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Kobanê, le lacrime di chi combatte per la vita

(12 Ottobre 2014)

kobanelelacrime

Mi sono ricordata di te e ho pianto. Azad ha una bella voce. Anche lui ha pianto quando stava cantando. Anche a lui manca sua madre che non vede da un anno.
Ieri abbiamo aiutato un amico ferito. É stato ferito da due proiettili. Non sapeva molto della seconda ferita quando stava indicando la prima pallottola nel petto. Stava sanguinando troppo dai suoi fianchi. Abbiamo fasciato la ferita e gli ho dato il mio sangue. Siamo nel lato est di Kobani, madre…A sole poche miglia ci troviamo tra noi e loro. Vediamo le loro bandiere nere, sentiamo le loro radio, qualche volta non capiamo cosa dicono quando parlano lingue straniere, ma possiamo dire che sono spaventati.
Noi siamo un gruppo di nove combattenti. Il più giovane Resho è di Afrin. Ha combattuto a Tal Abyad è si unito a noi. Alan è di Qamishlo, la zona migliore ,ha combattuto a Sere Kaniye e poi si è unito a noi. Ha qualche cicatrice sul suo corpo. Ci ha detto che sono per Avin. Il più vecchio è Dersim, viene dalle montagne di Kandil e sua moglie ha subito il martirio a Diyarbekir e lo ha lasciato con 2 bambini.
Siamo in una casa alla periferia di Kobani. Non sappiamo molto dei suoi proprietari. Ci sono foto di un uomo anziano e una di un giovane uomo con un nastro nero, un martire… C’è una foto di Qazi Mohamad, Mulla Mustafa Barzani, Apo e una vecchia mappa ottomana che cita il nome Kurdistan.
Non abbiamo avuto il caffè per un po‘, abbiamo scoperto che la vita è bella anche senza caffè. Onestamente non ho mai avuto un caffè buono come il vostro mamma. Siamo qui per difendere una città pacifica. Non abbiamo mai preso parte all’uccisione di nessuno, invece abbiamo ospitato molti feriti e rifugiati dei nostri fratelli siriani. Stiamo difendendo una città musulmana che ha decine di moschee. Le stiamo difendendo da forze barbare.
Mamma, io vi verrò a trovare una volta che questi sporca guerra, che è calata su di noi, sarà finita. Io sarò lì con il mio amico Dersim che andrà a Diyarbekir per incontrare i suoi figli. A noi tutti manca casa e vogliamo tornare, ma questa guerra non sa cosa significa mancare.
Forse non tornerò madre. Allora sii certa che ho sognato di vederti per così tanto tempo ma io non sono stata fortunata.
So che visiterete Kobani un giorno e cercherete la casa che ha visto i miei ultimi giorni… è sul lato est di Kobani. Parte di essa è danneggiata, ha una porta verde che ha molti buchi da colpi da cecchino e vedrete tre finestre, su di una sul lato est, vedrete il mio nome scritto in inchiostro rosso … Dietro quella finestra madre, ho aspettato contando i miei ultimi momenti, guardando la luce del sole mentre penetrava nella mia stanza dai fori di proiettile in quella finestra... Dietro quella finestra, Azad ha cantato la sua ultima canzone su sua madre, aveva una bella voce quando diceva “mamma mi manchi”.
tua figlia Narin
(da Retekurdistan.it)

“Mi sono ricordata di te e ho pianto” scrive alla propria madre una miliziana kurda delle Unità di difesa del popolo asserragliata nella Kobanê assediata. E sembra di vederla quella mamma simile alle donne incontrate sulla via d’un più antico dolore.

Scempi che si rinnovano e trovano nuovi attori nei jihadisti dell’Isis che assediano il simbolo d’una speranza, mentre sono rinnegati da islamici pronti a rigettare ogni presunzione di guerra santa. Una santificazione che appare malata e percorre esaltazioni prodotte dall’imperialismo, quello arabo saudita da anni suggeritore e finanziatore di certo fondamentalismo, quello occidentale cui piace il fuoco della “pax romana”. Sembra la santificazione reazionaria della guerra ‘igiene del mondo’ percorsa dai nazionalismi più biechi, anche quando a cantarne le lodi erano aedi d’indubbie qualità letterarie come Ernst Jünger e Louis-Fernand Céline. Diversamente da loro c’è chi non crede alle guerre come “il più potente incontro fra popoli”. C’è chi come la guerriglia kurda le combatte, è costretta a combatterle, sia che si ribelli cercando una società nuova, sia che si difenda opponendo dignità e speranze, rincorrendo un futuro di vita, non di morte.

Non lanciamo manicheismi. Non si vuole santificare una parte e mostrare gli avversari come demoni senz’anima. Fuori da apriorismi ideologici, s’osserva un panorama fortemente ideologizzato che espone chiaramente da un lato il senso di coesione e gestione armonica dell’esistenza non inficiata da esasperazioni etniche, religiose, politiche, all’opposto un desiderio d’imposizione, omologazione, pensiero unico. Due tipologie di presente e futuro, una rivolta alla vita, la seconda oscura come i propri vessilli. Vorremmo leggere, se mai verrà scritta, la missiva d’un jihadista dell’Isis alla propria madre, per comprendere se al possibile lirismo mostrato da altri esaltatori della sopraffazione s’unisce l’afflato del sentimento. Ora abbiamo sotto gli occhi le descrizioni minute di chi ha un gran cuore: un manipolo di nove combattenti asserragliati in una casa difesa con armi leggere. Tutto mentre il nemico bombarda dalle colline e possibili ‘alleati’ sono fermi sul proprio confine. C’è speranza nella mente della guerrigliera Narin, c’è anche l’ipotesi di non poter vedere cosa accadrà domani. E lo strazio delle madri che sopravvivono ai figli è attenuato solo dall’ideale di trovare nel loro sacrificio un percorso che continua. Salvare Kobanê è l’impegno di Narin e dei guerriglieri dell’Ypg perché la vita prosegua.
12 ottobre 2014

articolo pubblicato su http://enricocampofreda.blogspot.it

Enrico Campofreda

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