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(25 Settembre 2014)
Parlare delle condizioni in cui versa il vecchio continente oggi è possibile solo facendo la dovuta premessa: siamo in una fase ampiamente post-democratica, in cui le élite economiche hanno ormai preso largamente il sopravvento su di una cittadinanza frastornata che si dibatte tra l'apatia politica e i rigurgiti populisti, che alterna il consenso sottomesso alla logica delle élite all'insoddisfazione permanente verso la classe politica. Sono tutte sfaccettature di un fenomeno complesso che occorre studiare, per cambiare, e che quando non crea strane forme di Sindrome di Stoccolma amplia comunque a dismisura la sterilità del dissenso politico.
Negli scorsi mesi si è venuti a conoscenza del contenuto del Transatlantic Trade and Investment Partnership, un accordo di partenariato che si pone un obiettivo stratosferico: incrementare il commercio Usa-Ue di 120 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni e contemporaneamente creare due milioni di posti di lavoro. Le conseguenze di questo accordo sono molteplici e nonostante la censura pressoché totale sui media mainstream e la discussione solo a livello lobbistico in sede europea, si è riusciti a mettere in piedi un minimo di informazione e a creare un minimo di consapevolezza, fino a giungere ad una serie di manifestazioni (l'11 e il 12 ottobre saranno le giornate internazionali di mobilitazione contro il TTIP). E' necessario innanzitutto focalizzare l'attenzione su un elemento, ossia l'eliminazione delle “barriere non tariffarie” che ostacolano il libero investimento che il TTIP contiene. Occorre quindi non tralasciare tutta una serie di fattori economici che interverrebbero a cascata dal momento dell'approvazione del TTIP (prevista inizialmente per la fine del 2014, ma per ora rimandata al 2015) che vanno dall'abrogazione degli standard di sicurezza, alla privatizzazione di settori finora riparati da ciò che resta del modello welfaristico nell'istruzione, nella sanità, nella cultura. Si potrebbe semplificare pensando di prendere semplicemente il peggio del sistema capitalistico statunitense e il peggio di quello europeo per farne un unico grande calderone, per cui, ad esempio, le seppur blande normative finanziarie seguite alla crisi del 2008 negli Stati Uniti verrebbero abrogate per non inficiare sulla libertà d'investimento e allo stesso modo le più rigide normative europee su lavoro e ambiente finirebbero per essere abrogate in base al medesimo principio. Al tutto si aggiunge l'impatto devastante su piccole e medie imprese e mondo agricolo europeo, che viene addirittura esplicitamente citato come “motivo di preoccupazione” dagli stessi promotori dell'accordo (estratti desecretati: http://eu-secretdeals.info/upload/EU-Investment-Text-TTIP-v_July2nd-2013_v1.pdf ; http://eu-secretdeals.info/upload/TTIP-mandate_M-Schaake_website.pdf).
Cercare di capire la funzione del TTIP per i grandi capitali non può passare in secondo piano rispetto al precipitare degli eventi in Occidente, ed è per questo che nell'analisi dell'ulteriore ondata di liberalizzazioni occorre non perdere di vista l'apertura del conflitto ai confini dell'Europa quale faglia di una tensione di più ampia portata tra Brics e cosiddette “economie avanzate”. Questo parrebbe centrare solo marginalmente nella vicenda della liberalizzazione dei mercati euro-americani, invece se si guarda alla nuova funzione accumulativa del capitale i processi in atto appaiono decisamente più interrelati. Il significato più evidente di questo legame arriva dalla constatazione che gli Stati Uniti non sono più la prima economia mondiale (http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-04-30/la-cina-sara-prima-economia-mondiale-entro-quest-anno-083359.shtml?uuid=ABQMxlEB), dunque devono inevitabilmente cercare accordi in varie zone del pianeta per tentare di espandere il proprio mercato e ridare fiato alla propria economia in affanno. Il TTIP è uno di questi accordi multilaterali (ne sono intavolati altri come il Trans-Pacific Partnership, il Trade in service agreement riguardante il settore dei servizi non incorporabile nel TTIP e alcuni accordi di partenariato con l'Africa occidentale) nati in seguito al progressivo affievolirsi della prospettiva di espansione del mercato globale in cui si inseriva la logica del WTO. Ovviamente, riguardando due aree che comprendono il 40% del Pil mondiale e il 30% del volme degli scambi, rappresenta il più importante accordo attualmente intavolato per sbloccare l'economia occidentale.
L'Unione Europea, che dal canto suo ha sempre simpatizzato per il liberismo sfrenato, non ha esitato ad optare per l'inasprimento della medesima logica: più liberalizzazione dei mercati, più precarizzazione del lavoro, più privatizzazione dei servizi pubblici. In una fase in cui il welfare è diventato nient'altro che un bacino di mercificazione per mettere a valore settori prima svincolati dalle logiche capitalistiche, la ricerca di ulteriori margini di erosione del settore pubblico e di facile accumulazione del capitale rappresenta una prospettiva allettante per le multinazionali. Come hanno spiegato recentemente Marco Bersani e Stefano Risso di AttacTorino (video: http://www.youtube.com/watch?v=LizNknYKuCM): “l'eliminazione delle barriere non tariffarie non protegge la circolazione di beni e servizi bensì gli investimenti, tutelando il lucro di un mancato investimento”. Il processo di accumulazione, già descritto da Marx ne “Il Capitale” con l'analisi dei processi di urbanizzazione, è oggi aggiornato in modo esemplare e riadattato da D. Harvey col concetto di “accumulazione per espropriazione” (contributo riassuntivo sul termine: http://www.youtube.com/watch?v=T25WVkEvo8Y ), per cui la predazione avrebbe messo in ombra la produzione di plusvalore e dunque l'avvilupparsi della crisi sistemica intervenuta in seguito alla consunzione del modello fordista faticherebbe a coagularsi attorno ad un nuovo modello produttivo codificabile. L'intera concezione neoliberista dell'economia viene ridotta a costruzione artificiale consona a sostenere il potere capitalistico di alcune forze monopolistiche dove gli accordi di libero scambio e, viceversa, le misure protezionistiche derivano da scelte eminentemente politiche. Laddove anche la privatizzazione massiccia di risorse “comuni”, la finanziarizzazione dell'economia, l'incremento del trasferimento di ricchezze dai poveri ai ricchi in seguito alla crisi del debito degli anni ottanta e novanta del secolo scorso, non rappresentano che la risposta del capitale ai problemi di sovraccumulazione emersi nei primi anni settanta e mai sanati, dovuti essenzialmente alle grosse difficoltà emerse nella “riproduzione allargata”, cioè nella produzione di merci. La necessità odierna per il capitale monopolistico non può che restare quella di allargare i mercati per far fronte all'accumulazione sempre più difficoltosa. Il TTIP in quest'ottica ci viene propinato come un meccanismo in grado di ridurre i costi occulti – le “barriere non tariffarie” - per permettere di rilanciare la crescita e aumentare le economie di scala, quando in realtà mira a rafforzare il lucro e la rendita di grandi aggregati economici. Le proiezioni econometriche poi sono quanto di più fantasioso si possa immaginare (si parla di un aumento del Pil dello 0,48% per l'Ue e dello 0,39% per gli USA), ma la funzione capitalistica del TTIP resta sostanzialmente quella sopra riassunta. Quello che invece emerge chiaramente è il costo diretto, dovuto alla volontà di Washington di stringere ancor più nella morsa della dipendenza gli Stati dell’Unione Europea. Non è un caso che analisti come Carlo Pelanda abbiano teorizzato già alcuni anni fa "La grande alleanza. L'integrazione globale delle democrazie”(Franco Angeli, 2007), ossia un nuovo ordine mondiale basato sulla formazione di due macro-aree di libero scambio commerciale, Ttip (con l’Europa) e Tpp (con alcuni Paesi asiatici), imperniate sulla figura egemone degli Stati Uniti. Dal versante economico questo disegno consentirebbe alle “democrazie” di non farsi schiacciare dalla Cina, costituendo un mercato più grande del suo. Da quello geopolitico, permetterebbe agli Usa di continuare a guidare il mondo, accollando il peso crescente di tale operazioni ad altri.
Obama stesso durante il summit Ue-Usa dello scorso 26 marzo ha lasciato trapelare l'intento di fondo trattando il nodo della questione Ucraina: «Quando avremo l'accordo di libero commercio l'export del gas americano sarà più semplice», le pressioni fatte recentemente per l'incremento delle spese militari nei paesi Nato hanno poi evidenziato la necessità di un ulteriore contributo da parte degli alleati alla spinta del keynesismo militare che ha trovato nuovi elementi da cui trarre sostentamento.
Dallo scorso marzo però la situazione è sensibilmente peggiorata: le pressioni per un intervento militare diretto nelle varie zone calde del Medio Oriente sono cresciute notevolmente, mentre l'integrazione dell'Ucraina nell'Ue procede ciecamente nonostante sia un paese ormai spaccato e con il governo sotto osservazione delle principali organizzazioni di tutela dei diritti umani.
Questo peggioramento non poteva che innescare delle pesanti ricadute che, per fortuna e per ora, hanno assunto solamente la forma delle sanzioni economiche.
In generale, si stima che i Paesi dell'Unione registreranno effetti negativi legati alle controsanzioni russe nella misura in cui Mosca continuerà a rappresentare un mercato ancora notevolmente strategico per l'Europa sia dal punto di vista energetico, con la copertura del 32% del fabbisogno energetico, sia commerciale con oltre il 7% delle esportazioni europee. E se, come ha detto Obama, l'approvazione del TTIP è un punto essenziale per svincolare l'Europa dalla pericolosa influenza russa, è anche vero che l'Europa godrà dei “benefici”americani solo dopo l'approvazione di questo partenariato, dunque l'altro lato della morsa in cui è attualmente pressata l'Europa diventa la guerra, nelle sue varie forme. Sottovalutare gli effetti di una guerra economica su di un'economia che già galleggiava a fatica all'interno del mercato globalizzato sarebbe un grave rischio, che tuttavia le classi dirigenti europee sembrano disposte a correre pur di accontentare un manipolo di lobby.
Alex Marsaglia
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