">
il pane e le rose

Font:

Posizione: Home > Archivio notizie > Imperialismo e guerra    (Visualizza la Mappa del sito )

4 Novembre

4 Novembre

(4 Novembre 2009) Enzo Apicella
91° anniversario della fine del Primo Macello Mondiale

Tutte le vignette di Enzo Apicella

costruiamo un arete redazionale per il pane e le rose Libera TV

SITI WEB
(Go home! Via dell'Iraq, dall'Afghanistan, dal Libano...)

Sovranità nazionale o lotta contro l’imperialismo?

volantino diffuso al corteo contro la guerra di Roma

(21 Marzo 2005)

Negli ultimi giorni abbiamo assistito all’ennesimo show di Berlusconi, che prima ha annunciato per televisione il ritiro graduale delle truppe italiane dall’Iraq, poi, per rassicurare Bush, si è rimangiato la parola. Ciò mentre i più continuavano ad essere assillati da alcuni quesiti: si saprà mai la verità sugli accadimenti del 4 marzo? Come andrà a finire l’inchiesta sul “fuoco amico” che ha ucciso un agente del Sismi, Nicola Calipari, ferito un suo collega e la giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena? A noi sembra evidente che si giungerà ad una conoscenza solo parziale delle cause di quell’evento. Ci verrà data la verità “ufficiale”, quella che non lede gli attuali rapporti tra Italia e Usa, quella che non intacca un’alleanza che – lo ha dimostrato il dietrofront del Cavaliere dopo aver annunciato il ritiro delle truppe - si basa sulla subordinazione di questo paese. Certo, la sera del 4 marzo, Berlusconi, per non rischiare l’impopolarità, ha dovuto recitare la parte del governante non sottomesso alla prima potenza del pianeta, chiedendo ad essa chiarimenti. Non gli è riuscito bene, perché non era nelle sue corde d’interprete, ma in compenso, il giorno dopo, s’è levata pure la voce di Ciampi, più ferma e credibile. D’altra parte, l’inquilino del Quirinale sostiene da sempre che, se l’alleanza italiana con gli States è inscindibile, essa deve comunque fondarsi sul reciproco rispetto. E’ anche in virtù della sua spinta se si è giunti a quella che, con evidente forzatura, viene chiamata commissione d’inchiesta mista. Essa farà trapelare più brandelli di verità di quanto gli States volessero all’inizio, ma mai fino al punto di ribaltare le attuali gerarchie tra i due paesi. Per inciso, la contropartita per fare un po’ di luce è assai pesante: all’Italia viene chiesto di adottare la linea dura con i gruppi della resistenza irachena, non pagando riscatti in caso di sequestri. E’ una linea, questa, che la grande stampa nostrana invoca da tempo. Non a caso, da un po’ di mesi a questa parte, la composita guerriglia che agisce in Iraq viene sempre più indistintamente racchiusa in espressioni come “terroristi” e “banditi”. Ora, tale atteggiamento porta con sé evidenti contraddizioni. Si pensi al mattatoio ceceno, dove Putin e gli indipendentisti si combattono senza esclusione di colpi, né risparmio di efferatezze. Di recente è stato ucciso Maskhadov, leader guerrigliero. Di lui s’è detto che è morto un fiero combattente che non aveva nulla a che vedere con i massacratori di fanciulli di Beslan. Bene, ma perché i giornali italiani mostrano una così grande capacità di discernimento sul fronte ceceno, unita al rispetto di chi lotta per una causa in cui crede e poi, quando parlano di Iraq, condannano inesorabilmente chiunque effettui azioni contro l’occupazione portata avanti dalla Coalizione dei volenterosi? Si è di fronte ad un cortocircuito logico. Che lorsignori – i pennivendoli di Corsera, Stampa e Repubblica - non si danno nemmeno più la pena di celare. Ormai della logica se ne infischiano altamente: hanno maturato la convinzione che in questo momento possono scrivere quello che gli pare e piace, tanto il dissenso sarà scarso. A cosa si deve tale arrogante certezza? Di sicuro, essa è incoraggiata da orientamenti come quello ora adottato da Rifondazione Comunista. Si pensi a quella che è stata definita svolta e che, invece, è solo la più gravida di conseguenze negative tra le tante giravolte che hanno distinto il cammino dell’organizzazione in questione. Essa è stata applaudita da opinionisti come Paolo Mieli e Lucia Annunziata, entusiasti soprattutto del discorso sulla nonviolenza. Ora, è curioso che il plauso ad una simile tendenza venga da chi – alla faccia della nonviolenza - si propone di rilanciare la partnership euroamericana sulla base del ritorno alla centralità di una Nato rinnovata ed in grado di muovere alla guerra in qualsiasi angolo del globo. Ma forse l’apparente paradosso può essere spiegato. Mentre parla di nonviolenza, Bertinotti non solo sfuma le sue posizioni sull’Iraq, riferendosi ad un non meglio definito “ritiro graduale”, ma accantona una campagna dalla lunga tradizione come quella per il disarmo delle potenze occidentali e contro le basi Nato e americane. Forse perché l’unico disarmo che in concreto vuole attuare è quello del movimento contro la guerra.

Il quale, a questo punto, deve lanciare un segnale forte. Anche a partire dal corteo di oggi, interno ad una scadenza mondiale indetta dal Forum Sociale di Porto Alegre. Secondo noi, in questa sede, non si tratta solo di ribadire che ancora si esiste contro chi, dopo aver inizialmente cavalcato l’onda del movimento, ora cerca di affossarlo. Ciò non basta, occorre esprimersi in modo netto, chiaro sulle questioni più dirimenti. Il che vuol dire non solo ribadire che è necessario il ritiro delle truppe italiane dall’Iraq, ma anche criticare il modo in cui nella sinistra alternativa s’è discusso sugli ultimi, drammatici accadimenti. Si è rilanciato il classico discorso sulla sovranità nazionale, sull’Italia che non deve essere succube degli States. Ora, siamo sicuri che questo sia l’approccio giusto? Peraltro, tale linea ha portato alcuni a dare credito a quel Ciampi che ha mostrato più vigore del Berlusca nella richiesta di spiegazioni agli States. Sono stati quindi lanciati appelli allo stesso Presidente che non solo ha sempre sostenuto – come capo delle forze armate – la missione irachena, spacciandola per umanitaria, ma si è anche prodotto in una costante rivendicazione del positivo ruolo italiano in tutti gli altri teatri di guerra. E’ vero, Ciampi non è Berlusconi. Se il Presidente del Consiglio è il servitore sciocco degli Usa, il pallido emulo dei neoconservatori che ne ripete meccanicamente le formule, Ciampi svolge un discorso diverso, basato sul rilancio del ruolo italiano nel mondo. E’ proprio in questa chiave, d’altronde, che esalta la partecipazione nostrana a tutte le imprese di guerra. Di più, è in questa ottica che Ciampi propugna a un tempo un rapporto di collaborazione stretta con gli States ed un autentico rafforzamento dell’Unione Europa, sia sul piano politico che su quello militare. L’ipotesi perseguita è quella di un occidente unito nei valori e capace di agire senza divisioni nelle operazioni belliche e/o pressioni politiche verso i paesi dove si concentrano le materie prime e le risorse energetiche. Risulta chiaro che tale ipotesi è quella che potrebbe portare più vantaggi ad un’Italia che, muovendosi come ponte tra le due sponde dell’Oceano, avrebbe modo di riconquistare un certo peso a livello internazionale. A nostro avviso, in questo progetto, perseguito lucidamente da Ciampi anche se non attuabile nell’immediato, sta la verità ultima di ogni discorso sulla sovranità nazionale. Perché l’Italia non è, poniamo, l’Uruguay, dove si cerca di liberarsi dal dominio di quegli States che considerano ancora l’America Latina come il proprio cortile di casa e dove il recupero della sovranità nazionale non può certo rimandare ad una politica di potenza. L’Italia è un paese imperialista! Come per tutti i paesi dell’occidente avanzato, la conquista dell’indipendenza può significare per essa diventare capace di svolgere azioni imperialiste per il proprio tornaconto o aumentare di peso in missioni svolte con gli States. Qualcuno obietterà che l’Italia è l’ultima ruota del carro imperialista. Può essere vero. Ma già in passato il fatto che il colonialismo nostrano fosse il più straccione d’Europa non gli ha impedito, sotto Mussolini, di gettare i gas tossici sull’Etiopia. Così come il nostro debole imperialismo in Somalia si è macchiato (lo abbiamo saputo nel giugno del 1997), di ogni tipo di atrocità, dagli stupri alle torture. E non si dimentichi che, oggi, i soldati italiani in Iraq agiscono per conto degli Usa, ma anche in nome di interessi nostrani (ad esempio, dell’ENI). I grandi giornali ci dicono che i “nostri eroi” sono mal equipaggiati. Ma l’obiettivo di questa campagna mediatica è evidente: spingere affinché il paese sia più preparato alle evenienze belliche, aumentando le spese militari. Ed è chiaro pure che la presunta carenza di mezzi dei “valorosi” soldati italiani non gli ha impedito di sparare sulle folle in rivolta a Nassiriya.

Ora, tutto ciò deve collocare la nostra lotta per il ritiro delle truppe dall’Iraq sotto una luce nuova, diversa. Si tratta – è ovvio – di continuare ad opporsi al progetto americano del Great Middle East, alla riconquista armata, da parte di Washington, della supremazia sul Medio Oriente. Ma si tratta anche di iniziare a contrastare con forza quell’imperialismo di casa nostra di cui troppe volte si sono ignorate le malefatte.

Roma, 19 marzo 2005

Corrispondenze Metropolitane – collettivo di controinformazione e d’inchiesta

Fonte

Condividi questo articolo su Facebook

Condividi

 

Ultime notizie del dossier «Go home! Via dell'Iraq, dall'Afghanistan, dal Libano...»

Ultime notizie dell'autore «Corrispondenze metropolitane - Collettivo di controinformazione e di inchiesta (Roma)»

6312