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(28 Gennaio 2011) Enzo Apicella
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CONTRO IL GOVERNO RENZI!

Sulla Manifestazione CGIL del 25 ottobre

(21 Ottobre 2014)

Renzi si presenta come il messia del “cambiamento”, ma, dietro la retorica rinnovatrice, o addirittura “rivoluzionaria”, di cui si ammanta, la sostanza della sua politica è smaccatamente al servizio delle classi dominanti e dei poteri forti che ne supportano l’offensiva contro i lavoratori.

Quale “cambiamento”?

Di cambiato c’è che la “vecchia guardia” dell’ex-PCI, a conclusione di una penosa parabola, ha consegnato ad un giovanotto benedetto dai padroni l’osso, ormai scarnificato, del partito di classe che esso pretendeva “rappresentare”, ritrovandosi assieme, in questa triste bisogna, a certe “vecchie guardie” ex-DC (la fu bestia nera del picismo che fu!). Il “mistero” di questa riconversione a tutto tondo è facilmente spiegabile per chi vuol capirlo. Il vecchio PCI, in antitesi con le sue origini di Livorno 1921, fu l’artefice primo della “Resistenza antifascista”, allineato dietro le potenze “democratiche” (egemonizzate dagli USA), rigettando ogni ipotesi rivoluzionaria in nome di una “democrazia progressiva” da conquistare pezzo dopo pezzo, democraticamente, all’interno del sistema capitalista nazionale da “riformare” ed in nome, conseguentemente, degli “interessi nazionali” del “paese”. Ciò non ha impedito al partitone (coi suoi due milioni di iscritti ed una massa di lavoratori tuttora in piedi anche se acciaccata dal riformismo) di “rappresentare” le esigenze immediate della classe, ma costringendole all’interno degli interessi e delle “compatibilità” “nazionali” (in una parola: capitalistiche) secondo la natura e la funzione di quel che Lenin definisce un partito “operaio”–borghese. Negli anni del boom ciò ha contribuito certamente a “conquistare” delle briciole a favore dei lavoratori in subordine agli essor del sistema. Ma la logica nazional-borghese del PCI togliattiano comportava necessariamente i successivi “sbandamenti”. Coi prodromi della crisi incipiente dell’apparato capitalistico nazionale era gioco forza necessario correggere la stessa rotta del rivendicazionismo operaio non più “compatibile”, come nel passato, con le “superiori esigenze del sistema”. Da qui le prediche sull’“austerità” dei vari Berlinguer e Lama, austeri coi proletari in nome di un rilancio (ipotetico) del padronato da cui, “poi”, ricavare qualcosa. Passo dopo passo si è arrivati a subordinare di fatto ed in linea di principio le esigenze dei proletari a quelle del sistema nazionale borghese (anche se, soprattutto all’inizio, tenendo ferme le “esigenze delle masse lavoratrici”). Oggi, nel pieno di una crisi sistemica, neanche questo basta più: i lavoratori salariati devono mostrarsi “coerenti” con le esigenze del nostro capitalismo dalle cui sorti dipendono dismettendo ogni e qualsiasi pulsione “corporativa”. Il nuovo, il PD, si configura pertanto come un partito della “nazione”, senza aggettivi impropri di classe e la sua “nuova” composizione di classe ne è il contrassegno. L’asse portante del PD è costituito oggi da ben altre classi che il proletariato e a quest’ultimo ci si può interessare, al massimo, come “ulteriore” bacino elettorale dopo averne sistematicamente disperso ogni “conato” di classe. Non fu forse il governo D’Alema a partecipare in prima fila nel 1999 agli infami bombardamenti sulla Jugoslavia? E non sono stati anche i Damiano e Bersani a concedere alla destra padronale, oltre alle “riforme” Fornero su pensioni e licenziamenti, anche quel doppio regime che opprime le nuove generazioni con il ricatto del sottosalario e della precarietà a vita?

Nella politica di Renzi c’è continuità con la pluridecennale deriva del PCI-PDS-DS-PD, che conclude nelle braccia di una leadership del tutto estranea al vecchio armamentario classista su cui si fondava la “sinistra” ufficiale. Le “opposizioni interne” al PD e alla Cgil (ma anche quanti, SEL-PRC, rincorrono eternamente il PD e ne sono alleati a livello locale), hanno concorso in tutti questi anni al risultato attuale. Chi si aspettasse da queste sponde un argine all’attacco padronal-governativo resterà deluso.

La singolarità di Renzi è nella propaganda di un capitalismo “dinamico e progressivo”, ammantato di ottimismo del fare e del merito riconosciuti a una incensata classe imprenditoriale, il tutto sbandierato come “programma di sinistra”. Renzi può farlo senza l’intralcio di appartenenze/collegamenti, che certo non gli competono, con la storia e le lotte del movimento operaio. Nella retorica renziana le lotte e le conquiste dei lavoratori (unico vero fattore progressivo per una sinistra che sia tale!) sono cancellate e denigrate come “difesa corporativa” e “fattori distorsivi”, mentre gli strali antioperai bersagliano preferibilmente la melma burocratica sindacal-politica (reale!), del tutto estranea al vecchio armamentario classista su cui si fondava la “sinistra” ufficiale. Un’operazione condotta dal pulpito della attuale segreteria del fu PCI e dall’alto di un consenso del 40%, il che non è senza significato. L’intero padronato e la destra non a caso la supportano, parzialmente o in toto, tutti concordando sull’obiettivo di ricacciare quanto più possibile indietro il ricordo di una politica di classe (invero archiviata da quel dì dalla genia degli “oppositori interni”) e della stessa idea di un protagonismo politico indipendente e per sé dei lavoratori. Si punta a sancire che destra e sinistra si coniugano all’interno dell’indiscusso orizzonte del capitalismo nazionale, senza necessità di distinti “partiti operai”, e con i padroni ben disposti ad appoggiare una “sinistra moderna” che si dimostri più “meritevole”, in quanto più capace di altri nel far avanzare una politica di spregiudicato sostegno al capitalismo nella crisi.

Una politica di sottomissione della classe lavoratrice al capitale

Un’operazione del genere non rinuncia a ipotetici zuccherini con i quali accompagnare il calice amaro che si offre al proletariato. Renzi ha messo 80 euro nella busta paga di un certo numero lavoratori e si è prodigato, all’inizio del mandato, in interventi volti a favorire la composizione di alcune vertenze (ricordiamo i sorrisi di Renzi e Landini dopo la firma dell’accordo Electrolux). Dopodiché il primo e il secondo atto del Jobs Act, oltre a tutto il resto, hanno chiarito l’effettiva direzione di marcia: contratti a termine acausali e reiterabili all’infinito, cioè precarietà a vita per i giovani lavoratori cui il premier promette di voler “restituire diritti” (vedremo come, intanto il decreto Poletti gliene ha tolti ancora!). Dal lato dei “garantiti” e per pareggiare un po’ il conto, blocco infinito della contrattazione nel pubblico impiego, “libertà degli imprenditori di licenziare” (tanto per chiarire quali sono “i diritti” e “le libertà” di cui ci si erge a paladini), fine del contratto nazionale, demansionamenti, controlli sul lavoro, TFR in busta paga (altro – supposto – zuccherino, visto che la medicina stava diventando indigeribile).
Sono misure di sostanziale continuità con la politica dei governi Berlusconi, Monti, Letta, mentre il famoso “cambiamento”, se riferito al “taglio delle tasse”, è solo un volgare gioco di prestigio fatto a pezzi dalla realtà, e, quanto al taglio della selva di sprechi e schifezze vari del capitalismo reale e delle sue iper-parassitarie burocrazie, tutta questa manfrina è ben lontana dal transitare dagli annunci fanfaroneschi alla concludenza dei fatti, che alla resa dei conti si rivelano molto modesti.

Cosa hanno fatto la Cgil e la Fiom in questi anni?

Ciò detto, cosa hanno opposto i sindacati confederali e la Cgil all’offensiva che dall’ultimo Berlusconi ad oggi ha sottoposto il mondo del lavoro a un attacco senza precedenti, senza peraltro dimenticare la paralisi sociale assicurata ai “governi amici” del centro-sinistra che certo non hanno risparmiato colpi alla classe lavoratrice con politiche che rappresentano i prodromi di quelle poi brandite da Monti e ora da Renzi?
L’ultimo Berlusconi ha sancito la derogabilità in peggio dei contratti nazionali. La Cgil non solo non ha contrastato questo attacco, ma ha lasciato soli i lavoratori metalmeccanici che in una prima fase hanno promosso una mobilitazione reale per difendere il contratto nazionale e respingere gli accordi separati sottoscritti da Cisl-Uil con la Fiat di Marchionne.
Quando poi Berlusconi sembrava prossimo a uscir di scena e le elezioni vicine, anche la Fiom ha tirato il freno alla lotta. Invece delle elezioni sono arrivate le Larghe Intese di Monti con il PD dentro: a quel punto le “opposizioni interne” di PD e Cgil, questa volta Fiom compresa, sono rimaste a guardare il “governo tecnico” che ha raddoppiato la posta delle tasse scaricate sui lavoratori per colmare l’oceano del debito pubblico, ha attaccato le pensioni e messo a segno la prima sostanziosa manomissione dell’articolo 18 (che oggi si dice di voler difendere), sempre rincarando la dose di precarietà per i nuovi assunti.
La Cgil non ha promosso alcuna mobilitazione contro tutto ciò e questo ha galvanizzato il padronato. Renzi e i padroni sono ora spinti ad accelerare perché la crisi stringe, e si sentono sicuri di poter sferrare un attacco decisivo su quel che resta da sbaraccare quanto a tutele già conquistate. Le conquiste diventano infatti carta straccia se il proletariato non è in grado di presidiarle con l’organizzazione e la lotta.
Contro le “riforme” Fornero la Cgil ha indetto nel 2012 tre ridicole ore di sciopero. Oggi, dopo aver ventilato ricorsi alla giustizia europea contro il decreto Poletti (meritandosi l’accusa di Renzi di non difendere i giovani... contro il suo governo!), alla scarica di colpi di cui è gravida la legge delega sul “mercato del lavoro” oppone la manifestazione di sabato 25 ottobre. Occorre invece costruire la mobilitazione generale e una stagione di scioperi e di lotta veri, il che impone chiarezza di obiettivi e di prospettiva, l’unificazione delle forze e una lotta condotta in modo efficace, mentre da troppo tempo la Cgil indice più che sporadici scioperi con modalità tali che sviliscono il valore e l’efficacia della lotta.
Quanto a obiettivi, l’appello per il 25 ottobre dice che Renzi “sbaglia”, ma non è contro il governo, non ne chiede le dimissioni, non avvia una mobilitazione che punti a disarcionarlo (unico modo per vanificare la delega votata al Senato). La Cgil si dichiara genericamente “per lavoro, dignità, uguaglianza e per cambiare l’Italia”; reclama “il cambiamento vero”, che sarebbe stato promesso ma poi dimenticato da Renzi (!?).

Quali gli obiettivi della lotta?

La Camusso risponde a Renzi: “noi in questi anni eravamo a combattere il caporalato”. I super-sfruttati lavoratori delle cooperative in subappalto della logistica (dei magazzini Ikea ad esempio), ai quali i padroni negano il contratto nazionale, che vengono licenziati se osano rivendicarlo, e i cui picchetti di lotta sono attaccati con violenza inaudita dalla polizia, non se ne sono mai accorti e finora hanno ottenuto tutt’altro che ascolto e solidarietà dalla Cgil, per non parlare delle splendide lotte dei proletari immigrati – vedi Rosarno – delle cui condizioni di lavoro e di vita semplicemente non ci si era mai accorti. Cominci da qui la Cgil a “combattere – veramente – il caporalato”!
Camusso ammette di “aver fatto troppo poco, perché abbiamo sperato che le leggi annunciate cambiassero davvero qualcosa e il nostro errore è stato aspettare quel cambiamento”. Ma quale “speranza” potevano mai muovere le leggi Fornero e quelle che hanno introdotto ed esteso la precarietà, leggi tutte votate e/o non contrastate dalle attuali “opposizioni” del PD e della Cgil? Quale “cambiamento” ci si poteva mai attendere da queste politiche? Con quale credibilità ci si oppone oggi alla cancellazione dell’articolo 18, se due anni fa non si è fatto nulla contro la prima sostanziosa manomissione di quella norma? La neo-segretaria Cisl in un’ora di parlamentazioni con Renzi già vede delle “aperture”. I lavoratori che hanno dato il via a scioperi territoriali dovrebbero lottare – secondo costoro – per l’obiettivo di riaprire “le sale verdi” e salvare dalla rottamazione le “opposizioni interne” oggi escluse da ogni partecipazione ai tavoli dove i poteri capitalistici decidono, escludendo per principio il ricorso ad una vera stagione di lotta che punti a far cadere il governo Renzi!
Si dice che l’articolo 18 non c’entra con la creazione di nuovi posti di lavoro e la crescita, che “si usa la crisi” per attaccare il lavoro, che la crisi è il frutto di insensate politiche di austerità imposte dall’Europa. Noi crediamo che la questione sia più seria, non vediamo facili soluzioni dietro l’angolo, non pensiamo che l’attacco in corso sia un optional di cui una borghesia “più ragionevole e ben disposta” potrebbe fare a meno. Si lamenta che sono sempre i lavoratori a pagare, mentre “bisogna chiedere a chi più ha di mettere a disposizione parte del suo reddito per lo sviluppo” e “aggredire alcuni poteri forti e anche ricchi per mettere risorse a disposizione della crescita” (è Camusso a parlare) . Noi diciamo: sarebbe il momento di accorgersi che l’attuale crisi capitalista impone, proprio ai fini della crescita, un attacco frontale al proletariato, strappandogli tutte le “guarentigie” precedentemente “conquistate” in nome del rilancio dell’economia. Spetterebbe ai comunisti porre la questione dell’abbattimento di questo tipo di “crescita”, diventato ormai incompatibile con le esigenze della società, e precisamente per l’ipercrescita dei mezzi produttivi non più contenibili entro il presente ordine borghese e non quello di rivendicarne un “rilancio” sottraendosi alle sue ovvie conseguenze che impongono questo ulteriore attacco al proletariato: la potenza produttiva raggiunta attualmente dal capitalismo sarebbe tale da poter soddisfare oltre ogni misura i bisogni della società se... non vigessero più le leggi del profitto capitalistico (che se ne infischia dei “valori d’uso” per l’uomo). Ma ciò esula dagli orizzonti di un sindacato pienamente inserito nello stato e nel sistema che ne costituisce la base”.

Quale prospettiva?

Si omette di dire che i poteri forti usano la propria forza e ricchezza non per mettere gentilmente a disposizione il proprio reddito ma per preservare e rafforzare il potere di classe. Si omette di dire che il governo e lo Stato, cui ci si rivolge, non sono super partes ma espressione e strumento dei poteri forti. Il capitalismo non si basa sul “mettere a disposizione i capitali per lo sviluppo”, ma sul metterli in gioco (e ritirarli per destinarli alla speculazione) se e quando ci sia la aspettativa e certezza di un congruo profitto. I capitalisti non sacrificano le proprie ricchezze “per la crescita”, perché sono divorati dalla febbre del profitto. Gli “eroici” imprenditori di cui straparla Renzi difendono con i denti i propri esclusivi interessi di classe, cui si riduce il cosiddetto “interesse generale della nazione” da costoro opposto ai “corporativismi” (!?) dei lavoratori. Nella crisi il capitalismo preserva sé stesso, difende il proprio potere di classe e agogna di aumentare la legge del profitto e non si può conquistare alla dieta vegetariana una bestia carnivora.
La prospettiva della lotta, quindi, non può essere quella di “un altro modello di sviluppo”, di “un capitalismo buono” che metta al centro non il profitto ma “l’interesse della collettività”..., perché questo “capitalismo buono” semplicemente non esiste. La prospettiva della lotta è contro il capitalismo e il profitto.
La manovra sull’articolo 18 (che “restituisce agli imprenditori la sacrosanta libertà di licenziare”), quella che liberalizza i contratti a termine e tutto l’ulteriore corredo di “riforme” servono a ingabbiare e irreggimentare il lavoro al servizio degli interessi di profitto dei padroni. Così come le riforme istituzionali, al di là della vomitevole resistenza delle burocrazie statuali, rispondono all’esigenza di concentrare il potere di decisione dello Stato al servizio dei padroni, tagliando parte (e solo minima parte!) delle rendite di posizione parassitarie che pesano sull’efficienza del sistema – cosa di cui non c’è da dolersi, ma il cui scopo è, per l’appunto, quello di oliare al meglio la macchina del sistema per indirizzarla ad un ulteriore attacco al proletariato –. La nostra risposta di lotta contro il governo Renzi non può limitarsi ad alcuni temi ma deve prendere in carico a 360 gradi l’intera politica dell’esecutivo.

Non c’è difesa dell’articolo 18 senza opposizione alle guerre imperialiste cui l’Italia partecipa

La politica antioperaia del governo Renzi non si gioca soltanto sul piano interno, ma ha la sua necessaria proiezione nell’azione di guerra aperta sul piano internazionale per la conquista di ulteriori e necessari “posti al sole”, come diceva il buon Benito. Il proletariato italiano deve intendere come la sua opposizione al governo Renzi sugli “affari interni” comporti il dovere di schierarsi contro questa offensiva economico-militare che, contemporaneamente, si rivolge all’esterno, ma con riflessi immediati e pesanti in casa nostra: lasciar passare questo indirizzo significherebbe trovarsi vincolati alle esigenze del “nostro” imperialismo sino all’intruppamento militare della “nazione” ed a non remoti e fantomatici fronti di guerra che noi proletari saremmo chiamati a pagare sulla nostra pelle (ed, allora, altro che gli attuali “sacrifici”!). Se tu, proletariato, chiudi gli occhi nei confronti della concorrenza aggressiva (destinata a non fermarsi ai mezzi “senza armi”: e già lo si vede benissimo!) ti tagli da te stesso le gambe: abbandoni o addirittura accetti di contrapporti ai tuoi fratelli di classe dei paesi esteri che costituiscono la sola tua “patria” di riferimento e con ciò, scardinato il tuo stesso fronte d’urto, ti predisponi ad essere ulteriormente colpito dalla tua “patria” borghesia!
Solo per limitarci ai più recenti capitoli, l’Italia ha partecipato alle guerre di distruzione in Irak e Afghanistan. Ha partecipato alla distruzione della Libia e supporta i “ribelli” che stanno replicando il copione in Siria. Partecipa alla coalizione contro il califfato islamico (che intanto si concentra in ulteriori devastazioni della Siria), dopo che sono stati gli stessi governi occidentali e i loro alleati Arabia Saudita e Qatar ad armare questi eserciti, il cui seguito tra le popolazioni locali trova peraltro giustificazione proprio nelle indicibili sofferente causate ad esse dalle devastanti aggressioni occidentali. In particolare il governo Renzi supporta e spalleggia Israele che questa estate per 50 giorni ha massacrato di bombe i reclusi di Gaza. Renzi spalleggia i criminali di Kiev che conducono un’analoga carneficina nel Donbass, dove l’Italia è al servizio delle provocazioni atlantiche che puntano a fomentare l’escalation militare contro Mosca (è su questo che pezzi dell’imprenditoria italica danneggiati dalle sanzioni alla Russia contestano Renzi, per i propri specifici interessi di settore della borghesia, senza, ovviamente, toccare il nodo della questione, che spetta al solo proletariato sciogliere)

Combattere le divisioni, unificare le nostre forze

Le guerre fomentate e condotte dall’Occidente segnano l’intero arco dei confini europei, dall’Ucraina, ai Balcani, all’Albania, all’intero Medioriente e nel Nordafrica (senza dimenticare Restore Hope in Somalia e la recente campagna nel Mali). All’arrivo degli immigrati – in particolare asiatici e africani – sulle nostre coste, con le migliaia di morti in mare da ascriversi a ennesimo crimine del civile Occidente, non è estranea né la storica spoliazione dei paesi più poveri da parte dei “nostri” Stati, già invasori colonialisti, né la serie infinita di guerre di distruzione recenti e in corso. Ciò non distoglie minimamente il ministro Alfano e l’intera orchestra borghese dalle consuete campagne volte a cavalcare il malcontento degli strati popolari, soffiando sulla divisione tra lavoratori italiani e lavoratori stranieri. Il buon capitalismo occidentale sta devastando e ricolonizzando (alla maniera “termonucleare” utile al sistema) un’infinità di terre “di colore”; ne richiama qui masse immense da utilizzare come arma di ricatto contro lo status precedentemente “conquistato” dai nostri lavoratori usufruendo della “libera disposizione” degli immigrati ad accettare condizioni salariali e normative di lavoro concorrenziali con quelle di noi indigeni. Per questo la nostra lotta contro il governo Renzi non può non prendere in carico anche questa questione, per respingere ogni campagna d’odio contro altri lavoratori, per integrare i lavoratori immigrati nella nostra organizzazione sindacale politica, per compattare le forze e scagliarle unite contro i veri responsabili del disastro che costringe masse di uomini e donne a fuggire dai propri paesi.
La politica del governo Renzi e del padronato va combattuta e respinta in blocco. E’ una politica che schiavizza il lavoro, che con la bolsa retorica su “l’Italia forte e bella” punta a irreggimentare il proletariato sia nella produzione e sia nell’adesione alle guerre imperialiste. Una politica che vuole aggregare i lavoratori al carro dei padroni, mentre fomenta la divisione nella nostra classe, tra giovani e più anziani, tra lavoratori italiani e immigrati, contro altri lavoratori dei paesi concorrenti e dei sempre più numerosi “stati canaglia” contro i quali le cancellerie atlantiche puntano le proprie armi micidiali.
Battere il governo Renzi è possibile unificando nella lotta l’insieme del proletariato. L’unità sindacale non è quella con Furlan e Angeletti, ma con la massa dei lavoratori da conquistare alla mobilitazione. A maggior ragione vanno unificate le forze con i sindacati e i non pochi lavoratori, cosiddetti extra-confederali, già scesi in lotta contro il governo Renzi: i Cobas della scuola, la Unione Sindacale di Base che ha proclamato lo sciopero generale del 24 ottobre, il Si-Cobas al quale aderiscono molti lavoratori della logistica. E su questo ci permettiamo di aggiungere che spetta in primo luogo ai lavoratori sindacalizzati al di fuori delle tre confederazioni maggiori di imporre alle proprie organizzazioni di non staccarsi dalla massa globale del mondo del lavoro con “azioni” settoriali di facciata spesso risolventesi in pure “azioni” di facciata per propagandare pubblicitariamente le proprie sigle di appartenenza “in proprio”, spezzando di fatto la possibilità di un lavoro rivolto all’insieme della classe.
Battere Renzi è possibile purché si lotti anche contro le direzioni sindacali che in questi anni hanno dismesso la lotta e alle quali mai più dovremo concedere la possibilità di smobilitare la piazza quando abbiano raggiunto i propri obiettivi! Il nostro obiettivo è respingere l’offensiva dei padroni non evitare la rottamazione della burocrazia!
Battere il governo Renzi è possibile, non in nome di un “capitalismo migliore” ma rimettendo al centro la prospettiva di classe, il programma del socialismo!

17 ottobre 2014

Nucleo Comunista Internazionalista

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