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Le pretese novita’ irachene

(18 Febbraio 2005)

Non occorreva un particolare acume politico per capire che la Casa Bianca, contando come sempre sul “celere obbedir” di Tony Blair e dei governi che avevano appoggiato l’avventura bellica in Iraq, aveva preparato da tempo il falso successo delle elezioni svoltesi il 30 gennaio in quel martoriato Paese. E lo aveva fatto sia assicurandosi la partecipazione al voto di un apprezzabile numero di sciiti e di curdi e sia predisponendo prima e lanciando poi l’esaltazione mediatica dell’affluenza alle urne e del valore “democratico” della consultazione.

Fra gli artificiosi entusiasmi si è però fatta strada subito la dura realtà. Come è noto, gli islamici di osservanza sciita sono in Iraq una forte maggioranza che, dopo essere stata tenuta in una situazione di minorità politica dal regime di Saddam Hussein, aveva tutto l’interesse a far valere col voto la sua superiorità numerica sui sunniti. Era perciò naturale che i capi religiosi sciiti, a partire dal grande ayatollah Alì al Sistani, invitassero i loro adepti a recarsi alle urne e che una consistente parte di essi lo facesse vincendo la paura per le minacce di attentati e la riluttanza a partecipare ad una operazione voluta e sostenuta dalle forze occupanti. Il fatto è che il voto degli sciiti è stato un atto di obbedienza religiosa e di identità confessionale in funzione di un auspicato riscatto e non invece, come la propaganda di Bush e dei suoi alleati ha cercato di far credere, l’espressione del libero esercizio di un diritto per la costruzione di una democrazia di tipo occidentale. E non lo è stato neppure il voto dei curdi per la sua chiara connotazione etnica e per le pulsioni indipendentiste che caratterizzano quella popolazione e che sono foriere di tensioni interne con le altre etnie ed esterne con la vicina Turchia.

Con buona pace di chi ha tentato di interpretare secondo le intenzioni di Bush il voto degli sciiti definendolo «la vera resistenza» in polemica con quanti si erano opposti all’intervento armato, va detto che, per un significativo caso di eterogenesi dei fini, si è trattato davvero di «resistenza» ma indubbiamente contro l’occupazione straniera che ha seminato morte e rovine ed ha scatenato il più cruento terrorismo. E’ stato quindi un atto di resistenza non violenta come lo è stata anche l’astensione dal voto da parte dell’islamismo sunnita interessato peraltro, sul versante interno, a non accreditare come valida una consultazione elettorale gestita dagli americani e priva delle necessarie garanzie, all’esito della quale sarebbe risultato nettamente in minoranza. Una consultazione svoltasi in un Paese in stato di assedio e insanguinato da attentati, un voto non preceduto da un vero confronto tra diverse posizioni politiche né dettato da motivazioni di natura politica ma mosso solo da ragioni confessionali ed etniche, non disgiunte però da una generale opzione resistenziale che ha accomunato il voto sciita al non voto sunnita. Ci hanno fatto vedere le immagini del “grande” afflusso degli iracheni alle urne ma il volto segnato dalla sofferenza di quegli uomini «umiliati ed offesi» e la dignitosa mestizia di quelle donne vestite e velate di nero in fila presso i seggi elettorali hanno detto al mondo il contrario di quello che si è voluto loro far dire. Hanno detto che la guerra è stata ed è una insensata e tragica invasione, che l’occupazione militare deve cessare e che l’autodeterminazione dei popoli vale anche per quello iracheno.

Come è possibile far passare per una svolta storica lo svolgimento di queste elezioni irachene? Una consultazione alla quale, secondo fonti ufficiali non democraticamente controllabili, avrebbe partecipato il 58% degli aventi diritto al voto su un totale probabilmente artificioso e che avrebbe fatto registrare il 48% di suffragi in favore degli sciiti, il 25% in favore dei curdi, un insignificante 1,8% in favore dei sunniti astenutisi in massa ed infine uno squalificante 13,8% in favore della formazione di Allawi, capo del governo provvisorio ed uomo di fiducia di Washington. Di fronte a questo scenario Bush ed il segretario di stato Condoleezza Rice non arretrano ma chiedono il pieno coinvolgimento dell’Europa nella guerra annunciando che l’occupazione militare dovrà continuare fino a quando il “lavoro” e cioè la loro normalizzazione dell’Iraq non sarà portata a termine. Non si comprende allora per quali ragioni il segretario dell’Onu Kofi Annan si sia indotto a dire che sarebbe un problema il passaggio delle operazioni militari in Iraq ai caschi blu riservando alle Nazioni Unite solo un aiuto «politico e tecnico». E lo abbia fatto senza rendersi conto che questa sua posizione, se dovesse essere fatta propria dal Consiglio di Sicurezza, infliggerebbe un colpo mortale al prestigio dell’Onu.

La guerra in Iraq continua e le elezioni del 30 gennaio ai problemi esistenti ne hanno aggiunto di nuovi per la formalizzazione delle pretese confessionali degli sciiti, per la possibile emarginazione dei sunniti e per le aspirazioni etniche dei curdi. Per rendersene conto basta ricordare quanto qualche giorno addietro ha dichiarato Sayed Nasser al Yassari, iman portavoce del grande ayatollah al Sistani, commentando la pretesa sciita, pienamente condivisa dai sunniti, di costituire uno stato islamico retto da una costituzione dettata dal Corano, una scelta che ovviamente si colloca fuori da qualsiasi modello di democrazia occidentale. «Ci hanno riempito la testa per giustificare la loro presenza sul nostro suolo – ha detto il portavoce di Sistani – che volevano soltanto metterci nelle condizioni di voler decidere il nostro futuro. Lo abbiamo fatto … all’America e all’Occidente non rimane altro che rispettare questa nostra scelta». Ne prenda buona nota Bush, il nostro governo e anche qualche sor tentenna di centrosinistra.

Brindisi, 15 febbraio 2005

Michele DI SCHIENA

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