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(23 Marzo 2011) Enzo Apicella
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Verso un orrore senza fine: come e perché?

Valeria Poletti, "L’incendio del Medioriente, le connessioni inattese.
Le Primavere arabe, gli Stati Uniti, l’Islam politico", Milano, 2014.

(8 Settembre 2014)

Il libro può essere scaricato dal sito: www.valeriapoletti.com

Valeria Poletti ha tracciato una panoramica estremamente dettagliata e documentata su quanto è avvenuto e sta avvenendo in Medio Oriente, in rapporto alle cosiddette Primavere arabe[1]. Senza nulla lasciare al caso, ci conduce attraverso i meandri di un labirinto terribilmente infido, avvolto nei fumi delle più disparate ideologie, in cui «destra e sinistra» non hanno più alcun significato. Il suo, è quindi un libro che merita di essere letto, meditato e studiato. Ma nessuno è perfetto.

Forse, per un comprensibile eccesso di zelo, nel grande affresco che ci troviamo sotto gli occhi, sfumature e dettagli finiscono per distogliere l’attenzione dall’immagine di insieme. Benché le linee guida che presiedono alla descrizione siano enunciate nell’Introduzione e siano via via riprese nel corso della narrazione, il significato rischia di sfuggirci. Anzi, a volte, alcuni aspetti particolari sembrano prevalere sul tutto.

Cercherò allora di abbozzare un percorso interpretativo, secondo il mio punto di vista, ovviamente, che è, al tempo stesso, una critica ad alcune tesi di Valeria Poletti.

Quali criteri interpretativi?

Il punto di riferimento di Poletti è il nazionalismo panarabo, di cui i momenti più salienti furono Gamal Abdel Nasser e la rivoluzione egiziana del 1952. A questo proposito, afferma:

«La visione del nazionalismo arabo era [...] strettamente connessa, oltre che all’aspirazione di un riscatto sociale che investisse le classi subalterne, ad un pensiero laico, ad una inclinazione alla modernità intesa come progresso materiale e culturale, come reale forma di indipendenza economica e politica dal dominio imperialista. [...] la comune ideologia panaraba aveva [...] permesso ad alcuni Paesi dell’area di costituire un fronte comune contro il costante attacco delle potenze imperialiste [...] rompere questo fronte è stato un imperativo per l’Occidente [...]» [p. 7][2].

Affermazioni che mi trovano sostanzialmente d’ac-cordo. C’è però un però: Poletti non spiega o non fa capire (o io non capisco) perché nasce il movimento panarabo e perché il cosiddetto imperialismo[3] lo contrasta. Per rispondere a questi perché, secondo il mio punto di vista, indico alcuni criteri interpretativi che sono, per forza di cose, assolutamente schematici. Possono essere approfonditi in scritti miei e di altri, cui rimando[4].

Il moderno movimento nazionale panarabo, sorto con la rivoluzione egiziana del 1952, fu un frutto della Golden Age (i trent’anni di eccezionale sviluppo dell’ac-cumulazione capitalista, seguiti alla Seconda guerra mondiale, 1945-1975). La sua culla fu l’Egitto, paese in cui il modo di produzione capitalista era (ed è) prevalente, ma non certo dominante[5]. Via via il nazionalismo panarabo si estese ad altri Paesi che, tendenzialmente, stavano maturando le medesime caratteristiche socio-economiche dell’Egitto, come la triade Libano-Siria-Palestina e l’Iraq. Un punto d’approdo fu la costituzione dell’effimera Repubblica Araba Unita (Egitto-Siria, 1958-1961). Sull’onda della decolonizzazione, fu coinvolta la Tunisia e, soprattutto, l’Algeria. Un frutto tardivo (acerbo e marcio al tempo stesso) fu la Libia nel 1969, quando, come vedremo, era già iniziata la parabola discendente del movimento panarabo.

In Medio Oriente, nel corso della Golden Age il gioco si fece sempre più duro e cambiarono le carte in tavola. Nel 1956 (crisi di Suez), gli Usa mandarono in pensione le vecchie potenze colonialiste (Inghilterra e Francia), senza per questo perdere le vecchie abitudini: nel 1953 non avevano esitato a «destituire» (grazie alla Cia) il legittimo governo iraniano di Mossadeq. Ben presto, gli Usa, in simbiosi con il cartello petrolifero delle Sette Sorelle, dovettero fare i conti con l’emergente Eni di Enrico Mattei (tra l’altro sponsor del Fnl algerino).

In questo scenario estremamente dinamico, a fianco dei movimenti nazionalisti trovarono spazio tendenze marxiste-leniniste che cercarono di coniugare le ispirazioni sociali delle masse operaie, e soprattutto contadine, con il nazionalismo arabo. Nonostante qualche successo, la loro vita politica fu assai travagliata, poiché dovettero sottostare ai chiari di luna dei loro sponsor, soprattutto sovietici e, in piccola parte, anche cinesi.

Gli apprendisti stregoni crescono

Fatte queste premesse, sulla scena del Medio Oriente si scontravano (e si incontravano):

a. le borghesie autoctone emergenti;

b. le vecchie potenze colonial/imperialiste;

c. la nascente super potenza Usa;

d. gli imperialismi risorgenti, come l’Italia;

e. l’ingerenza politico-militare (non economica) dell’Unione Sovietica;

f. i movimenti sociali a base operaia e contadina.

g. sullo sfondo, la crescente importanza del petrolio.

Come dicevo, per dare un senso a queste dinamiche spesso contraddittorie, occorre collocarle nella Golden Age, il cui esaurimento, alla fine degli anni Settanta del Novecento si ripercuote nell’involuzione del nazionalismo panarabo. La Guerra dei Sei Giorni (giugno 1967) aprì la sua parabola discendente; in poche parole, vennero meno le possibilità di mediazione tra le differenti formazioni socio-economiche dei diversi Stati arabi, ciascuno di loro dovette dare la precedenza alle proprie particolari esigenze. Subentrarono le divisioni (mai sopite) che videro alcuni Stati passare apertamente alla reazione a fianco di Israele contro i palestinesi, come la Giordania con Settembre Nero (1970). Altri, come l’Egitto, scivolarono su posizioni moderate, finendo per legarsi strettamente agli Usa (accordi di Camp David, 1978).

Negli anni Settanta, i contrasti in Medio Oriente avrebbero dato spazio a una situazione di crescente instabilità di cui, il primo frutto fu lo «shock petrolifero», provocato dalla guerra del Kippur (1973).

Lo «shock petrolifero» contribuì a diffondere un clima assai sensibile alle spinte speculative (petrodollari) che, di lì a poco, avrebbero connotato l’incipiente crisi del modo di produzione capitalistico.

La parabola discendente del nazionalismo panarabo si connetteva non solo con l’esaurimento della spinta propulsiva della Golden Age ma anche con il consustanziale declino dell’egemonia Usa (inconvertibilità del dollaro, 15 agosto 1971), senza che emergesse un plausibile polo alternativo. L’Urss che, nell’immaginario collettivo era considerata (a torto) l’antagonista degli Usa, iniziò a mostrare tutte le sue tare che sarebbero esplose con l’Afghanistan (1979) e, di conserva, sotto la pressione del fantasioso progetto reganiano delle «guerre stellari»; di pari passo, entrava in crisi il modello di sviluppo autocentrato (capitalismo di Stato) di stampo sovietico, cui si erano ispirati alcuni Paesi arabi, l’Algeria in primis.

Fu in questi frangenti che sorse il cosiddetto «Islam politico» il cui exploit si ebbe con Khomeini nel 1979 (stesso anno in cui l’Urss invase l’Afghanistan) in Iran, altro grande Paese non arabo ma islamico (e petrolifero) in cui il modo di produzione capitalistico è prevalente ma non dominante. Circostanze che, a mio avviso, spinsero l’Iran in una sorta di limbo politico (né con Mosca né con Washington), determinando un nuovo fattore di instabilità. Nel tentativo di ristabilire il precedente assetto dell’area, gli Usa gli scatenarono contro l’Iraq sunnita di Saddam Husayn (1980). Fu una guerra lunga e devastante; dopo otto anni, si impantanò, accendendo nuovi attriti che avrebbero provocato la Prima (inspiegabile?) guerra del Golfo (1990/1991), il cui esito fu, a sua volta, fonte di crescenti turbolenze che avrebbero aperto l’era della «guerra permanente»: Somalia (1992), Afghanistan (2001) e Seconda guerra del Golfo (2003). A latere, i focolai dell’eterna questione palestinese.

Nel 2008, la crisi economica globale ha esteso e acuito le tensioni, con conseguenze dirompenti, e non solo nei Paesi islamici …

Le primavere arabe sono state il segnale del malcontento (crisi) dilagante in Paesi in fase di moderata evoluzione economica (capitalismo) e politica (democrazia).

A questo punto, traendo delle prime conclusioni, ritengo che l’attuale sfacelo economico e sociale sia il frutto di un incalzante processo oggettivo, artefice (e prigioniero) di rimedi peggiori del male.

Invece, nell’esposizione di Poletti, a mio avviso, sembra quasi che la «destabilizzazione» sia frutto di un «piano» che, sicuramente, ha ispirato alcuni interventi yankee nonché iraniani, turchi e sauditi. Ma, a che pro?

La destabilizzazione di un’area, oltre a minarne l’autonomia politica, magari moltiplicando le frontiere, (secondo il vecchio divide et impera), ne mina anche l’autonomia economica e la sconvolge. In altri tempi (remoti), ciò avrebbe favorito l’«innesto»[6] del modo di produzione capitalistico, con esiti più o meno felici (per es. l’India sotto la dominazione britannica). Oggi, come stiamo vedendo, la destabilizzazione non promette nulla di buono se non una vita economica dissestata, basata sulla rapina e sul ricatto (Stato islamico), sul «mestiere delle armi», legittimato dalla riesumazione, assolutamente mostruosa, di vecchie ideologie religiose.

Nessun complotto, solo improvvisazione!

Il dissesto economico genera altro dissesto, e non può essere circoscritto. Come un incendio attizzato dal vento, si espande nelle zone vicine, disgregando ogni forma di vita sociale che incontra. Le fonti di sostentamento si inaridiscono e l’esodo diventa ineluttabile: in meno di tre anni, i profughi siriani hanno raggiunto la cifra record di quattro milioni. La condizione che per settant’anni ha segnato la vita dei palestinesi, si sta rapidamente generalizzando a decine e decine di milioni di persone. Favorendo Ebola... Un orrore senza fine.

Poletti, pur paventando questa catastrofica prospettiva, svela alcune aporie della sua visione. Secondo me, sono il frutto di un’errata concezione dell’attuale crisi economica. Forse, voleva trovare un filo conduttore alla sua esposizione e ha ripescato (suo malgrado) alcuni fru-sti (e sinistri) luoghi comuni sulla crisi (deindustrializzazione, delocalizzazione, finanziarizzazione …), condensandoli, surrettiziamente, in un capitoletto (nemmeno una pagina) dal titolo: La crisi accelera la democratizzazione [p. 92]. Un vero sgorbio, che deturpa un grande affresco, peraltro assai stimolante e che non avrebbe certo richiesto tali sbavature superflue. Anzi, la postilla contribuisce a dar adito all’ipotesi che la destabilizzazione nasca da un progetto (se non complotto!). Quando, proprio il modo di produzione capitalistico si distingue da precedenti e da altri modi di produzione per la sua completa assenza di progettualità. I vari think-thank, di cui spesso si sparla, sono la foglia di fico che nasconde una logica meschina, del tutto conforme a quella del bottegaio sotto casa nostra. E se così non fosse, sarebbe assai difficile (se non impossibile) immaginare un mondo diverso. E lottare per «farlo».

Oggi, il modo di produzione capitalistico non ha più alcuna possibilità di espandersi, se non in aree molto limitate (come il fantastico Dubai) che però non sono immuni da tensioni. Come non lo sono la Ue, gli Usa, il Giappone … che ormai sono isole lambite dalla marea montante dei profughi in fuga: uno sterminato esercito industriale di riserva, pronto, oggi, a vendersi a prezzi stracciati, ma suscettibile, domani, di scatenare la rivolta della sconfinata massa degli oppressi e degli sfruttati. Che non avranno nulla da perdere…

Milano, 8 settembre 2014.


[1] In precedenza, Valeria Poletti aveva pubblicato: L’impero si è fermato a Bagdad, Achab Editrice, Verona, 2006.
[2] Tra parentesi, il numero della pagina del libro di Poletti da cui è tratta la citazione o il riferimento.
[3] Uso il termine imperialismo solo in senso figurato, con il significato di politica espansiva del modo di produzione capitalista, attuata da Stati capitalisti degni di questo nome.
[4] Punto di riferimento, anche per le indicazioni bibliografiche contenute: Quale rivoluzione comunista oggi. Problemi scottanti del nostro movimento, All’Insegna del Gatto Rosso, Milano, 2014.
[5] Sul concetto di «capitalismo prevalente ma non dominante», rimando a: Dino Erba, Quale rivoluzione comunista oggi, op. cit., p. 13.
[6] Sul concetto di «innesto» del capitalismo in nuove aree, vedi: Dino Erba, Quale rivoluzione comunista oggi, op. cit., p. 10.

Dino Erba

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