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"Fare come in Kurdistan". Storia di un popolo Resistente.

(11 Ottobre 2014)

farecomeinkurdistan

A nord di quella che tutti abbiamo iniziato a conoscere col nome di“Mesopotamia”, si staglia l’altopiano del Kurdistan. Nella parte nord-orientale di quella che fu la “Mezzaluna Fertile”, protesa supina tra i fiumi Tigri ed Eufrate, un tempo culla delle civiltà dei Sumeri, degli Assiri e dei Babilonesi, vive e lotta uno dei più grandi gruppi etnici al mondo privi di unità nazionale. I curdi, che secondo una stima sono 40 milioni in tutto il pianeta, sono la quarta etnia medio-orientale dopo arabi, persiani e turchi. Si tratta indubbiamente di uno dei gruppi etnici più oppressi e perseguitati della storia, oggi di nuovo esempio per tutto il mondo di resistenza contro il fondamentalismo islamico e l’imperialismo occidentale. Per oltre un secolo, i curdi si sono battuti con ogni mezzo per la creazione di uno Stato autonomo, il “Kurdistan” (paese dei curdi), che ad oggi è riconosciuto solamente come nazione ma non come Stato indipendente. Un territorio difficile, politicamente incastrato agli angoli di cinque stati differenti: Turchia, Iran, Iraq, Siria e Armenia. Terra di reminiscenze storicheantiche e passaggi di popolazioni nomadi, inizia a conoscere il proprio tormento in epoche più recenti, precisamente nei primi anni del XX secolo, quando, a seguito di vari Trattati, lo storico territorio curdo si trovò diviso fra diversi nuovi stati. Ha inizio una politica di discriminazione razziale nei confronti dei curdi che non ha esempi in nessun’altra parte del mondo. Gli stati che attuarono queste politiche, principalmente Siria e Turchia, le condussero al fine di negare persino l'identità e l'esistenza stessa del popolo curdo, utilizzando tutti i mezzi a loro disposizione. Nel 1945 si forma, con l'appoggio dell'Unione Sovietica, il Partito Democratico Curdo guidato da Mustafa Barzani, di ispirazione tipicamente nazionalista, ad oggi partito di centrodestra a tutti gli effetti. Il 22 gennaio 1946, in territorio iraniano,i “peshmerga” di Barzani assieme ad altri compatrioti curdi, proclamarono la formazione di una Repubblica Popolare Curda, con capitale Mahabad. Con il ritiro delle forze sovietiche, le truppe iraniane riconquistarono il territorio, condannando a morte i vertici politici e mettendo fine a quella breve esperienza. Vedendosi negata l'esistenza di un’identità nazionale e politica, i nazionalisti curdi hanno spesso fatto ricorso alla lotta armata. Gli scontri violenti, seguiti da feroci repressioni a danno dei curdi, continuano ad essere molto frequenti. Ma è ormai sotto gli occhi di tutti che dietro ad una definizione squisitamente geografica si nasconde uno dei luoghi più ricchi di petrolio al mondo, generando intorno ad esso forti interessi economici da parte di potenze occidentali come gli Stati Uniti d’America.

IL PKK
A seguito delle due Guerre del Golfo (1990-1991 e 2003) e dell'invasione statunitense in Iraq, la questione dei curdi si inserisce nel quadro delle strategie degli USA per ottenere il controllo del territorio e delle sue preziose risorse. Difatti, il Partito Democratico del Kurdistan (PDK) e l’Unione Patriottica del Kurdistan (UPK) in Iraq, il Partito Democratico del Kurdistan Iraniano ed il Partito per la Libertà del Kurdistan (PJAK) in Iran, sono gruppi ben equipaggiati e finanziati direttamente o indirettamente dagli USA. Totalmente differente è la questione del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) in Turchia, partito osteggiato e tacciato di terrorismo da tutte le potenze, soprattutto quelle occidentali. Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, ad oggi, èun movimento politico clandestino armato, sostenuto dalle masse popolari e agricole del sudest della Turchia, zona popolata dall'etnia curda. Nato su basi marxiste-leniniste nel 1978 sotto la guida di Abdullah Öcalan, fu gravemente decimato dall’esercito turco che nel 1980 prese il potere tramite un colpo di Stato. Tra il 1980 e il 1983 furono eseguite 89 condanne a morte, centinaia di militanti furono arrestati e migliaia vennero indagati per "cospirazione". Nel 1984 la Turchia tornò ad un governo formalmente democratico, ma a carattere monopartitico e fortemente condizionato dall'esercito. Il PKK, non riconoscendo passi avanti sostanziali nel riconoscimento dei diritti dei curdi, prese le distanze dagli altri partiti democratici curdi indipendentisti, il PDK e l'UPK, e scelse la via della lotta armata.Secondo un rapporto della Commissione di Indagine del Parlamento turco, il conflitto tra lo Stato turco e il PKK avrebbe provocato complessivamente tra le 35.000 e le 40.000 vittime, suddivise tra militari e civili appartenenti a varie etnie sul territorio. Ed ecco che alla fine degli anni ’90 la storia del PKK si intreccia, con esito infelice, con quella del nostro Paese. Nel 1998, il leader Abdullah Öcalan giunse in Italia, con l’aiuto del deputato Ramon Mantovani di Rifondazione Comunista, chiedendo asilo politico e sollevando di conseguenza un polverone mediatico internazionale che compromise i rapporti tra Italia e Turchia. Il governo D'Alema prese tempo, mentre Öcalan soggiornava a Roma protetto dagli agenti della Digos. Ciò irritò il governo turco e le forze di centrodestra italiane, favorevoli all'espulsione di Öcalan.La vicenda si concluse col diniego dell'asilo politico da parte delle autorità italiane e Ocalan fu invitato a partire per Nairobi. Pochi giorni dopo venne catturato dagli agenti dei Servizi segreti turchi del MIT e dalla CIA, consegnato, in condizioni non del tutto trasparenti, allo Stato turco.Da quel momento, Abdullah Ocalan, grazie al contributo del governo D’Alema, è prigioniero in un carcere di massima sicurezza sull’isola di Imrali, dove sconta una condanna a morte poi tramutata in ergastolo e da dove continua a dirigere il PKK. Dopo aver abbracciato come linea teorica e pratica quella del municipalismo libertario, il PKK nel 2001, a seguito degli attentati dell’11 settembre fu inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche. Nel 2006 il governo Turco approvò una legge secondo cui i minori che manifestavano sostegno alle formazioni riconducibili al PKK potevano essere arrestati secondo procedure normali per il caso.Questa norma, atta a scoraggiare le manifestazioni a favore dei guerriglieri curdi, ha ottenuto l’effetto contrario a quello pensato: infatti, un gran numero di coloro che prima simpatizzavano solamente per il PKK, decisedi abbracciare totalmente la causa curda. Dopo altri numerosi scontri tra guerriglieri del PKK e forze armate turche, nel marzo 2013 Öcalan ha annunciato il "cessate il fuoco" ed il ritiro dei guerriglieri del PKK dal territorio turco, dando il via alle trattative di pace con la Turchia.

“La nostra lotta non è stata contro una razza, una religione o dei gruppi. La nostra lotta è stata contro ogni tipo di pressione e oppressione. Oggi ci stiamo risvegliano in un nuovo Medio Oriente, in una nuova Turchia e in un nuovo futuro. Oggi sta cominciando una nuova era. Una porta si è aperta per passare dalla lotta armata alla lotta democratica. Il Medio Oriente e l’Asia Minore sperano in un nuovo ordine. Un nuovo modello è una necessità come il pane e l’acqua. È il tempo dell’unità. Turchi e curdi hanno combattuto insieme a Çanakkale [nella Seconda Guerra Mondiale], e varato insieme il primo parlamento turco nel 1920. Nonostante tutti gli errori fatti negli ultimi 90 anni, stiamo cercando di costruire un modello che abbracci tutti gli oppressi, le classi e le culture. Le persone in Medio Oriente stanno cercando di rinascere dalle loro radici, perché sono stanche di tutte le guerre e i conflitti. La base della nuova lotta sono le idee, le ideologie e le politiche democratiche. Ora le pistole vanno silenziate e devono parlare i pensieri. È arrivato il momento che le armi escano dai confini turchi. Questa non è la fine, ma un nuovo inizio”.


CONTRO IL FASCISMO DELLO STATO ISLAMICO E L’IMPERIALISMO
Scrive Sandro Mezzadra in un recente articolo a proposito della Resistenza curda “Nei giorni scorsi, H&M ha lanciato per l’autunno una linea di capi d’abbigliamento femminili chiaramente ispirata alla tenuta delle guerrigliere curde le cui immagini sono circolate nei media di tutto il mondo. Più o meno nelle stesse ore, le forze di sicurezza turche caricavano i curdi che, sul confine con la Siria, esprimevano la propria solidarietà a Kobanê, che da settimane resiste all’assedio dello Stato islamico (ISIS). Quel confine che nei mesi scorsi è stato così poroso per i miliziani jihadisti oggi è ermeticamente chiuso per i combattenti del PKK, che premono per raggiungere Kobanê. E la città curda siriana è sola davanti all’avanzata dell’ISIS. A difenderla un pugno di guerriglieri e guerrigliere delle forze popolari di autodifesa (YPG/YPJ), armati di kalashnikov di fronte ai mezzi corazzati e all’artiglieria pesante dell’ISIS. Gli interventi della “coalizione anti-terrorismo” a guida americana sono stati - almeno fino a ieri - sporadici e del tutto inefficaci. Già qualche bandiera nera sventola su Kobanê. Ma chi sono i guerriglieri e le guerrigliere delle YPG/YPJ? Qui da noi i media li chiamano spesso “peshmerga”, termine che evidentemente piace per il suo “esotismo”. Peccato che i peshmerga siano i membri delle milizie del KDP (Partito Democratico del Kurdistan) di Barzani, capo del governo della regione autonoma del Kurdistan iracheno: ovvero di quelle milizie che hanno abbandonato le loro posizioni attorno a Sinjar, all’inizio di agosto, lasciando campo libero all’ISIS e mettendo a repentaglio le vite di migliaia di yazidi e di appartenenti ad altre minoranze religiose. Sono state le unità di combattimento del PKK e delle YPG/YPJ a varcare i confini e a intervenire con formidabile efficacia, proseguendo la lotta che da mesi conducono contro il fascismo dello Stato Islamico”.Un’analisi - quella di Mezzadra - ineccepibile. L’YPG, all’anagrafe “Unità di Protezione del Popolo”, è il braccio armato del PYD, l’Unione Democratica della Rojava, il Kurdistan occidentale. L’YPG è una filiazione a tutti gli effetti del PKK, i cui militanti stanno dando il loro contributo alla resistenza contro l’avanzata dell’ISIS, a difesa del loro territorio. Particolarmente numerosa è la presenza di donne tra le file dell’YPG. A tal proposito, prosegue Mezzadra “Nella Rojava il femminismo è incarnato non soltanto nei corpi delle guerrigliere in armi, ma anche nel principio della partecipazione paritaria a ogni istituto di autogoverno, che quotidianamente mette in discussione il patriarcato. E l’autogoverno, pur tra mille contraddizioni e in condizioni durissime, esprime davvero un principio comune di cooperazione, tra liberi e uguali”.

Un esempio di lotta, coraggio, libertà, giustizia, uguaglianza e dignità di fronte ad un mondo occidentale e arabo intollerabilmente cinico. Un esempio che oltre a farci riflettere dovrebbe farci tornare nelle piazze al fianco di quei curdi che stanno manifestando in molte parti del mondo. E non solo per la solita, formale, retorica “solidarietà”, ma perché, come prosegue ancora Mezzadra, “dentro la crisi, la guerra minaccia anche di saldarsi con l’irrigidimento dei rapporti sociali e con il governo autoritario della povertà. Guerra e crisi: non è un binomio nuovo”.Un esempio che potrebbe fungere come “nuova narrazione” per le giovani generazioni antagoniste di questo sistema marcescente. E siccome la politica spesso, per chi la fa su strada, è scandita da “miti” e da “chimere” - a volte, purtroppo, eccessivamente caricaturizzate - perché non ripartire dai guerriglieri curdi che in queste ore stanno lottando sacrificando la loro vita non per una “nazione”, ma per una prospettiva di mondo? E perché se i nostri cugini e i nostri fratelli ci parlano del Chiapas e riecheggiano di quel luglio del 2001 a Genova, perché se i nostri padri e i nostri zii ci dicono del Vietnam e di Che Guevara, perché se i nostri nonni partigiani e prima ancora i nostri bisnonni dicevano di “fare come in Russia”, noi non possiamo permetterci di pensare ad un altro modello di sistema e di “fare come in Kurdistan”?

Lorenzo Ghetti

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