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Finanziamo le "missioni di pace"

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(28 Luglio 2011) Enzo Apicella
Il Senato ha approvato con 269 voti a favore, 12 contrari e un astenuto il decreto che rifinanzia fino alla fine dell'anno le "missioni di pace" all'estero

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Isis, il cosiddetto Stato Islamico

È lo scontro fra gli imperialismi a generare le bande armate dello “Stato Islamico”

(1 Ottobre 2014)

isisiilcosiddetto

In Iraq si scontrano le comunità degli sciiti e dei sunniti, cioè i due più importanti clan borghesi: secondo la contabilità ufficiale solo nel 2012 si sono avuti 4.500 morti in 941 attentati.
L’economia del paese è interamente legata al petrolio, che rappresenta il 90% delle entrate e l’80% delle esportazioni.
Il sistema politico imposto dagli Stati Uniti nel 2003 ha reso il paese prigioniero delle sue divisioni etniche e religiose. Il governo è diretto dall’autoritario primo ministro sciita Nuri al-maliki, membro del partito islamico sciita Dawaa, che è fortemente influenzato dall’Iran. La presenza al governo di un vice presidente curdo permette a questa significativa minoranza etnica di mantenere l’autonomia nella regione del Kurdistan iracheno, ottenuta grazie all’occupante americano. Il regime è sempre sotto il controllo di Washington la cui diplomazia continua il suo abituale doppio gioco.
Gli Stati Uniti sono il primo fornitore militare dell’Iraq: il tentativo del governo, nel 2012, di rivolgersi alla Russia è fallito per le pressioni americane. La guerra in Siria ha aggravato le tensioni all’interno del Paese perché la minoranza sunnita si è schierata con le forze ribelli, dunque non solo contro Assad ma anche contro l’Iran e il potere sciita iracheno.
La disastrata situazione economica e politica dell’Iraq è un elemento fondamentale nel caos dello scacchiere mediorientale. Esangue e indebitato l’Iraq è in rovina. Strade, ospedali, trasporti, tutto sarebbe da ricostruire attingendo alla manna petrolifera. Ma le tensioni politiche in seno al Governo, le ostilità tra il Ministro del Petrolio e quello delle Finanze, rallentano ogni decisione. L’attività legislativa non riesce a mettere in ordine le cose, la legge sul petrolio che dovrebbe regolare i rapporti tra lo Stato centrale e la regione autonoma curda, è in discussione da cinque anni. Baghdad raccoglie i proventi del petrolio e li redistribuisce alle province secondo il loro peso demografico; il Kurdistan ne riceve così solo il 17%. Il primo Ministro favorendo una parte della borghesia sciita non fa che aggravare il malcontento di quella sunnita e dei diseredati tutti.
Il 24 febbraio 2013 a Falluja le proteste dei musulmani sunniti contro il governo sono state duramente represse con alcuni manifestanti uccisi dai soldati che hanno aperto il fuoco sulla folla che tirava pietre.
Il Kurdistan iracheno autonomo si è imposto come l’alleato indispensabile degli Stati uniti in Iraq e nella regione. Il suo governo rappresenta la chiave di volta del nuovo sistema politico iracheno. In effetti i suoi dirigenti, Barzani e Talabani (che occupava la carica di Presidente dell’Iraq fino al luglio scorso quando ha lasciato il posto ad un altro politico curdo) servono a manovrare tra sciiti e sunniti iracheni nella diplomazia dell’imperialismo americano. Le istituzioni politiche di questo Kurdistan autonomo sono saldamente nelle mani di un presidente, Massoud Barzani, capo del PDK (Partito Democratico del Kurdistan) mentre la vicepresidenza spetta all’UPK (Unione Patriottica del Kurdistan).
Inoltre Talabani, capo dell’UPK, e altri curdi hanno ricevuto posti importanti nell’amministrazione, nei servizi segreti, nell’esercito iracheno. L’arroganza di Barzani e le sue rivendicazioni di indipendenza aumentano continuamente sfruttando le divisioni sempre più acute tra sciiti e sunniti, divisione che la guerra di Siria ha reso più acute.
Gli attentati di Kirkuk ricordano a tutti che i nazionalisti curdi sono sempre attivi. Kirkuk, con una popolazione multi etnica araba, curda e turcomanna, è fuori dal perimetro del Kurdistan iracheno autonomo ma i peshmerga vi sono molto presenti. Il presidente iracheno Al-Maliki in questa città punta sul nazionalismo arabo contro quello curdo e nel settembre 2012 vi ha installato un comando militare che ha provocato scontri tra peshmerga curdi e soldati iracheni.
Nel 2014 si è aggiunto al caos politico e sociale generato dai continui scontri tra diverse milizie e dai quotidiani attentati, l’arrivo di bande di terroristi islamisti formatisi nel conflitto siriano, che si sono affiancati alla “resistenza” dai vari gruppi religiosi e nazionalisti, come gli aderenti al Partito Baath, già attivi nella regione.
La Siria è ormai da anni uno dei punti focali dello scontro tra borghesie imperialiste mondiali e regionali; questo confronto armato non è condotto direttamente dagli eserciti dei grandi Stati, che preferiscono invece servirsi di mercenari, armati materialmente e ideologicamente, a seconda del bisogno.
Il cosiddetto Stato Islamico, sorto pressoché all’improvviso dalle montagne e dai deserti della Siria, è uno di questi. Il gruppo dispone di molto denaro che gli deriva dallo svaligiamento di alcune banche importanti, dalla vendita del petrolio, dato che controlla diversi pozzi, oltre che centrali elettriche, dai riscatti ottenuti con i rapimenti, ma anche dall’aiuto finanziario di alcuni Stati sunniti del Golfo Persico e dalla Turchia. Dispone anche di armi, non solo leggere ma pesanti, come carri armati e veicoli blindati presi all’esercito iracheno, soprattutto con la conquista del grande arsenale di Mossul nel nord dell’Iraq.
Questi guerriglieri, reclutati anche nei paesi occidentali, hanno trovato in Iraq l’appoggio degli ex militari dell’esercito di Saddam Hussein e dei militanti del partito Baath, oltre che della borghesia sunnita e dei tanti reietti e disperati che si sono moltiplicati in quel paese dopo la conquista della “democrazia”.
La decomposizione dello Stato centrale iracheno è giunta ad un punto tale che gli insorti sono penetrati nel territorio come nel burro impadronendosi in pochi giorni di gran parte del Nord del paese, terrorizzando le popolazioni, arrestandosi alle porte di Baghdad e delle regioni meridionali, per concentrare i loro attacchi contro la zona curda, ricca di petrolio.
I briganti si scontrano con i briganti, gli uni in nome dell’islam radicale, gli altri in nome della crociata antiterrorista per difendere la popolazione civile. In realtà si tratta solo di una lotta senza esclusione di colpi per assicurarsi l’oro nero.
Dopo avere destituito nell’agosto scorso il legittimo, seppur contestato, capo del governo Al-Maliki, divenuto troppo ingombrante, Stati Uniti e Iran, con una inedita azione comune, hanno messo al suo posto un altro sciita, Haïdan al-Abadi, anch’esso membro del partito Al-Dawaa, ma che ha studiato in Gran Bretagna e pare offrire maggiori garanzie per superare la crisi politica del Paese.
Riuscirà questo al-Abadi a tenere insieme lo Stato iracheno, cedendo a qualche compromesso tra le varie fazioni religiose e politiche, o si andrà verso una partizione del Paese nelle tre regioni, sunnita, curda e sciita, che parrebbe essere la soluzione preferita dagli Stati Uniti e probabilmente anche dall’Iran ma profondamente avversata dalla Turchia?
L’11 agosto 2014 Robert Fisk ha scritto sul quotidiano britannico “The Indipendent” che l’intervento degli USA nel Kurdistan iracheno, spacciato per la salvezza delle popolazioni autoctone dall’invasione dei guerriglieri dello Stato islamico, ha invece come scopo la protezione degli interessi delle multinazionali del petrolio impiantate nella regione. Ha dichiarato che su 143 miliardi di barili di petrolio delle riserve irachene di greggio ben 43,5 si trovano nel Kurdistan, per non parlare delle riserve di gas naturale. Le multinazionali del petrolio Mobil, Exxon, Chevron, Total, che sono tutte largamente presenti in Kurdistan, intascano il 20% dei profitti totali. Il giornalista rimarca come la rendita dall’estrazione del petrolio in questo caso sia particolarmente alta perché lì il costo di estrazione dell’oro nero è uno dei più bassi del mondo: 4 dollari al barile mentre da quattro anni viene rivenduto a 110! Infatti il prezzo di mercato tende a fissarsi su quello del petrolio più costoso.
Il governo del Kurdistan, continua il giornalista, vende il petrolio alla Turchia, che a sua volta lo rivende, senza l’accordo del governo centrale di Baghdad. Una società turca, costeggiando il confine siriano ha anche costruito un oleodotto che collega la raffineria di Tak Tak, vicino ad Erbil, in territorio curdo iracheno, al porto turco di Ceyhan, dove arriva anche l’oleodotto che proviene da Baku in Azerbaijan, e da qui lo imbarca per il mercato internazionale. L’articolo racconta la storia di una petroliera partita dalla Turchia e che, dato che nessun governo aveva voluto compromettersi, nell’attuale situazione, acquistando il petrolio “al nero”, ha navigato fino all’Italia, poi al Messico, poi al Marocco ed è alla fine è arrivata il 20 giungo al porto israeliano di Askelon e dove ha venduto la merce a metà del prezzo di mercato proprio mentre gli aerei israeliani facevano la spola sganciando bombe sulla striscia di Gaza. Gli affari sono affari!
Inoltre per le industrie degli armamenti, statunitensi, russe, francesi o tedesche, il caos causato dai conflitti interimperialisti in Iraq, in Libia, in Siria, a Gaza, nel Libano è una manna senza fine.
Che fine hanno fatto i lavoratori iracheni in questo marasma? Anni ed anni di repressione e di sanguinoso terrore pare abbiano avuto ragione delle loro organizzazioni sindacali di classe ed oggi è quasi tutto da ricostruire e da ricollegare con il Paese in gran parte sconvolto dalla guerra.
I lavoratori iracheni non possono attendere che siano i paesi imperialisti o la propria borghesia venduta e assassina a riportare la pace nel paese. Solo la ripresa della lotta proletaria internazionale, su basi di classe, potrà dare soluzione alla tragica situazione del proletariato non solo in Iraq ma nell’intero Medio Oriente. I suoi protagonisti dovranno essere nuovamente, assieme ai proletari di quelle regioni, i loro fratelli dei paesi occidentali, dell’Europa, dei Balcani, di Israele.
Vogliamo riportare un passaggio di un nostro lavoro del 2012 “Corsa al petrolio e guerre incessanti”:
«Questa lotta infernale, questo folle consumo di energia che distrugge il mondo dei viventi, questa spirale disperata e incontrollabile nella quale si sono gettati il sistema capitalistico e i suoi mercenari non porterà nulla di buono per il proletariato ma solo massacri fratricidi, distruzioni, miseria, sofferenze ancora maggiori ed infinite guerre! Il capitalismo ormai ha fatto il giro del mondo; la socializzazione della produzione, fondamento della società comunista, si è realizzata da più di un secolo ma è ancora schiacciata dal potere dell’imperialismo; l’opposizione tra Oriente e Occidente, la questione nazionale e coloniale non hanno più ragion d’essere per i lavoratori e le masse di diseredati. Le conseguenze della crisi economica mondiale che si annuncia in quest’alba del 2012, taglieranno le radici dell’opportunismo presente nella classe salariata e delle organizzazioni che lo rappresentano. All’ordine del giorno c’è solo la lotta radicale del proletariato internazionale contro la borghesia internazionale per passare ad un nuovo modo di produzione. Che rinascano in tutti i paesi le organizzazioni di classe, unite dietro il loro partito comunista internazionale, per affrontare e distruggere il vampiro capitalista e i suoi sbirri, unica strada per assicurare la sopravvivenza stessa dell’umanità».

PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE

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