella che fu definita poi “nuova sinistra”, a partire dall’esperienza del “compromesso storico” poi politicamente declinato nella “solidarietà nazionale” nella fase della massima espansione elettorale del Partito Comunista e dell’esplosione del terrorismo coincidente con il rapimento Moro, vero e proprio punto di spartiacque della vicenda italiana.
Possiamo, a questo punto, cercare soltanto di chiudere il discorso individuando ciò che vale ancora la pena di essere studiato nel togliattismo, usando l'antica espressione crociana “ciò che è vivo e ciò che è morto”, comprendendo che, anche oggi, una operazione intellettuale di questo tipo vada svolta con metodo dialettico : “ Perché ciò che è vivo porta pesante il segno di ciò che è morto e, reciprocamente ciò che è morto può, proprio nel rapporto con l'insieme, esso stesso contenere potenzialità positive inattese e servire da “concime al futuro” (tanto per citare, per intero, il grande filosofo di Pescasseroli, padre dell'idealismo italiano).
Ciò che è vivo, in Togliatti, pare, a modesto avviso di chi scrive queste note, l'attenzione per la “qualità della democrazia”.
Togliatti non si limita alla questione del consenso, o al rispetto della libertà formale, ma si apre alla questione della partecipazione e attivizzazione delle masse, a partire dai loro bisogni, e poi con le loro lotte, la loro educazione, la loro organizzazione in un partito come intellettuale collettivo, alla costruzione di ramificati rapporti di alleanza, alla crescita di un nuovo senso comune.
Democrazia, insomma, non solo come rispetto di certe regole del gioco politico (libertà come non impedimento, obiettava Togliatti alla tradizione liberale, in una lontana polemica con Bobbio) ma, soprattutto, democrazia con un rapporto nuovo con il potere, come prodotto di un progetto, di una direzione, di un’organizzazione, com’era stato nel caso della costruzione della Costituzione Repubblicana.
Il togliattismo, insomma, come punto storico di riferimento non solo di una contraddizione tra una forza rivoluzionaria e una politica riformista, ma come contraddizione ineliminabile tra una forza organizzatrice di grandi masse, e ciò che invece esige la gestione del capitalismo in crisi (autoritarismo ed emarginazione sociale. Curiosamente; adesso come negli anni ' 50 – '60).
Quella contraddizione che oggi è venuta mancare e che rimane il tratto distintivo di un'epoca (quella del ferro e del fuoco degli anni centrali del'900) di cui la figura di Palmiro Togliatti è stata, sicuramente, una tra le più importanti.

Franco Astengo

Fonte

Condividi questo articolo su Facebook

Condividi

 

Ultime notizie del dossier «La nostra storia»

Ultime notizie dell'autore «Franco Astengo»

6379