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(14 Novembre 2010) Enzo Apicella

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UTOPIA E MATERIALITA’ DELLA LOTTA DI CLASSE

(1 Ottobre 2014)

tommaso moro

Tommaso Moro, ritratto di Hans Holbein il Giovane (1527)

Nell’idea, giusta e necessaria come si sarebbe scritto un tempo, di ricostruire un’identità della sinistra italiana in una situazione politico-sociale così difficile come quella che stiamo attraversando ormai da molti anni appare complicato scegliere una strada, un riferimento storico – culturale, un filone di pensiero.
Sotto quest’aspetto intorno a noi compaiono le macerie di quella che è stata, nel bene e nel male, la parte politica (ma anche culturale) più attiva nel nostro Paese e anche nell’Europa Occidentale sul piano della promozione del dibattito, della ricerca di una sintesi tra diverse opzioni e origini, della strutturazione di un’immagine pubblica, dell’espressione di contenuti rivelatisi in grado di produrre – insieme – lotte e soluzioni politiche.
Di tutto questo non vi è più traccia: questa pare essere la sintesi migliore per definire il nostro stato di cose presenti e riassumere ciò che è successo negli ultimi venti anni e anche la condizione materiale odierna, molto al di là della stessa analisi sul disfacimento dei soggetti politici, il loro mutamento di natura, la loro ricollocazione nel limbo della sudditanza rispetto a quello che sempre sono state le posizioni dell’avversario.
Sembrano mancare sia la ricerca culturale, sia la previsione e l’azione dell’iniziativa politica: l’impressione è, davvero, quella di muoversi nel deserto.
Quindi: ricostruire un’identità. Ma come?
Una ricerca in questo senso non può che rivolgersi, ricostruendo il tempo passato e perduto, oltre a quei riferimenti classici sulla base dei quali, nel ‘900, abbiamo assistito ai tentativi di inveramento statuale basati su alcuni fraintendimenti marxiani. Quello è stato un fallimento che ha coinvolto e coinvolge anche coloro che hanno sempre coerentemente assunto una visione critica.
Prendendo atto di questo primo punto ci sarebbe da ricostruire un ‘utopia: nella convinzione che senza l’offerta di un’utopia , pur in questi tempi di dominio tecnologico, difficilmente le generazioni possono affacciarsi sulla scena del cambiamento di quella potrebbe apparire una direzione obbligata della storia: dominanti e dominati, servi e padroni, forti e deboli.
Un’utopia complessiva, magari sul modello di quella disegnata da San Tomaso Moro: una comunità ideale, perfetta ed egualitaria, evidenziando la duplicità di senso tra luogo inesistente e luogo ottimo.
Un’utopia che si contrapponga a una realtà storica giudicata irrazionale e degradata: un progetto di costituzione sociale meditato, coerente, nella propria logica interna, con caratteri di trasparenza e di autosufficienza.
Come potrebbe però l’idea di questa utopia mobilitare le grandi masse, raccogliere attorno alle sue espressioni le lotte sociali, suscitare un moto di concreto cambiamento?
E’ proprio questo l’interrogativo più assillante, quello al riguardo del quale lo smarrimento culturale della sinistra incide di più?
Eppure una chiave di interpretazione ci sarebbe.
Se noi esaminiamo i dati dell’economia di questo principio di secolo e li incrociamo, partendo proprio da qui dall’Europa Occidentale, con quelli della condizione materiale di vita di quelle che rimangono classi subalterne (indicatori molto diversi, sotto questo aspetto, da quelli compongono la costruzione delle stime dei diversi PIL nazionali) ci accorgiamo di un elemento fondamentale: la costruzione dei patrimoni, i meccanismi di incremento del capitale, il livello delle diseguaglianze tendono tutti a far ritornare attuale la condizione della fase in cui, con lo sviluppo del capitalismo, si avviarono i grandi processi di organizzazione e di lotta del movimento operaio.
Sicuramente non siamo più dentro ad una fase di accumulazione come quella verificatasi durante la rivoluzione industriale, ma le cifre ci dicono che i livelli di sfruttamento (e da esso la crescita della rendita dei patrimoni) è molto simile a quella fase anche sotto l’aspetto della vastità dei soggetti coinvolti, con l’aggiunta del tema ambientale, nell’800 (il secolo delle “magnifiche sorti e progressive) sconosciuto.
Intendiamoci bene: le differenze sono enormi, soprattutto al riguardo dell’estensione materiale dei diversi settori dell’economia tra primario, secondario e terziario, ma la sostanza (e gli effetti concreti) della logica dello sfruttamento stanno tornando a essere quelli di quella fase, cancellando via via quanto si era spostato in avanti dal punto di vista economico e sociale nel corso del secolo successivo, quello che definiamo dei grandi conflitti e dei grandi totalitarismi.
Si dimostra così, per l’ennesima volta, che la storia non è finita e che, almeno dal nostro punto di vista, può marciare anche con il passo del gambero.
Quale lezione trarre, a questo punti, dall’analisi appena sopraesposta?
Esprimiamoci in estrema sintesi: si tratta, prima di tutto, di far capire in quale condizione materiale i ceti subalterni si trovano offrendo l’idea di una rinnovata utopia e di strumenti di lotta non solo difensivi ma anche prefiguranti uno sbocco sociale e politico diverso e alternativo.
Tornano prepotentemente in ballo gli strumenti della lotta di classe: in primis l’organizzazione politica e quella sindacale.
Come intrecciare, allora, l’Utopia e la Materialità della Lotta di Classe: nel 1848 la sintesi fu trovata, in maniera assolutamente incancellabile da qualsiasi accidente della storia, nel “Manifesto del Partito Comunista” nella sua formidabile chiarezza di espressione.
Un punto da cui ripartire?

Franco Astengo

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