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Manovre di guerra in Europa: Ucraina e guerra imperialista.

(19 Settembre 2014)

Gli avvenimenti delle ultime settimane nelle regioni del Sud-Est dell’Ucraina, che hanno visto lo scontro tra l’esercito ucraino, appoggiato da milizie volontarie, e ribelli filo-moscoviti, appoggiati da reparti dell’esercito russo, confermano che questo conflitto, come abbiamo scritto nei mesi scorsi, non è interno allo Stato ucraino ma tra schieramenti di Stati imperialisti.

Ricordiamo gli ultimi avvenimenti.

Alla fine di giugno, dopo l’annessione della Crimea da parte di Mosca e lo scoppio della rivolta nelle regioni orientali del Paese, l’Ucraina sigla la parte economica dell’accordo di associazione con l’Unione Europea, mentre Mosca e Washington cercano apparentemente di porre termine alle azioni militari nel Donbass. Ma ai primi di luglio l’esercito di Kiev inizia un’offensiva che porta il 5 luglio alla conquista della città di Slovyansk. Il 17 luglio è abbattuto in volo un aereo civile della Malaysian Airlines con 295 passeggeri: le due parti si accusano a vicenda dell’abbattimento. Alla fine di luglio il primo ministro ucraino Arseni Iatseniuk annuncia le sue dimissioni, denunciando il venir meno della maggioranza di governo perché la Rada, il parlamento ucraino, non è riuscita ad approvare una serie di misure richieste dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale per sbloccare un nuovo prestito.

Secondo i partiti della destra nazionalista, dalla fine del regime di Viktor Yanukovich, a febbraio, il popolo ucraino è stato chiamato a scegliere un nuovo presidente ma non una nuova Assemblea. «Crediamo che nell’attuale situazione, non dovrebbe esistere un simile Parlamento che protegge criminali di Stato, agenti di Mosca, che rifiuta di togliere l’immunità a quelli che lavorano per il Cremlino», afferma il leader del partito nazionalista Svoboda.

Il presidente Poroscenko dopo un mese dalla caduta del governo, il 25 agosto deve sciogliere la Rada e indire nuove elezioni per il 26 ottobre. Ma, a dimostrazione delle titubanze che attraversano anche la borghesia ucraina, sempre indecisa nella scelta del padrone a cui vendersi, lo stesso Poroscenko il 26 agosto partecipa al vertice di Minsk dove incontra Putin, i presidenti della Bielorussia e del Kazakistan, che fanno parte dell’Unione Doganale euroasiatica, e rappresentanti dell’Unione Europea. La riunione sembra non abbia dato risultati positivi.

Intanto sul campo di battaglia le truppe ribelli, con l’appoggio di reparti dell’esercito russo, nella seconda metà del mese di agosto hanno conquistato sempre più terreno, respingendo e accerchiando in più occasioni le truppe di Kiev.

Il 29 agosto il primo ministro ucraino Yatsenyuk, benché dimissionato, afferma che presenterà una legge per l’ingresso dell’Ucraina nella NATO. Il 2 settembre l’Unione Europea annuncia nuove sanzioni contro la Russia, il 3 settembre la Francia che rimanderà la consegna alla marina russa della prima delle tre unità da sbarco della classe Mistral, prevista per ottobre. Lo stesso giorno i presidenti Putin e Poroscenko cercano frettolosamente un accordo per arrivare ad un cessate il fuoco che viene raggiunto poche ore dopo. Questa fragile tregua serve a dare tempo per scongiurare un allargamento del conflitto che vedrebbe contrapposte alcune tra le massime potenze militari mondiali e fa da sfondo al vertice straordinario indetto dalla Nato per il 4 e 5 settembre, proprio per esaminare la questione ucraina.

Una guerra nel cuore dell’Europa pare oggi ancora prematura, ma la crisi economica lascia spazi sempre più ristretti alle manovre e agli accordi diplomatici e spinge gli Stati a difendere i loro interessi con le armi in un continuo allenamento ad un futuro scontro armato di portata mondiale, preparato anche a livello mediatico oltre che militare, assuefacendo la cosiddetta “opinione pubblica” alla possibilità che questo avvenga.

La propaganda borghese non nasconde ormai la possibilità, certezza per noi, di una futura guerra tra Stati imperialisti e i toni delle dichiarazioni di questi giorni ne sono la prova. Putin e Obama si lanciano pubbliche reciproche accuse e minacce in preparazione di un impegno militare che ricadrà sulle spalle del proletariato sull’uno e sull’altro fronte.

Secondo “Il Sole 24 ore” del 2 settembre, quattromila soldati di nove Paesi, con il supporto di blindati e aerei, stanno partecipando ad esercitazioni militari della Nato sul fronte orientale che si concluderanno ai primi di ottobre. C’è anche l’Italia che partecipa con un centinaio di parà della Folgore. L’Alleanza atlantica precisa che le manovre avrebbero dovuto essere inizialmente a guida degli Stati Uniti, ma si è poi deciso di passarle sotto l’egida della Nato nell’ambito dello sforzo in corso per rassicurare i Paesi dell’Est dinanzi alle mosse aggressive della Russia. Altre iniziative militari sono in corso: nel Mar Nero si tengono esercitazioni tra le Marine degli Stati Uniti e dell’Ucraina; «Le esercitazioni, alle quali partecipano anche Spagna, Canada, Romania e Turchia, sono focalizzate sulle tecniche della gestione di un’operazione internazionale per mantenere la sicurezza della navigazione di una regione colpita da una crisi». Altra esercitazione “su vasta scala”, che impegna oltre 5.000 uomini di Stati Uniti e alcuni alleati europei, è in corso nel Sud della Germania; l’esercitazione simula in particolare la liberazione di una città. «Queste esercitazioni hanno l’obiettivo di dimostrare come la Nato sia in grado di scoraggiare e impedire qualsiasi aggressione da parte della Russia se uno qualunque dei nostri alleati fosse attaccato», dice il generale Usa Frederick Hodges per rendere ancor più indigesto il messaggio al Cremlino (“Il Messaggero”, 9 settembre).

Il vertice della Nato, tenutosi a Cardiff e Newport il 4 e 5 settembre proprio per prendere misure concrete sulla questione della guerra in Ucraina, ha visto il netto prevalere delle posizioni guerrafondaie difese dagli Stati uniti e dalla Gran Bretagna. La dichiarazione finale impegna apertamente i 28 membri dell’Alleanza Atlantica ad «invertire la tendenza al declino dei bilanci della difesa», un richiamo rivolto apertamente ai Paesi dell’Europa centro-meridionale che negli ultimi anni, sotto i colpi della crisi economica, avevano ridotto la spesa militare. Il documento impegna tutti i Paesi a portare entro 10 anni la spesa militare almeno al 2% del PIL, una dimensione enorme per dei paesi industrializzati.

Inoltre è stato creato uno speciale fondo di sostegno per il governo di Kiev, «candidato ad entrare nella Nato insieme a Georgia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Macedonia, allargando ulteriormente l’Alleanza atlantica ad est» (Manlio Dinucci, “Il Manifesto”, 6 settembre).

Le intenzioni statunitensi erano già state dichiarate dal Presidente Obama nel discorso che aveva tenuto a Tallin, in Estonia, il giorno precedente: «La visione di libertà è minacciata dall’aggressione russa contro l’Ucraina. Il suo assalto all’integrità territoriale dell’Ucraina, una nazione europea sovrana e indipendente, sfida i principi basilari del nostro sistema internazionale. I confini non possono essere ridisegnati sotto la minaccia di una pistola». Obama ha ribadito il principio che «le porte della Nato resteranno aperte a tutti», in aperta antitesi con quanto sostenuto da Mosca che ha più volte dichiarato di non poter tollerare che la Nato spinga i suoi missili fino ai confini della Russia. Infine ha anticipato le decisioni finali del vertice di Cardiff e Newport dichiarando che sarebbe stata formata una forza militare di intervento immediato da schierare nei Paesi baltici. Al vertice verrà poi precisato che questa forza di alcune migliaia di uomini disporrà di cinque basi-deposito nei Paesi baltici, in Polonia e in Romania, sarà molto “reattiva” e con una presenza continua nei Paesi dell’Est europeo.

I vertici della NATO minacciano inoltre di costituire basi militari in Norvegia (che fa parte della Nato) e addirittura in Finlandia (che non ne fa parte), ipotesi che non fa che rafforzare il Cremlino nelle sue sparate nazionaliste, non ultima la dichiarazione di Putin che se volesse, potrebbe occupare Kiev in due settimane.

La Russia è però consapevole che non può permettersi di rompere i suoi rapporti economici con l’Europa né andare ad uno scontro militare aperto con la NATO, mostra i denti ma per arrivare ad un compromesso, contando sull’appoggio dell’Europa e della Germania in primo luogo, e anche sulla indiretta protezione della Cina, non certo favorevole alla espansione della Nato in Europa orientale.

La collaborazione commerciale e militare tra Russia e Cina si è intensificata negli ultimi anni; già all’inizio di luglio dello scorso anno i due Paesi avevano pianificato «una sei giorni di manovre nel Golfo di Pietro il grande a Vladivostok, denominata Mare Unito 2013, che è stata la più grande esercitazione navale mai pianificata tra i due Paesi. Da quanto è emerso, alle operazioni hanno preso parte 12 navi della Russia e 7 della Cina, più un numero imprecisato di aerei da combattimento. Nonostante non fosse certo la prima volta che i due Paesi svolgevano manovre militari congiunte, i media di Pechino hanno sottolineato l’importanza delle operazioni, concluse mercoledì 10 luglio: è stata la prima volta, infatti, che la Cina ha scelto di inviare una così ampia forza militare all’estero “per partecipare a esercitazioni in un’area marittima sconosciuta”, ha scritto il China Daily» (Gabriele Battaglia, “Lettera 43”).

A rafforzare la collaborazione tra Cina e Russia è arrivato nel maggio scorso, dopo dieci anni di trattative, l’annunciato accordo tra Mosca e Pechino sulla futura fornitura di gas. Su “Il Sole 24 ore” del 21 maggio leggiamo: «L’accordo – annunciato dall’agenzia Nuova Cina – è stato chiuso durante la visita in Cina del presidente russo Vladimir Putin dopo una lunga fase di stallo sul prezzo del gas naturale. Il contratto prevede una fornitura trentennale di metano, pari a 38 miliardi di metri cubi all’anno (la metà dei consumi italiani), garantito da un gasdotto lungo 2.200 chilometri dalla Siberia alla Cina orientale ancora da costruire. L’accordo vale 400 miliardi di dollari in trent’anni. Partirà dal 2018 (...) La firma dell’intesa, avvenuta alla presenza di Putin e Xi Jinping, rappresenta un’importante sviluppo per Mosca che dall’inizio della crisi ucraina sta cercando sbocchi alternativi per vendere il suo gas. Fino al 2013 l’Europa è stato il primo cliente di Mosca con 160 miliardi di metri cubi acquistati, ma la Cina da sola già da quest’anno sarà un mercato più grande. Pechino prevede di aumentare del 20% le importazioni di gas, per ridurre il peso dell’inquinante carbone per produrre energia elettrica, e arrivare a 186 miliardi di metri cubi». Anche se, come evidenziato nell’articolo, la trattativa andava avanti da un decennio il fatto che sia stato firmato in piena crisi in Ucraina è stata una buona mossa da parte di Mosca.

Così commenta questo accordo Fulvio Scaglione, vicedirettore di “Famiglia cristiana”, su “Limes” di agosto: «Tornando a Russia e Cina una cosa è certa. L’accordo sul gas mette per la prima volta a diretto contatto il maggior detentore, estrattore ed esportatore di risorse energetiche con il maggior consumatore delle stesse. A questo dato potremmo aggiungerne altri: la Cina, il paese più popoloso del mondo si aggancia alla Russia, il paese più vasto del mondo e dotato del 10% delle terre fertili del pianeta. La Russia, lo stato con il sottosuolo più ricco (...) stringe un’alleanza strategica con la Cina, cioè con l’economia che traina i consumi mondiali di materie prime».

Al di là dell’aspetto economico e dell’avvicinamento tra i due Stati che questo contratto comporta, è evidente che il Cremlino potrà usarlo anche come monito verso i clienti europei, che dipendono dal gas russo, a non tirar troppo la corda perché a breve Mosca avrà un’alternativa per il suo smercio. E proprio nella prospettiva della ricerca di un accordo con l’Ucraina, ma soprattutto con l’Europa, va interpretata la mossa di Mosca che nel giugno scorso ha interrotto le forniture di gas all’Ucraina. «Il 16 giugno 2014, continua Scaglione, Putin ha dato ordine di interrompere le forniture di gas, cioè di non immettere più nelle condotte i 40 miliardi di metri cubi annui che costituiscono la quota ucraina del gas spedito verso ovest. Strana guerra dell’energia quella che comincia nei primi giorni d’estate (...) La decisione del Cremlino pare implicare un invito a trattare, ad approfittare dei mesi caldi per tornare al tavolo e discutere la faccenda».

Anche le paventate sanzioni di Europa e Stati Uniti contro la Russia non sono spiegabili se non in vista di un imminente scontro tra potenze. Con la Russia, oltre il gas, ci sono importanti commerci; i primi due paesi europei in ordine di scambio con Mosca sono la Germania e l’Italia. A parte la vile borghesia italiana, che non ha né forza né carattere per opporsi a Stati più potenti, quale vantaggio ne trarrebbe Berlino, la più importante economia europea? Quale la contropartita, cosa può offrire Washington per imporgli di rompere con Mosca? O cosa può minacciare?

L’economia tedesca arranca e dovrebbe aumentare, non restringere i propri mercati; al di sopra delle dichiarazioni ufficiali della Merkel, ci sono i conti da far quadrare nelle imprese tedesche. Le stesse valutazioni non valgono per gli Stati uniti, che hanno scarsi rapporti commerciali con la Russia e che sono anzi intenzionati a farle concorrenza nelle forniture di gas con quello che riescono ad estrarre dalle rocce scistose.

Queste trattative tra gli Stati, questi affari per vendere gigantesche quantità di merci, questi scontri per acquisire nuovi mercati, importanti posizioni strategiche e militari, cosa portano al proletariato? Nell’orgia mediatica dell’informazione borghese fatta di titoloni sensazionalistici e poco altro, leggiamo che la battaglia nel Sud-Est ucraino da aprile ad oggi ha causato quasi 3.000 morti, un numero imprecisato ma certo altissimo di feriti e quasi un milione di profughi, costretti ad abbandonare casa e lavoro per fuggire la guerra. Queste vittime appartengono in maggioranza alla classe proletaria che, inconsapevole della sua forza e del suo compito storico, sarà costretta, ad ogni latitudine, a imbracciare un fucile per interessi che sono la negazione dei propri.

La borghesia ucraina, gli “oligarchi”, hanno potuto arricchirsi a dismisura negli anni scorsi vendendosi al miglior offerente, lucrando e rubando a man bassa, naturalmente in nome dell’Ucraina “libera e indipendente”. Come ogni borghesia perseguono solo il profitto per accrescere i propri capitale.

Il proletariato ucraino, invece, non ha nulla da guadagnare dallo schierarsi dall’una o dall’altra parte in questo scontro interimperialistico. Non è vero che i proletari del Donbass vedrebbero migliorare le loro condizioni di vita e di lavoro se la regione fosse indipendente o annessa alla Russia. E neppure, come promettono loro i partiti della destra filo-occidentale, se l’Ucraina si spostasse nell’area dell’Unione Europea e della Nato. Il proletariato ucraino troverà il suo riscatto solo in se stesso, organizzandosi autonomamente, fuori da ogni richiamo nazionalista e sciovinista, ricollegandosi alle tradizioni internazionaliste del comunismo rivoluzionario.

La guerra è uno dei fatti determinanti le tappe del ciclo capitalista nella sua ascesa e nel suo declino. Nel terzo millennio le guerre fra Stati, tutti borghesi, sono parte della strategia di conservazione e di controrivoluzione. Al proletariato compete di marciare in direzione opposta ai fronti di guerra, non contro il nemico nazionale, ma volgendo uomini ed armi contro il nemico interno, contro il suo Stato, contro il potere di classe della borghesia. Questo è l’unico indirizzo che il vero partito comunista indica alla internazionale classe proletaria, e quindi anche ai proletari ucraini.

Partito Comunista Internazionale

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